Ratzinger Teologo. Don Mauro Gagliardi, la Relazione Completa sul Libro.

11 Marzo 2024 Pubblicato da

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, pensiamo di fare una cosa gradita pubblicando la relazione di don Mauro Gagliardi alla presentazione del libro Rivelazione, ermeneutica e sviluppo dottrinale in Joseph Ratzinger, avvenuta nei giorni scorsi a Napoli. Buona lettura e diffusione.

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Presentazione del volume

Rivelazione, ermeneutica e sviluppo dottrinale in Joseph Ratzinger

Venerdì, 1° marzo 2024 – Sala Museo di Casa Ascione, Napoli

S & R

Origine del volume: Schülerkreise.

  1. Una teoria dello sviluppo dottrinale elaborata in base al pensiero di Ratzinger deve fondarsi in primo luogo sulla sua teologia della Rivelazione. È, infatti, nella teologia della Rivelazione che viene definito cosa significhi «dogma» e «dottrina». Ratzinger riassume brevemente la propria visione in questo modo:

«La Rivelazione di Gesù Cristo non è […] una meteora caduta sulla Terra, reperibile magari in qualche luogo come un masso di pietra da cui si possono prelevare campioni esaminabili in laboratorio. La Rivelazione, cioè l’avvicinarsi di Dio all’uomo, è sempre più grande di ciò che può essere racchiuso in parole umane, più grande anche delle parole della Sacra Scrittura. La Scrittura è la testimonianza essenziale della Rivelazione, ma la Rivelazione è qualcosa di vivo, di più ampio ed esteso; di essa è costitutivo anche il suo rivolgersi all’uomo e il poter essere accolta: altrimenti non sarebbe diventata Rivelazione. Se si sottolinea questa eccedenza della Rivelazione rispetto alla Scrittura, è chiaro che l’ultima parola non può spettare all’analisi stratigrafica – ovvero al metodo storico-critico – perché alla Rivelazione appartiene anche l’organismo vivente della fede di tutti i secoli passati. Proprio questa eccedenza della Rivelazione rispetto alla Scrittura, che neppure può venir racchiusa in un codice di formule, possiede nel cattolicesimo lo status epistemologico della “tradizione”».

Questa concezione si è formata mediante lo studio giovanile su san Bonaventura.

  1. Secondo Ratzinger, la nozione e la realtà di Rivelazione hanno il primato sulla nozione e sulla realtà del depositum fidei, perché le dottrine rivelate possono essere colte solo all’interno di un rapporto personale con Dio che si auto-rivela. Ne consegue che la teologia delle “due fonti” vada sostituita con una teologia dei “due flussi”: Scrittura e Tradizione sono veicoli della Rivelazione personale di Dio. La Rivelazione precede e supera ciò che dà accesso ad essa. Scrittura e Tradizione aprono la via alla Rivelazione, più che contenerla.

Uno dei punti su cui Ratzinger torna più volte, per motivare il suo rigetto della teologia delle “due fonti”, è che alla base di questa vi sarebbe una insufficiente distinzione tra ordo essendi e ordo cognoscendi. «Nell’ordo essendi, dal quale innanzitutto bisogna partire, la Scrittura e la Tradizione non rappresentano le fonti della Rivelazione, ma è al contrario la Rivelazione la fonte previa dalla quale scaturiscono Scrittura e Tradizione come i due flussi che trasmettono l’unica Rivelazione, cioè la Rivelazione è la realtà principale, l’unica fonte, come si esprime tutta la teologia pretridentina e il Concilio Tridentino stesso».

Scrittura e Tradizione, nell’ottica teologica delle “due fonti”, potevano essere facilmente considerate come indipendenti l’una dall’altra. Su questo il correttivo che Ratzinger ha apportato è importante.

  1. Nella Rivelazione abbiamo sempre due componenti: un segno storico percepibile all’esterno (apparitio) che, lasciato a sé stesso, rimane privo di significato; e una intima auto-manifestazione di Dio all’uomo (revelatio). I due formano insieme la manifestatiodi Dio. È da sottolineare che, per quanto Ratzinger evidenzi che la revelatio è più importante della semplice apparitio, perché solo con la revelatio la apparitio ha senso, la revelatio (o illuminazione interiore) è sempre in relazione a quel segno storico ed esterno dato da Dio. È vero che, per Bonaventura, il segno esterno serve di stimolo per risvegliare l’intelletto verso la revelatio – e in questo senso sembra che esso esaurisca la sua funzione quando la revelatio (chiamata anche inspiratio o illuminatio) viene ricevuta dall’uomo. Ma, di nuovo, il fatto che quest’ultima possa avvenire solo in relazione al primo, indica che la funzione dell’elemento visibile e storico della Rivelazione divina in realtà rimane, almeno come permanente punto di controllo delle ispirazioni dello Spirito Santo alla Chiesa e ai singoli credenti. Nel momento in cui Cristo ascende al Cielo, l’elemento storico della Rivelazione non scompare, ma cambia: al posto del vedere c’è l’udire, al posto della carne di Cristo, la dottrina della Chiesa (cioè l’ascolto della Parola nella fede).

 

  1. Ratzinger definisce bonaventurianamente revelationon in rapporto soprattutto al passato, bensì al presente agire di Dio nell’uomo. Più che “ciò che Dio ha detto in passato”, Rivelazione significa “ciò che Dio dice sempre di nuovo al credente nel suo oggi”. Lo studio filologico lo ha portato a notare che Bonaventura non usa mai la parola revelatio per indicare la Sacra Scrittura, mentre il Serafico si esprime in questi termini quando c’è una comprensione della Scrittura. Ad ogni modo, resta il fatto che noi riceviamo la dottrina dall’esterno, da altri (la Chiesa, lo Spirito Santo), e che non la creiamo noi, perché al contrario ci viene donata.

  1. In base alla precedente conclusione, si deduce che la relazione con Dio è possibile solo nel popolo di Dio e non in modo individualistico. Solo nella Chiesa si riceve, e quindi si può anche comprendere, la Parola di Dio. La Scrittura non è Rivelazione in quanto «morto libro storico»; essa «diviene Rivelazione solo nel suo annuncio, nelle mani della Chiesa vivente». Ne consegue che «per Tradizione si intende la spiegazione, in storia della fede della Chiesa, dell’evento di Cristo testimoniato nella Scrittura».

La Tradizione per Ratzinger non è soprattutto un contenuto, bensì un atto. Tradizione non è un insieme di dottrine che non si trovano nella Bibbia, bensì è la trasmissione della Bibbia stessa. Essa va capita più come evento che come contenuti. Tale trasmissione, tuttavia, non è semplice ripetizione, ma vera esplicitazione. Al riguardo si possono fare due osservazioni:

  1. a)Pur accogliendo questa accentuazione dinamica, bisogna mantenere che la Tradizione è sia azione sia contenuto. L’elemento principale sarebbe l’azione, ma non andrebbero del tutto esclusi i contenuti. Ratzinger, da giovane, ha parlato di «impossibilità» di sostenere un concetto materiale, o contenutistico, di Tradizione perché «non esistono verità singole che come tali, a partire dagli apostoli, sarebbero state trasmesse oralmente nella Chiesa; già la seconda generazione dopo gli apostoli non disponeva più di inequivocabili comunicazioni apostoliche, oltre la Scrittura, e non pretese neppure di possederne». In realtà, appare indubitabile che i Padri – come a volte scrivono esplicitamente – ritenessero di custodire delle dottrine non bibliche risalenti agli apostoli. Ma se le cose stanno così, come si spiega l’assenza di continuità nella trasmissione di tali dottrine? Come mai, come ricorda il Nostro, non si parla dell’Assunzione di Maria prima del sec. V? E perché altre dottrine per un certo tempo spariscono e poi riappaiono?

