Il Richiamo dell’Arché. Il Matto.

16 Dicembre 2023 Pubblicato da 29 Commenti

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il nostro Matto, appena tornato da un sognante e sognato viaggio nel Giappone che ama, offre alla vostra attenzione queste riflessioni. Buona lettura e diffusione…

§§§

IL RICHIAMO DELL’ARCHÈ

La sacra ignoranza ci ha insegnato che Dio è indicibile, perché egli è maggiore all’infinito di tutte le cose di cui si può parlare. E poiché questo è verissimo, con più verità parliamo di lui rimuovendo e negando, come sostiene anche Dionigi il grandissimo, il quale volle che Dio non fosse né verità, né intelletto, né luce, nessuna di quelle cose che si possono dire a parole.

Nicola da Cusa, La dotta ignoranza.

 

L’essere divino è in se stesso senza nome; i nomi gli sono toccati da parte delle creature. Per esempio: poiché egli ha fatto le creature noi lo chiamiamo “Gott”, buono, come egli è. Poiché la creatura è bisognosa, lo chiamiamo misericordioso, clemente e propizio, come è pure. Poiché la creatura è manchevole, egli è chiamato giudice. E così diversi altri nomi che non gli appartengono per la sua stessa essenza, poiché in se stesso egli è privo di nome, di immagini, di forme, di modi, ed è spoglio di tutte le cose.

Giovanni Taulero, Istituzioni divine

 

* * * * * * *

 

Il pensiero! Forse l’Uomo ha iniziato a pensare dopo che fu cacciato dall’Eden. E già, che bisogno aveva di pensare? A cosa doveva pensare, di cosa doveva pensare, se conduceva una vita contemplativa in armonia perfetta con Dio, la sua Donna ed il Creato?

 

Riflettiamo, gentili Lettrici e gentili Lettori: che cos’è il pensiero se non una reazione ad un input sensoriale? Non dipende il pensiero dalla percezione dei sensi? Come potrebbe darsi il pensiero senza una percezione sensoriale? «Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu», recita la locuzione peripatetico-tomista, ossia: «nulla è nell’intelletto che non si trovi prima nei sensi».

Che vita peradisiaca sarebbe senza il pensiero! Comunione diretta anima-anima, anima-mondo, senza forma con forma, in un magico gioco di specchi: nulla da pensare, nulla da indagare, nulla da capire, nulla da contrastare, nulla da cerebro-intellettualizzare, nulla in cui “progredire, poiché tutto è già chiaro nell’ultra-concettualità contemplativa di ciò-che-è e ciò-che-diviene!

 

Perciò nessuna parola, quindi nessuna domanda e nessuna risposta, nessuna certezza e nessuna incertezza, nessun sì e nessun no, nessun “testa o croce”, nessun “ma io” e nessun “ma tu”, nessuna guerra e nessuna pace: equilibrio verticale sull’orizzontalità precaria dei defatiganti dualismi e molteplicismi caratteristici della sub-contemplativa vita terrestre impiastricciata di pensiero e di egolatria, oltre la complicazione chiassosa delle parole e dei concetti che vorrebbero “fare ordine”, oltre l’agitazione dell’aut-aut e nella quiete dell’et-et. Infatti, con delizioso profumo genesiaco-adamitico:

 

«Inesprimibile e al di là dei concetti,
la vera comprensione sorge come i pianeti e le stelle;

in qualunque momento si manifesti procura grande beatitudine».

Tsang Nyong Heruka (1452-1597),  I Centomila Canti di Milarepa.

 

Io sono un Matto d’ispirazione-aspirazione arcaica, quindi spinto ad astrarre dalle cose mondane, prima di tutto dal pensiero, cioè dalle parole e dai concetti, e proteso verso l’ARCHÈ, il Principio, il Prima, l’Assoluto, l’Origine imperturbabile e innominabile di «tutte le cose» e quindi dell’agitarsi degli uomini nella storia con i loro pensieri e atti pertinenti alla sfera del relativo che è in continuo e conflittuale cambiamento; pensieri e atti che si consumano sull’orizzontalità temporale, ove Cronos mangia i suoi figli con tutta la loro “sapienza”.

E già: non c’è consapevolezza che ogni pensiero, parola e atto durano l’attimo cronico che li fa apparire per poi divorarli senza se e senza ma, concedendo di essi un ricordo – un pensiero! – che inesorabilmente sbiadisce col tempo e cade nell’oblio a cui pateticamente si supplisce con libri, documentari e archivi. Il peso della memoria, ossia della “storia”: affastellamento di pensieri e immagini di fatti volati via. Sennonché, chi siamo nella nostra arcaicità, cioè in principio, non coincide affatto con la nostra memoria e individualità storica, colta o ignorante che sia. “In principio era il Verbo”. In principio eravamo noi. L’Arché e noi arcaici. Giacché senza l’Archè noi non saremmo.