Qui bisogna tener presente, in primis, che non in tutti i casi ciò che non è documentato per iscritto non è mai esistito – altrimenti si ricadrebbe nel positivismo storiografico, ossia nel sostenere che ciò che non c’è scritto da qualche parte non è esistito; e questo è invece il rischio che Ratzinger ha voluto evitare. In secondo luogo, un’altra possibile risposta a queste domande proviene dal concetto, richiamato dal Teologo bavarese nel suo commentario a DV, di “tradizione decadente” o “deformante”: dato che la Tradizione non va compresa come una forza in crescita costante e in incessante processo migliorativo, è possibile che per certi periodi, anche lunghi, una dottrina che pur proviene dagli apostoli rimanga, per così dire, sepolta sotto la sabbia, ma che poi, come fiume carsico, ritorni alla luce anche a secoli di distanza. Essa è stata custodita nella preghiera, nella predicazione orale, magari da pochi; nonostante ciò, tale dottrina era lì, trasmessa oralmente come all’inizio, per quanto nessuno abbia deciso di scriverne.

Un altro argomento contro la concezione materiale della Tradizione, proposto più volte da Ratzinger, sostiene che affermare l’esistenza di contenuti rivelati nella Tradizione, accanto ai contenuti della Scrittura, implicherebbe la caduta nello gnosticismo. Questo perché gli gnostici ritenevano di possedere delle conoscenze ulteriori, al di là di ciò che tutti i cristiani potevano leggere nelle Scritture. Onestamente, anche questa argomentazione non è stringente. Gli gnostici, infatti, ritenevano di possedere delle dottrine non solo extra-bibliche, bensì anti-bibliche. La visione gnostica era in profonda contraddizione con quella biblica, come ben mostrarono i Padri che si opposero a tale eresia. Inoltre, tali contenuti extra ed anti-biblici erano di indole esoterica, essendo conosciuti solo dagli iniziati. È chiaro che se il concetto di contenuti dottrinali della Tradizione coincidesse con questa visione, sarebbe gnostico chi affermasse l’esistenza di una Tradizione materiale accanto alla Scrittura. Ma non è vero che chiunque affermi l’esistenza di verità oralmente trasmesse, oltre a quelle presenti nella Bibbia, sarebbe automaticamente uno gnostico.

Bisogna comunque riconoscere che Ratzinger non è totalmente chiuso all’idea di una Tradizione che, pur essendo considerata soprattutto e innanzitutto actio divina, sia – per quanto in modo molto secondario – considerata anche Tradizione oggettiva.

  1. b)In questa impostazione circa il tema della Tradizione, ciò che pure è da migliorare è una più chiara distinzione fra Tradizione e magistero, chiarificazione che nel pensiero di Ratzinger rimane un po’ in sospeso, sebbene DV 10 sia illuminante al riguardo. Il punto in cui Ratzinger si avvicina maggiormente a proporre simile chiarimento è forse un testo del 1986, in cui scrive che «la Chiesa stessa deve avere una voce; essa deve essere in grado di esprimersi come Chiesa e di distinguere la vera fede dalle sue falsificazioni». Ciò suppone che la fede e la teologia non siano la stessa cosa, ma che «la voce della teologia dipende da quella della fede e ad essa si riferisce: la teologia è interpretazione e deve rimanere interpretazione. […] Fede e teologia si diversificano dunque tra di loro come testo e interpretazione».

Bisogna ammettere, comunque, che la teologia della Rivelazione sviluppata dal Nostro negli anni giovanili ha come punto di forza quello di sottolineare l’ecclesialità della Tradizione e l’importanza della fede per la teologia.

  1. Un contributo veramente decisivo, tra i tanti offerti da Joseph Ratzinger, è costituito dalle sue riflessioni sull’ermeneutica biblica. Va valorizzata soprattutto la sua chiara affermazione del fatto che la Scrittura si capisce solo alla luce del Simbolo. Ciò è in pieno accordo con il modo in cui i Padri, e la Tradizione nel suo insieme, hanno sempre letto la Bibbia nella Chiesa.

Leggere la Bibbia in modo ecclesiale significa innanzitutto leggerla con il sensus fidei della Comunità che è il Corpo di Cristo. Un’ermeneutica adeguata – sottolinea l’Arcivescovo Ratzinger nelle catechesi sulla creazione tenute a Monaco – non è quella che cede alle ideologie del momento, ma quella che si mantiene nella fede della Chiesa. Un cristianesimo che interpreta la Parola dando il primato alle idee alla moda, è una religione che cerca scappatoie, non che dà spiegazioni. Questo sarebbe l’errore di chi intende male il significato dell’“oggi” della fede. Che la Scrittura non sia da leggere come un «morto libro storico», Ratzinger lo ha detto e ripetuto in tutti i modi, come pure ha detto e ripetuto che la Rivelazione continua ad accadere oggi nel cuore dei credenti. Dire questo, però, è tutt’altra cosa rispetto al ritenere che l’interpretazione della Scrittura debba sottoporsi alle mode del pensiero attuali. L’oggi di cui qui si parla è l’“oggi” della fede, quello hodie che si incontra nei testi liturgici: è il presente di Cristo, di colui che rimane sempre lo stesso «ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). In questo hodie della fede, il credente incontra Cristo vivente e fa amicizia, o meglio riceve amicizia, da lui. Innestato in questo rapporto, il cristiano può e deve capire la Scrittura del passato, che così è anch’essa sempre viva, giovane e attuale e non richiede alcun “aggiornamento”, perché l’aggiornamento continuo della Scrittura non è la “riscrittura” di essa, ma è Cristo e la fede viva in lui, donata dallo Spirito Santo che abita nei nostri cuori.

Oltre al possibile errore di leggere (o meglio, manipolare) la Scrittura secondo un malinteso “oggi”, vi è anche quello – in cui molti sono incappati – di leggere la Scrittura solo secondo lo “ieri”. Siamo con questo alla critica ratzingeriana all’esegesi moderna, la quale pretese di leggere i testi biblici non più guardando in avanti, bensì indietro; cioè non più alla luce di Cristo, ma solo alla luce della loro vera o presunta origine storica. Notiamo che questo errore può essere compiuto ad alti livelli accademici, in pubblicazioni scientifiche di esegesi, ma anche ai livelli più ordinari della predicazione e della catechesi, o del governo ecclesiastico. Ciò avviene quando si dice che gli insegnamenti biblici sono vecchi, sono superati, perché sono stati scritti nel passato. Quando però si fanno queste affermazioni, si opera anche una selezione tra quelle che sarebbero affermazioni bibliche vecchie e altre che sarebbero invece attuali e quindi resterebbero in vigore. Ma chi decide su quali temi i testi biblici sono sorpassati e su quali sono attuali? In base a quali criteri – e stabiliti con quale autorità – si opera questa selezione, si ritaglia questo canone nel canone?

Ai possibili errori interpretativi dovuti a fraintendimenti di ciò che significhi “presente” o “passato”, si aggiunge ancora la possibilità di cadere in errore se si interpreta scorrettamente il significato del “futuro” della fede. Se ciò accade, si pretende di possedere uno sguardo tale verso il futuro, per cui siamo noi che dobbiamo stabilire la direzione verso cui andare, quali sono i valori che vogliamo incarnare oggi, gli obbiettivi pastorali da realizzare, la dottrina che desideriamo tenere e quella che preferiamo scartare. Torna, in poche parole, il problema vichiano del verum quia factum, cui Ratzinger faceva riferimento in Introduzione al Cristianesimo. Questo orientamento al futuro non coincide, però, con l’orientamento escatologico verso il Cristo risorto e parusiaco. Si tratta, al contrario, di qualcosa che facciamo noi e che, al tempo stesso, fingiamo che provenga dalla Parola di Dio, “interpretata” con sguardo profeticamente rivolto al futuro. Non è il futuro di Dio quello di cui si parla in questi casi, ma uno scimmiottamento umano di esso.

Alla luce degli studi bonaventuriani, Ratzinger è arrivato a comprendere che i concetti di inspiratio e revelatio interiore non si applicano solo agli agiografi, ma anche ai fruitori della Sacra Scrittura, i quali hanno costantemente bisogno degli aiuti divini per poter leggere al di là della lettera del testo. In questo senso, senza vita di preghiera e senza vita di grazia, non si capisce davvero la volontà di Dio espressa nel testo biblico. Ritorna così il tema balthasariano, ma anche ratzingeriano, del rapporto inestricabile tra teologia e santità, applicato qui anche in chiave ermeneutica.

Vi è comunque un continuo circolo ermeneutico tra testo materiale e lettura spirituale. Se, come detto, il testo materiale da solo non basta, è vero anche il contrario: che l’interpretazione operata nella fede si esercita sul testo. In Rivelazione e Tradizione, Ratzinger scrive che la subordinazione della Scriptura alla fides (il Simbolo) rappresenta la forma essenziale del concetto di Tradizione. Per sua natura, quindi, la Tradizione è sempre interpretazione; essa non esiste indipendentemente dalla Scrittura, essendo piuttosto l’esplicazione, l’interpretazione “secondo le Scritture”. Questo pensiero è di grande potenza. Esso rappresenta un aiuto sostanziale all’elaborazione di una teoria dell’esegesi biblica che sia adeguata al proprio oggetto di studio.

Nonostante questo sincero apprezzamento, il cui valore resta, bisognerà tuttavia anche qui notare che, anche in questo caso, non è chiaro in cosa consista esattamente la distinzione fra Tradizione ed esegesi, come pure fra Tradizione e teologia. Dato che anche l’esegesi e la teologia sono “interpretazione” della Scrittura, come lo è la Tradizione, in che consiste la differenza tra queste interpretazioni? Oppure anche esegesi e teologia sono espressione della Tradizione? E se questo fosse il caso, in che senso e in che misura lo sono? Sembra che ci sia bisogno di un’ulteriore riflessione per elaborare meglio questi aspetti.

  1. Arriviamo così a trattare più direttamente dello sviluppo dottrinale. Sembra opportuno iniziare la riflessione in materia domandandosi cosa sia un «dogma». Se si va alla ricerca di una definizione di dogma nei testi di Ratzinger, quanto di più vicino ad essa si riesce a trovare è la sua affermazione secondo cui il dogma è la «forma ecclesiale di ermeneutica della Sacra Scrittura», dove per ermeneutica, o interpretazione, «si intende la trasposizione del linguaggio equivoco della Scrittura nella univocità del concetto, che chiarisce il nucleo oggettivo e permanente di ciò che in essa viene inteso».

Questa definizione è armonizzabile con quella, dal sapore più classico, che si incontra nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che non è ovviamente un testo teologico di Ratzinger, ma è stato redatto sotto la sua guida. Il n. 88 del Catechismo definisce i dogmi come «verità contenute nella Rivelazione divina» o «verità che hanno con quelle una necessaria connessione». Senza entrare qui in un approfondimento di queste definizioni, recepiamo il loro contenuto essenziale: un dogma è una verità contenuta nella Rivelazione o una verità che è connessa a quelle contenute nella Rivelazione per un nesso intrinseco. Mentre il Catechismo sottolinea l’origine divina della dottrina (essa viene da Dio; si trova nella Rivelazione divina), Ratzinger, come privato teologo, ne evidenzia la formulazione umana (nella quale interviene comunque lo Spirito Santo): la dottrina è la forma ecclesiale/concettuale di ermeneutica della Scrittura. Anche qui si potrebbe avanzare una richiesta di maggior precisione: cosa distingue questa ermeneutica della Scrittura da altre ermeneutiche, che sono anch’esse ecclesiali, quali l’esegesi e la teologia? Alla domanda si potrà rispondere approfondendo un po’ di più la riflessione sullo sviluppo dottrinale.

Cosa ha detto Ratzinger riguardo a questo tema? Innanzitutto, egli nota che, in linea con Agostino, Bonaventura non vede all’opera nella storia uno sviluppo sostanziale, ma solo accidentale, della dottrina. Nonostante ciò, il Teologo bavarese pensa che vi siano elementi del pensiero bonaventuriano che permettono di accreditare una visione non statica della dottrina e ritiene che si debba vedere un dispiegamento della fede all’interno della storia della Chiesa. Il Nostro giustifica questa visione in base all’unità della storia, non solo tra l’Antico e il Nuovo Testamento, ma anche tra il Nuovo Testamento e il tempo della Chiesa. Egli non vede uno stacco netto tra la fine della redazione del Nuovo Testamento e il tempo della Chiesa. All’interno di questa visione, resta chiara una cosa: come nel passaggio da Antico a Nuovo Testamento non vi è una mutazione radicale, ma solo una esplicitazione nel senso del compimento della fede (sicché il Nuovo è più dell’Antico ma non contro l’Antico, né lo contraddice), così avviene anche nel rapporto tra Nuovo Testamento e dottrina esplicitata nel tempo della Chiesa. Lo sviluppo della fede compiuto dalla Chiesa attraverso i secoli sarà, in un certo senso, qualcosa di più del Nuovo Testamento, ma non sarà contro di esso. Per Bonaventura, infatti, la apparitio (Rivelazione pubblica) si è conclusa in Cristo ed è confluita nella doctrina fissata e non variabile. La revelatio continua nel senso sopra precisato, non nel senso che essa produrrebbe, col passare del tempo, una variazione o persino un annullamento di quanto già consegnato in passato mediante la apparitio.

In base allo studio delle opere posteriori di Bonaventura, la posizione di Ratzinger si precisa ulteriormente: dal punto di vista oggettivo, la Scrittura è certamente compiuta; il suo significato però è «da ricercarsi in uno sviluppo continuo che si snoda lungo tutta la storia e che non si è ancora concluso. […] Dalla Scrittura si sviluppano dunque conoscenze sempre nuove, in essa, per così dire, accade ancora qualcosa; e questo accadere, questa storia, andrà avanti fintantoché ci sarà una storia». Si incontra qui un concetto diverso rispetto a quello, sopra accennato, di Tradizione come interpretazione della Scrittura. In queste opere della maturità, Bonaventura aggiunge che non solo è la Tradizione a far sbocciare la potenzialità della Scrittura, o almeno a interpretarla, lungo la storia; è la Scrittura stessa che sboccia, grazie alle multiformes theoriae in essa contenute. Per quanto il Bonaventura filo-gioachimita del commento In Hexaëmeron accolga in qualche modo l’idea di una crescita della Scrittura stessa, tale crescita non viene mai presentata come un rinnegamento o superamento di Cristo e del Nuovo Testamento. Per dirla in termini moderni, si tratta di uno sviluppo organico di una realtà che permane identica a se stessa, non di una evoluzione sostanziale, che trasforma una cosa in un’altra.

Si dovrà aggiungere che anche il magistero della Chiesa ha dei limiti. Se è vero che la Chiesa ci dona la regola della fede, che svolge funzione regolativa sulla Bibbia stessa – in quanto la Bibbia deve essere letta secondo il Simbolo della Chiesa – d’altra parte esiste anche il limite della littera Scripturae, del senso letterale della Bibbia. Si tratta di ciò che della Scrittura può essere conosciuto senza ambiguità, possiamo dire senza dubbio, sia da parte dell’esegesi scientifica che dalla semplice lettura di un qualsiasi credente. Questo senso immediato, chiaro e comprensibile a tutti della Sacra Scrittura rappresenta, a sua volta, un limite per il magistero, nel senso che ciò che la Bibbia dice non può essere contraddetto dai pronunciamenti della Chiesa. La Bibbia resta così il criterio principale per evitare ogni arbitrio magisteriale e, così facendo, si difende la sarx (carne) della Sacra Scrittura, la sarx del Logos stesso, contro ogni tendenza gnostica.

  1. Trattando dello sviluppo dottrinale, Ratzinger cerca di evitare i vicoli ciechi di visioni, tra loro opposte, che potremmo chiamare archeologismo, da una parte, e progressismo dogmatico, dall’altra. Se è vero che non si può identificare (come i protestanti) la storia dei dogmi con una inevitabile decadenza, neppure essa può essere assorbita dall’idea di progresso, come se la storia del dogma fosse in costante ascesa perfezionativa. C’è un aspetto ambivalente nella storia dei dogmi: essa può segnare progresso e sviluppo nell’assimilazione, oppure minaccia di perdita e alienazione. Per questo, il nostro Autore è convinto che «in lingua tedesca è meglio usare “storia” [Geschichte] invece di “evoluzione” [Entwicklung] del dogma».

La possibilità di uno sviluppo (concetto molto diverso da quello di evoluzione) della dottrina radica, per Ratzinger, in due ordini di fattori: da una parte, la dottrina è sottoposta alle leggi della storia; dall’altra, è sottoposta alle leggi del linguaggio. Entrambi i condizionamenti sono inevitabili e fanno parte di una certa – per così dire – “debolezza” o provvisorietà dei pronunciamenti dottrinali della Chiesa. D’altro canto, la storicità della dottrina e il fatto che essa venga oggettivizzata in proposizioni verbali rappresentano anche la sua forza, perché rendono la dottrina comunicabile, di generazione in generazione, nella continuità dei secoli. Tra le funzioni del linguaggio – spiega Ratzinger – una delle principali è proprio quella di permettere quella comunicazione che è capace di unire generazioni diverse mediante l’invio e la ricezione di messaggi linguistici. Ciò implica anche che il messaggio vada sempre di nuovo riappropriato dagli uditori delle diverse epoche; eppure, la comunicazione della stessa verità resta possibile proprio mediante la doctrina.

  1. Ratzinger riconosce un duplice principio per l’interpretazione dei dogmi: a) In quanto spiegazione della Scrittura, il dogma va costantemente ricondotto all’oggetto della sua interpretazione; b) Il dogma va compreso nell’unità della sua storia particolare. Bisogna ricordare che una delle dimensioni principali – anche se non l’unica – della storia del dogma è l’«unico soggetto Chiesa». Il dogma è quindi legato anche all’esistenza, alla scelta di vita per Cristo all’interno della comunione sacramentale della Chiesa. Ora, anche questo va spiegato un po’ meglio, riprendendo le osservazioni ratzingeriane sul tema dell’esperienza.

Ai nostri giorni accade abbastanza di frequente che ci si riferisca volentieri all’esperienza come fonte primaria della dottrina e come valore sommo, tanto nella liturgia quanto nella vita spirituale. È importante però capire di che tipo di esperienza si tratti. Nel 1982, Ratzinger ricordava che san Tommaso d’Aquino, nonostante le sue preferenze aristoteliche, ha riconosciuto valido quel principio che la tradizione platonico-agostiniana ha espresso con la frase Deus semper maior. La creazione e la storia – e la nostra esperienza di esse – servono come mezzi per la Rivelazione, ma Dio resta sempre più grande rispetto a tali mezzi. Perciò, non solo il linguaggio dogmatico, ma anche (e ancor più) l’esperienza di Dio ha dei limiti. La vera esperienza di fede è quella che tiene seriamente conto di questa verità e, quindi, che è disposta a superare anche se stessa, in quanto esperienza, verso la verità di Dio, che supera ogni esperienza.

Dell’esperienza non si può fare a meno, né nella vita né nella fede, ma l’esperienza da sola non basta e può persino essere ingannevole. Ne consegue anche qui un criterio di sviluppo dottrinale: la verità del Deus semper maior non si può dedurre dai desiderata espressi da coloro che fanno esperienza della vita e della fede. La dottrina non si stabilisce mediante un ascolto delle esperienze, essendo piuttosto le esperienze che devono sempre rimanere in ascolto della Parola. Per essere espliciti, i sondaggi di opinione sono molto utili a livello di sociologia della religione e possono esserlo anche a livello pastorale. Sarebbe però completamente errato utilizzare i risultati di tali sondaggi come criterio di sviluppo dottrinale.

Non si tratta di cambiare il Simbolo della fede, bensì di ripresentarlo all’uomo di oggi affinché quelle parole restino intellegibili per lui. Ratzinger resta fedele ai principi della sua visione teologica, quando scrive che per il vero sviluppo dottrinale «è sufficiente l’interpretazione, la quale però è per l’appunto responsabile nei confronti della parola data e sempre di nuovo rimanda ad essa invece di abbandonarla». In nessun luogo Ratzinger parla di una interpretazione attualizzante della Scrittura che vada contro ciò che questa dice.

L’evoluzione dottrinale è qualcosa che Ratzinger ha escluso sin dall’inizio. In un breve saggio, in cui analizza il rapporto tra Scrittura e Tradizione in Bonaventura a partire dalla questione del Filioque, il Professore bavarese nota che, per il Serafico, la dogmatizzazione di contenuti dottrinali – quale appunto l’inserimento nel Credo della clausola sulla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio – avviene per tre motivi: ex fidei veritate (scaturisce dalla verità stessa della fede), ex periculi necessitate (in risposta a qualche eresia), ex ecclesiae auctoritate (in forza dell’autorità della Chiesa). Anche qui, tra i criteri di sviluppo dottrinale non figura la necessità di adeguarsi ai tempi o alla mentalità corrente. Bonaventura, infatti, ricorda che noi cattolici, nello sviluppare il dogma, non corrumpimus, sed perficimus. Lo sviluppo dottrinale non equivale ad una corruzione della Scrittura (il che sarebbe una mutazione evolutiva e non uno sviluppo organico), bensì ad un perfezionamento della realtà stessa, che quindi in quanto tale non cambia, né può cambiare. «La dogmatizzazione sarebbe quindi lo sviluppo del senso che porta solo a termine (perficit) ciò che già intendeva la Scrittura». Qui «la continuità resta fortemente rimarcata».

Bonaventura ammette anche un certo carattere di relativa novità, lì dove interviene uno sviluppo dottrinale. Nel caso specifico del Filioque, fu certamente una novità l’aver inserito tale clausola all’interno del Simbolo della fede. Si trattò, chiaramente, di una novità non nel senso della corruzione dottrinale, ma dell’espansione coerente. Il Serafico sostiene che il potere di introdurre simili novità è stato dato da Cristo alla sua Chiesa. È questo il criterio della ex ecclesiae auctoritate, che Bonaventura identifica sostanzialmente con il munus docendi del successore di Pietro sulla cattedra romana. «Qui il pieno potere apostolico del papa – scrive Ratzinger – è elevato a principio del progresso nella Chiesa; esso è anteposto ai concili del passato in modo che, se non può certo contraddirli quanto alle loro asserzioni positive, tuttavia gli è data facoltà di affermare qualcosa di nuovo, andando oltre, anzi, se necessario, anche contro di essi». Quest’ultima affermazione necessita di essere approfondita, dovendosi precisare cosa intenda dire Ratzinger quando scrive che il Papa può andare non solo oltre, ma in certi casi persino contro i concili del passato. Quando egli afferma questo, intende che l’autorità pontificia è tale che – lì dove non si tratti di dottrine definite – il Papa può non solo aggiungere, bensì anche correggere i concili del passato. Non si tratta, allora, di andare contro la dottrina infallibilmente insegnata, perché questo è precluso anche al Sommo Pontefice, il quale deve «confermare i fratelli» (cf. Lc 22,32), non stravolgere la loro fede. Ma nei casi in cui i concili non si sono pronunciati in modo definitivo, il Papa può andare “contro”. Un esempio di ciò è l’insegnamento di Pio XII riguardo alla materia del sacramento dell’Ordine, che andò “contro” ciò che – senza definirlo – aveva detto il Concilio di Firenze.

Tutto ciò, comunque, sembrerebbe concentrare molto l’attenzione sul ruolo del Papa e, più in generale, dell’autorità magisteriale nello sviluppo dottrinale. Questo problema è stato segnalato di recente dal dogmatico di Münster, Michael Seewald. Questi mette in luce il fatto che il concetto “aperto” di Rivelazione proposto da Ratzinger, con la visione di sviluppo dottrinale che comporta, se, da un lato, «può aprire al dibattito con una libertà fino a questo momento insospettata», dall’altro, qualora «si colleghi con gli strumenti di un’autorità suscettibile di fronte alle discussioni, potrebbe anche inibire un dialogo aperto». Il punto è che, se per distinguere ciò che è rivelato da ciò che non lo è, non si può più riferirsi a Scrittura e Tradizione come “fonti” in cui la Rivelazione è attestata in forma di revelata, «come si può ottenere una determinazione chiara e condivisa di ciò che realmente, e perciò anche in modo vincolante, è rivelato o intimamente connesso con la rivelazione?».

Seewald annota, in conclusione, che «la nozione ampia di “rivelazione” propria di Ratzinger, dunque, da una parte apre uno spazio di flessibilità e di riforma; ma, allo stesso tempo, è esposta a strumentalizzazioni, nelle quali la forza dell’autorità minaccia di sostituirsi a quella degli argomenti, perché a questi viene in un certo senso sottratto il materiale positivo sul quale si fondano e sulla base del quale possono affermare che una cosa è rivelata o non rivelata. Se si portasse questa impostazione fino in fondo, la teologia come tale sarebbe finita».

Osserviamo, a margine di queste parole, due cose: la prima è che ciò che Seewald presenta come scenario ipotetico appare essere, purtroppo, una situazione reale in cui spesso già navighiamo. In secondo luogo, notiamo che la teologia di Ratzinger potrebbe essere oggetto – su questo punto particolare – di una piccola nemesi storica. Tra gli altri motivi, egli ha sviluppato la sua teologia della Rivelazione, essendo sullo sfondo il dogma del 1950, proprio per mantenere una nozione ampia del concetto di Rivelazione, nella quale sia chiaro che tutta la Chiesa e non solo i gerarchi sono custodi della dottrina, sì da scongiurare un uso arbitrario e non biblicamente fondato del munus docendi. Paradossalmente, questo modello teologico potrebbe essere malinteso o manipolato, per mettere in atto strategie ecclesiali opposte a quelle che il suo Autore prefigurava e desiderava.

  1. Un punto di grande forza della teologia della Rivelazione di Ratzinger è il suo netto cristocentrismo, ugualmente di origine bonaventuriana. Più concretamente, si tratta del legame nell’oggi con ciò che Dio ha detto e operato in Cristo. Siccome Cristo è sempre vivo, viva è anche l’opera della sua Rivelazione, che perdura in ogni epoca, che rimane sempre presente. Si tratta però, come Ratzinger ben spiega nelle sue riflessioni sull’ermeneutica e nella sua trilogia su Gesù di Nazaret, non di un Gesù ricostruito a tavolino, ma del “Gesù dei Vangeli”. Anche qui la Bibbia si manifesta come grande argine alla cosiddetta “tradizione deformante”, che dimentica e a volte persino manipola la Parola di Dio.

Fedeltà alla Parola donata in passato non significa però archeologismo o tradizionalismo. Per Ratzinger, la Tradizione è la vita odierna della Parola detta in passato. Va qui valorizzato il legame fra Tradizione e successione apostolica. Ratzinger interpreta la Tradizione «non tanto come principio materiale quanto formale; essa in ultima analisi significa una fondamentale decisione ermeneutica, tale per cui la fede non è presente altro che nella continuità storica dei credenti, deve essere trovata in essa, non contro di essa».

Non v’è necessità di delineare una Tradizione formale contro una Tradizione materiale, un atto contro un contenuto. Accetteremo che la Tradizione è principalmente ermeneutica della Scrittura sempre viva nella storia del popolo di Dio; e, al tempo stesso, manterremo che inevitabilmente questa ermeneutica, sempre viva e mai archeologica, produca e contenga anche dei contenuti materiali, dei quali alcuni sono presenti sin dalle origini (le tradizioni consegnate oralmente dagli apostoli: cf. Gv 21,24-25), mentre altri sono sbocciati dai primi, per naturale sviluppo organico attraverso i secoli.

Il modo per non cadere nel tranello di una “tradizione deformante” è di applicare allo sviluppo dottrinale lo stesso criterio emerso studiando il tema della Tradizione, della teologia e del magistero: vi è una littera Scripturae che non può essere trasgredita. Anche qui troviamo, in fondo, un et-et, perché non si tratta di un puro biblicismo, bensì di un’accoglienza della Bibbia nell’ottica di quella sana ragione naturale (filosofia e senso comune) che riconosce il principio di non-contraddizione come base di qualunque pensiero e discorso umani che siano minimamente sensati.

In una visione dinamica dello sviluppo dottrinale, quale quella consegnataci da Ratzinger, bisognerà coltivare in ogni epoca l’apertura mentale a «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7). Ciò dovettero fare i professori di Ratzinger che si erano opposti, prima della definizione, al dogma dell’Assunzione di Maria e ciò deve fare ogni cattolico che crede nell’assistenza dello Spirito Santo alla Chiesa. Lo Spirito Santo, infatti, ha la capacità di condurre la Chiesa alla «verità tutta intera». Egli sa far «ricordare» ai credenti la Parola di Cristo (cf. Gv 16,4.13). Questa apertura al vero, proprio in quanto apertura, può riservare novità e sorprese, ma non può tollerare la contrapposizione dialettica. La Verità è Cristo e Cristo rimane sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre (cf. Gv 14,6; Eb 13,8). Il Logos divino è certamente superiore alla logica umana (cf. Is 55,9); è superiore ma non le si contrappone.

La sana apertura alle “novità” di Dio nel processo della Tradizione (si pensi all’introduzione di homoousios o di transubstantiatio) ci pone nella condizione interiore anti-archeologistica. Questa apertura, in concreto, mantiene viva la sete di approfondire sempre di più il deposito della fede, in modo da scoprire e farne sviluppare le gemme nascoste o fin qui non adeguatamente osservate nella loro bellezza. Di tanto in tanto lungo la storia, la Chiesa arriva anche a compiere degli atti solenni per ratificare in modo incontrovertibile queste scoperte e questi sviluppi. La predicazione dei Pastori, la contemplazione e la preghiera di tutti i credenti, come pure lo studio dei teologi, lavorano a questo: il vero sviluppo dogmatico, esempio massimo, o almeno più tangibile, della vera Tradizione.

Alla luce di questo, dobbiamo anche chiederci: molti parlano di sviluppo dottrinale, ma chi sta lavorando ad esso? Chi sta studiando qualche tema per preparare un’eventuale, futuro pronunciamento dogmatico? Sembra, al contrario, che ogniqualvolta si paventi, per quanto in forma ipotetica, la possibilità di definire un nuovo dogma, vi sia una generale levata di scudi, motivata perlopiù in base al fatto che “tale dottrina non è biblica”, oppure che essa “creerebbe ulteriori ostacoli nel dialogo ecumenico”.

Simili atteggiamenti non solo non coincidono con la visione di Ratzinger sulla Bibbia e sulla Tradizione, ma addirittura sembrano voler togliere allo Spirito Santo il diritto di compiere il suo lavoro, che è quello di condurre la Chiesa alla verità tutta intera. Qui bisognerebbe applicare il criterio cui ricorse san Pietro dinanzi alla famiglia di Cornelio (cf. At 11,17) e chiedersi: chi siamo noi, per porre impedimento a Dio? L’unico limite a Dio è Dio stesso. Da qui deriva appunto il fatto che non possiamo manipolare la Parola di Dio allo scopo di creare una dottrina “aggiornata”, al passo coi tempi. Salvato, però, il limite invalicabile della «contraddizion che nol consente», è necessario rimanere aperti alle vere novità di Dio, a quelle sorprese che nello sviluppo dottrinale della vera Tradizione non tradiscono, bensì ridicono incessantemente l’unica e medesima Parola che salva, Gesù Cristo, il Verbo fatto carne, che offre a tutti gli uomini la sua amicizia.

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14 commenti

  • Stilobate ha detto:

    @Mimma: Quanto Lei scrive, cara Mimma, mi trova in gran parte concorde, e non solo in questa occasione. In un’epoca di smarrimento entropico quale è quella che stiamo vivendo, si incontra veramente di tutto: atei non confessi che si affannano a dimostrarti che ai sensi dell’art. X co. Z subco. Y il papa non è il papa; biblisti pronti a giurarti che san Paolo era un impostore, gran pervertitore di un originario messaggio gesuano; cultori compulsivi di vere o presunte rivelazioni private, da loro ritenute più fededegne di qualsivoglia altra fonte; improbabili signore che, protestando di non voler giudicare nessuno, tacciano il prossimo di scisma ed eresia mentre spacciano per antipapa il romano pontefice; mistici fai da te di ogni lega ed impasto; teologhetti in erba o in arbusto che ti liquidano Benedetto XVI come un traviato modernista hegeliano senza averne compreso lo spessore spirituale, prima ancora che la lucidità intellettuale e la lungimiranza pastorale; e molto altro ancora. *** Il cattolicesimo tedesco ha caratteri molto particolari: potremmo anzi dire che la ricezione germanica del cristianesimo è veramente sui generis e ha dato luogo, come Lei giustamente osserva, a un milieu non poco “ambiguo”. Benedetto XVI si portava dentro, nel bene e nel male, parte di quel problematico retaggio. Se a ciò si aggiunge che mentre era ancora nel pieno possesso della propria integrità mentale decise di abbandonare il soglio – forse memore della tarda parabola wojtyliana, quando il pontefice, volendo restare al posto assegnatogli dal Signore, finì per trovarsi eterodiretto – qualche ombra sulla sua figura fa in effetti la sua comparsa. Ma al netto di tutto ciò, Benedetto XVI ci ha offerto un esempio concreto di profonda spiritualità, e se il clero e il popolo cattolico ne avessero seguita la traccia, molto sarebbe stato acquisito, che invece è andato perduto. *** La Sua breve riflessione, Mimma, sulla Rivelazione cristiana nella retta interpretazione cattolica, cioè sulla Rivelazione come composto dinamico e inscindibile (stavo per scrivere sìnolo) di Scrittura e Tradizione, è molto al punto e Le fa onore. Mi permetta tuttavia di osservare che il nostro amico Matto non ha tutti i torti a segnalare il ruolo ultimativo, decisivamente ultimativo, del soggetto, del singolo credente. Egli fa bene, io penso, a richiamare la nostra attenzione, sempre troppo torpida, sull’imprevedibile mobilità dello Spirito e altrettando bene fa a ricordare che la dimensione soggettiva (io preferisco chiamarla personale) è il passaggio di ultima istanza di qualsiasi messaggio spirituale: le cose infatti stanno proprio così; e non solo e non tanto perché diversamente ne andrebbe della libertà del singolo, quanto perché in tal modo è conformata la nostra possibilità di conoscere, intuire, esperire; è un’impronta della nostra Origine, e nello stesso tempo un segno del nostro limite, della nostra finitezza. Non sarà un caso, Mimma, se a un certo punto del Suo intervento Lei scrive: “Questo a mio avviso significa che…”. *** La sfera personale è, dicevo, passaggio ultimativo, ma, foss’anche minimo, ineludibile e dunque decisivo. E un’eco un po’ prosaica di questa specialissima sfera lo si può ravvisare in nozioni tutt’altro che estranee all’orizzonte di pensiero di un cattolico: per esempio (il primo che mi viene in mente così su due piedi) nella nozione di “foro interno”, spazio per sua costituzione inaccessibile, insindacabile, ingiudicabile? *** Spero che il caro Matto non se ne abbia a male se mi permetto di mutuare la sua metafora sul viaggio “in sicurezza”: il fatto che nel nostro viaggio spirituale di cristiani siamo chiamati anzitutto ad affidarci, e totalmente, a Gesù, non ci dispensa dall’onere/onore di provare a rendere sempre più tersa, profonda e piena la comunione con Lui; e se ciò comporta, come scrive il nostro amico Matto, una certa dose di “rischio”, benvenuto sia il rischio. Gesù, d’altronde, non ci offre un paio di pantofole e una coperta termica, né una poltrona in business e il pilota automatico, ma la croce e un cammino impegnativo. A ben vedere, poi, chi preferisce farsi scarrozzare a cura di terzi non va affatto esente da rischi, primo tra tutti quello ritrovarsi, per timore dell’“avventura”, confitto nella “sventura”. *** La saluto cordialmente. E insieme a Lei il buon Matto. Grazie per il vostro interessante confronto.

  • Mimma ha detto:

    Matto mattissimo,
    non c’è vero amore dove non c’è libertà.
    Se dunque la libertà é finalizzata ad amare Cristo, qual è il problema?
    Ci può essere il rischio del tradimento.
    Anche qui entra in gioco la libertà.
    E allora?
    Allora significa che la libertà di per sé è un pericolo.
    Abbisogna di limiti ben definiti, chiari, che Lei definisce formulette.
    Non le va di essere inquadrato…
    La Chiesa è una grande famiglia di matti, sa?

    • il Matto ha detto:

      Gentilissima,

      mi consenta di rilevare che nel mio intervento il termine dispregiativo “formulette” non compare.

      Piuttosto, ho citato le parole di Ratzinger: “eccedenza della Rivelazione rispetto alla Scrittura, che neppure può venir racchiusa in un codice di formule” e, in seguito, ho scritto di “formule dedotte dalle Scritture”.

      Lei afferma: “la libertà di per sé è un pericolo”: certamente! Se no che libertà sarebbe?

      Poi dice che non mi va di essere inquadrato: bersaglio centrato! Non da oggi va di moda lo slogan “in sicurezza”. Tutto ha da essere fatto “in sicurezza”, ma questa, a mio matto, mattissimo avviso, è una chimera, a maggior ragione per quanto riguarda il percorso non (soltanto) religioso ma anche e soprattutto spirituale.

      Procedere “in sicurezza”? Una sorta di “viaggio organizzato” che addormenta l’anima?

      No. Preferisco l’avventura che mi fa sentire vivo e mi incita a rimanere sveglio.

      A rimanere sveglio, dico: che poi è quello che conta.

      Un affettuoso abbraccio.

  • Mimma ha detto:

    Carissimo Matto,
    Capisco che Benedetto le sembri affine, ma attenzione!
    Quando dice che la Rivelazione é Illuminazione, non si ferma lì…
    Questa sua affermazione intende chiarire due aspetti.
    Il primo riguarda la differenza tra Rivelazione e Scrittura e , in definitiva, il raporto tra la creatura e il Creatore.
    Il secondo riguarda i cattolici in particolare, e tocca la questione della Tradizione, da molti esegeti messa in discussione e rifiutata addirittura dai non cattolici
    La Scrittura è il messaggio immutabile perenne e completo di Do all’umanità.
    La Rivelazione è il rapporto personale che il Creatore stabilisce oggi con me , Mimma e con lei, Enrico, attraverso la Sacra Scrittura.
    Senzar questo ” disvelamento ” la Scrittura rimane lettera morta, oppure osservanza superficiale, esteriore, farisaica, di norme incomprese oe incomprensibili.
    D’altro canto, senza la Sacra Scrittura, l’uomo tende a quegli insegnamenti, provenienti da varie fonti naturali, più adatti al proprio sentire.
    Per evitare adattamenti e scelte errate, cioè eresie, Cristo ha fondato la Chiesa, affidandole questo mazzo di boccioli che sbocciano a tempo debito per ciascuno dei suoi figli.
    Bellissima questa immagine icastica della Scrittura ” che sboccia ” per rivelare le verità eterne e portare a Dio le varie generazioni che si succedono nel tempo.
    Ecco perché la Chiesa non può adattarsi alle mode e alle ideologie, proprio perché la Scrittura è già completa in sé, quindi non è adatta nè a nostalgici archeologismi nè a spinte moderniste.
    ( Radtzinger è inflessibile in questo.
    Non può definirsi un modernista…)
    Meno che mai a spiritualità fai da te che prescindano dalla Chiesa la quale é l’unica a possedere la retta dottrina, essendo stata fondata da Gesù Cristo.
    La Rivelazione perciò è possibile solo nella Chiesa, non in maniera individualistica, nonostante sia personale , co me personale è ogni rapporto d’amore e intimo.
    Il secondo aspetto riguarda la Tradizione che secondo Benedetto non può essere ridotta solo a fatti e detti apostolici, in quanto alcune verità attribuite alla Tradizione sono fiorite molti secoli dopo la scomparsa dei testimoni diretti .
    Ma Benedetto afferma che si deve considerare la Tradizione come ” un fiume carsico ” che riappare sulla sabbia all’improvviso e che comunque è da ricercare nella Scrittura.
    In altre parole , secondo il suo pensiero, ciò che chiamiamo tradizione e già compreso nella Scrittura.
    Dobbiamo solo cercarlo e lo troveremo lì, nella Parola che va interpretata in questo senso, non in senso storicistico.
    Questo a mio avviso significa che la ” la Rivelazione eccede la Scrittura e contiene la Tradizione “.
    Che la Vergine é stata assunta in cielo in corpo e anima non è scritto nei Vangeli, ma la Tradizione ininterrotta di coloro che con lei parlarono trova conferma nel Vangelo.
    Come poteva corrompere i il corpo di Colei che aveva portato in sé , formato nel suo grembo, il Corpo di Dio? Questo significa che la Tradizione non può prescindere dalla Scrittura e che sempre è ” secondo la Scrittura “.
    Un abbraccio illuminante…

    • il Matto ha detto:

      Mimma carissima,

      vorrà concedere che, infine, è il soggetto (lei, io e chiunque altro) che si misura con la triade Rivelazione-Scrittura-Tradizione, e che il soggetto debba mantenere necessariamente uno scampolo di libertà nei confronti della triade, ciò che, oltretutto, evita che i fedeli siano intruppati come soldatini tutti uguali e con un pensiero unico piantato nella mente.

      Ratzinger scrive di una “eccedenza della Rivelazione rispetto alla Scrittura, che neppure può venir racchiusa in un codice di formule”: a mio avviso ciò è una conferma dello scampolo di libertà (un rischio? ma la vita stessa non è sempre a rischio?) che il soggetto ha da mantenere.

      Se la Rivelazione si porge ad ogni singolo soggetto eccedendo tanto la Scrittura quanto le formule che ne sono state dedotte, vuol dire che essa riguarda eminentemente la Spiritualità e non soltanto la Religione.

      Giovanni 3, 8 recita: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito».
      Dice nato dallo Spirito non dalla Religione.

      E Giovanni 16, 13-15: “Lo spirito di verità vi guiderà verso tutta la verità. Non vi dirà cose sue … riprenderà quello che io ho insegnato e ve lo farà capire meglio”.
      Come si vede, il protagonista è sempre lo Spirito che … soffia dove vuole.

      Non vi sono, e non possono esservi, gestori organizzati dello Spirito che possano rivendicare la proprietà esclusiva dello Spirito, che, di nuovo, soffia dove vuole.
      E soffia dove vuole Lui, non dove decidono gli uomini.

      Più che cordialmente.

      P.S. Chiaro che qui si apre il terreno minato dell’ispirazione e dell’intuizione; ma se, come sembra, su questa terra siamo tenuti ad essere afflitti dal dolore e dalla morte, non si vede perché non debba mantenersi almeno uno scampolo di libertà di cui ciascun soggetto possa essere pienamente e, perché no, felicemente responsabile.

  • Lucia Buttaro ha detto:

    Infatti Napoleone non era Profeta, era massone!
    Ma avete capito che pure Scwab è nato in Germania?!!
    Alcuni tra i Papi sono stati eretici altri abilissimi giuda

  • Prudentia ha detto:

    Certo, certo io capisco che si rende il discorso talmente fine e complicato che alla fine non si capisce cosa cambia se non dopo anni e si vede fiducia supplicans e allora capisci cosa “veramente” intendevano dire.

    • R.S. ha detto:

      Papa Benedetto era molto legato a San Bonaventura, gigante del connubio tra la fede e la ragione, che fu contemporaneo di un altro grandissimo: San Tommaso.
      Questi grandi santi e l’altrettanto grande pontefice bavarese ai più possono far pensare a dei dotti intellettuali presi nei loro pensieri, trascurando altre caratteristiche dell’intelligenza, tra cui spiccano la fantasia e la capacità di stupirsi, contemplando e di lì un saper attraversare il mero dato storico o materiale.
      Allora ai puri e freddi concetti, quasi dei teoremi matematici, subentra una delicata sensibilità che si accompagna al saper far uso di immagini per aiutare questo desiderio di vedere oltre lo spazio-tempo.
      Più sono rigorosi nel descrivere la realtà, più sanno superarne il vincolo storico, illuminati dalla Rivelazione.
      Lo diceva anche Aristotele, che l’anima capisce poco senza la fantasia: così il contemplativo sa ricorrere a splendide immagini per spiegare, a beneficio della memoria e dello studio dei discepoli, associando concetti altrimenti troppi astratti a delle immagini vivide.
      Questo vale per i santi del XIII secolo, come per il pontefice bavarese, che qualcuno, assai limitato, ha sempre ritenuto un rigido “pastore tedesco”.
      Perché? Perché noi non comprendiamo le cose spirituali se non a partire da quelle che appartengono alla sensorialità. Possiamo entrare nell’eternità, uscendo dal tempo, attraverso la nostra sensibilità qui e ora. Non c’è niente nell’intelletto che prima non sia stato nel senso.
      La Sacra Scrittura è ricca di metafore e di parabole, perché le immagini servono all’intelligenza per entrare dentro l’insegnamento, fissandolo nella memoria.
      San Tommaso per rappresentare l’operazione della ragione nelle diverse forme della conoscenza, propone l’esempio del volo degli uccelli: c’è l’uccello che vola in modo circolare; quello che vola avanti e indietro; quello che va dall’alto in basso e quello dal basso in alto. Il moto circolare è quello contemplativo; quello che va in avanti va dalla causa all’effetto; quello che torna indietro è dall’effetto alla causa. Dall’alto in basso è la deduzione, dal basso in alto è l’induzione.
      Volare… fa venire in mente gli angeli, che vedono già la gloria di Dio. Invece gli invidiosi, piantati a terra, schiacciati dal tempo dentro la storia, competono in vario modo per la gloria terrena, nei regni di questo mondo, soggetto a chi dal cielo è stato scacciato.

  • R.S. ha detto:

    Grazie a chi ha redatto e pubblicato questa relazione.

    Mi ha suggerito questa riflessione: a un certo punto l’intelligenza filosofica e teologica dell’uomo si arresta nel tentativo di dare risposte ai vari perchè. Accade di fronte all’Assoluto, che è tale non avendo un perchè.

    Dove la riflessione umana cesserebbe inevitabilmente di poter indagare, la Rivelazione supplisce, facendo luce.
    Tale Divina Rivelazione ha il suo culmine in Cristo, Verbo incarnato e redentore della creazione. Tuttavia questo culmine impiega secoli a sedimentarsi in una dottrina, capace di elaborarne man mano le nozioni (es. Dio Uno e Trino). Lo scettico o l’incauto possono accusare questa Traditio di qualche travisamento, mentre l’anima innamorata non può che riconoscere l’incedere incessante della Grazia.

    La differenza la fa … il tempo. Infatti c’è chi pensa che Dio abbia creato tantissimi anni or sono e non l’abbia fatto più o che abbia redento due millenni or sono e poi basta… Problema per chi è nel tempo e non nell’eternità. Dio sta creando ora, sta redimendo ora. Perciò sta rivelandosi ancora, sempre nel nome di Cristo, come è stato tutto l’Antico Testamento e com’è il tempo della missione affidata alla Chiesa.
    Tutto questo in un’evidente continuità con l’Origine, senza mai travisarla, tradirla o smentirla: la precisa.

    San Bonaventura afferma che non solo è la Tradizione a far sbocciare la potenzialità della Scrittura, o almeno a interpretarla, lungo la storia; è la Scrittura stessa che sboccia, grazie alle multiformes theoriae in essa contenute, tuttavia mai come un rinnegamento o superamento di Cristo e del Nuovo Testamento.
    Il Figlio non smentisce il Padre e lo Spirito santo non smentisce il Figlio, non esistendo epoche di “prevalenza” di una Persona della Trinità sulle altre!

    A questo punto diventa fondamentale intendersi sul tempo.

    L’Originario è l’assoluto: sano ed integro. Essendo l’Assoluto non ha un perché. Ogni ente che ha un perché non è l’Originario.

    Nell’ente coi suoi perché subentra il male. Subentra una patologia, la frattura. La guarigione è come una saldatura.

    L’Assoluto, l’Originario, è eterno. L’originato sta nel tempo, il quale anch’esso non è originario. La frattura dell’originato fa parte del tempo e la saldatura avviene nel tempo, tempus, dal greco temno, ovvero taglio.

    La giustizia di Dio rappresenta la restituzione all’integrità perduta, superando il male: dalla frattura alla saldatura. In questo divenire dentro l’Eternità di Dio
    Poi dipende dallo sguardo: storico o contemplativo.

    Nel primo la frammentazione è raccolta o rifiutata.
    Raccogliere i pezzi è una prospettiva che attinge dal passato. Rifiutare i pezzi è la prospettiva che progetta il futuro. Entrambi gli sguardi di fatto sanciscono la frantumazione. Ogni storicismo è inconcludente, in avanti come indietro.

    La contemplazione invece attraversa la frammentazione. E’ la prospettiva che mette insieme tutto nell’eternità. Siamo sotto lo sguardo di Dio: dall’Origine. Lui custodisce l’originato e senza questo sguardo noi saremmo nulla.
    Chi ci costituisce, Lui stesso ci custodisce.
    Per conoscere il nostro essere, occorre percepirsi in Dio.
    Siamo conosciuti nell’Originario, per Cristo, con Cristo e in Cristo, scritti nel libro dell’Agnello immolato fin dal principio e destinati al Suo stesso mistero di Gloria.

    Il contemplativo non è un intellettuale organico al sistema, ma un annunciatore di un modus vivendi, un habitus contemplativo. La Verità rende liberi e il tempo è la più invasiva delle schiavitù, perchè giunge a legare anche il pensiero dell’uomo che resta nella storia.

    Nella pienezza del tempo il Verbo ha preso carne (nello spazio e nel tempo), ma per dire che il Regno di Dio è
    da essi svincolato. Questa sapienza RIVELATA è sapore, gusto delle cose divine. Lo Spirito santo interviene sensibilmente con i suoi doni.

    Il sapere sapienziale è frutto di un sentire.

    Vedere gli altri come li vede Dio è la misericordia.
    Riconsegnare la creazione al Creatore è giustizia.
    Perciò il Cristianesimo NON si risolve nella storia.
    La storia è piena di perché, e anche di cose brutte.
    E’ un insieme di fratture che resterebbero conflittuali.
    L’avvenimento cristiano è annunciarne il superamento.
    E’ la pace NON come la dà il mondo. Ama anche il nemico perchè supera il mistero del dolore nella Gloria.

    La morte allora non ha l’ultima parola.
    La croce, trono di gloria, apre ai misteri della Gloria il cui culmine è la creatura che ha dato carne al Verbo che è regina del cielo nella gloria degli angeli e dei santi.
    Il Mistero di Cristo è portare l’uomo credente là con Lui.
    La Divina Volontà riassume tutto: anche dolore e croce.
    La nostra fede è volta all’eternità, nella storia.
    Non spera al futuro, ma nell’oggi, adesso.

    In questa prospettiva eterna, la storia trova senso, senza diventare né un idolo, né una catena.
    Trova senso la croce, vissuta nella sistole e diastole di Dio, contemplata nell’essere trono di Gloria di Cristo.

    In Dio il tempo non c’è: noi invece qui siamo nel tempo.
    Ma il senso del tempo non è la storia, ma Dio.
    Chi è cieco è malato: bisogna guarire per tornare alla Luce. Ciechi o fratturati, dobbiamo guarire: essere salvati. Prigionieri del male, si è fatti liberi dalla Verità.

    Contemplare è stare fuori del tempo, per essere in ogni istante. Serve l’intelligenza dei dotti? Serve l’umiltà dei piccoli e serve un assenso sapiente dell’uomo.
    L’uomo intravvede, capisce e si fida: ma di Dio e non di sé stesso.

    • Stilobate ha detto:

      @R.S.: Bel contributo, gentile R.S. Offre molto su cui riflettere e meriterebbe un ampio discorso. Personalmente penso che in questa particolare congiuntura epocale due tra i punti che è opportuno non stancarsi di richiamare e sottolieare siano la Presenza reale nell’Eucarestia e la duplice fonte della Rivelazione (Scrittura e Tradizione). Grazie per il suo intervento.

  • il Matto ha detto:

    Chi l’avrebbe detto?

    In Ratzinger si trovano molti punti … Matti.

    Mi astengo dal citarli, ma specialmente la prima citazione …

  • Mimma ha detto:

    Grazie dottir Tosatti per questa pubblicazione.
    Essa fa giustizia di tante interpretazioni infedeli, che tante ombre hanno gettato a mio avviso, sella telogia di papa Benedetto, amareggiato i tanti che lo amano.
    É vero, era amico di teologi luterani, figlio egli stesso di quella temperie particolarmente ambigua che è il Cristianesimo tedesco.
    Ma la sua condotta di vita e il suo ministero petrino testimonianza suo favore, facendone una figura di limpido, fedele amatore di Nostro Signore.
    Analizzare come un anatomista il corpus della odierna societa materialista o agnostica, non necessariamente deve significare adesione ai mali riscontrati e descritti.
    Come il medico resta incontaminato nel fare una diagnosi anche funesta, così Benedetto, a mio parere, non si macchiò di gnosticismo nè fu assertore consapevole del modernismo.
    Ha fatto dei passi falsi, come gli altri pontefici degli uktimi 70 anni, in buona fede, per facilitare l’evangelizzazione e domare i nemici, malvalutati e sottostimati nella loro pericolosità.
    Noi constatiamo il fallimento di questa strategia.
    Loro non potevano prevederlo.
    Come Napoleone non previde Waterloo.