 

Parafrasando il Poeta:

 

Io mi son un che, quando

Archè mi spira, noto, e a quel modo

Ch’è ditta dentro, vo astraendo.

 

Vo astraendo da ciò che noto perché ciò che noto non è l’Archè. Vo astraendo da ciò che penso, perché ciò che penso non è l’Archè.

 

«Io mi son un» che non va «significando» bensì, al contrario, va de-significando, appunto astraendo, abbandonando, lasciando, non aggiungendo ma togliendo, non caricando ma scaricando, non riempiendosi ma svuotandosi. Apofasi totale dell’umano. Negazione di tutto ciò che è a portata dell’umano. Abbandono dell’orizzontalità per assurgere alla verticalità, senza la quale l’orizzontalità resta un’assurdità. Rinascita verticale dall’onirica, mortale orizzontalità. Ritrovamento dell’orizzontalità sotto nuova luce, la luce dell’Archè, che brilla rinchiusa sotto il marmo tombale del cogito; da ciò l’imperativo: LASCIAR CADERE LA PIETRA DEL PENSIERO!

 

«La via negativa della conoscenza di Dio è un procedimento ascendente del pensiero che elimina progressivamente dall’oggetto che vuole raggiungere ogni attribuzione positiva per arrivare, alla fine, a una specie di afferramento per suprema ignoranza di colui che non potrebbe essere un oggetto di conoscenza. Si può dire che è un’esperienza intellettuale di scacco del pensiero davanti all’al di là del concepibile. Di fatto la coscienza dello scacco dell’intelletto umano costituisce un elemento comune a tutto quel che possiamo chiamare apofasi o teologia negativa, sia che essa resti nei limiti dell’intellezione, constatando semplicemente l’inadeguatezza radicale tra il nostro pensiero e la realtà che vuole raggiungere, sia che voglia superare i limiti dell’intelletto, prestando all’ignoranza di ciò che Dio è nella sua natura inaccessibile il valore di una conoscenza mistica superiore all’intelletto, hyper noun». (Vladimir Lossky).

 

Dice: «SCACCO DEL PENSIERO DAVANTI ALL’AL DI LÀ DEL CONCEPIBILE».

 

E allora «io mi son un» che ritorna, astraendo, dalla circonferenza al Centro, dalle forme al Senza Forma, dai nomi al Senza Nome che è  l’nfinitamente Piccolo e Infinitamente Grande, il Dappertutto e l’In nessun luogo, quindi al di là di “locuzioni”, “visioni”, “apparizioni”, “definizioni” ed “esegesi” che, anzi, alla lunga rappresentano un ostacolo in quanto forme di pensieri, parole e figure irrimediabilmente costituenti la tormentata vibrazione orizzontale e collocate fuori dell’Asse Immutabile, del Centro Immobile, della Suprema Sintesi, dell’Arché, come la circonferenza della Ruota sta, dipendendone, fuori del Mozzo.

 

«In Principio era il Verbo», cioè l’Archè: il senso di “tutte le cose” è in Esso, nell’Asse, nel Centro, nel Mozzo, e perciò “tutte le cose”, dunque anche il pensiero, se accreditate per se stesse, sono distrazioni dal Principio che vanno  abbandonate per ritrovarne il senso direttamente dal loro Unico Centro e non dal (mal)destreggiarsi cervellotico nella loro dualità e molteplicità, ossia nel vortice della ruota, cioè del pensiero che, innegabilmente, è una zavorra centrifuga, un affanno disperato intorno all’Essenza.

 

Se la coscienza, pensando, si ferma e si crogiola sul creaturale e relativo, nel quale si auto-reclude la cultura, non può ascendere al Creatore, all’Assoluto, all’Archè, al Verbo, poiché impedita dal pensiero che la rende inerte. Si noti come il latino INERTEM, composto da IN partic. negativa ed ERT per ARTEM,  significhi sen’arte, che non sa né può, quindi incapace, inoperoso, infingardo (etimo.it).

 

In Principio era l’Archè: occorre pertanto un processo di dimenticanza di “tutte le cose” che occupano e limitano la  coscienza imponendole una forma, quindi un processo di liberazione della coscienza arcaica, che è immediatamente intima all’Archè ma oberata dal coacervo dell’inculcato, sepolta sotto il cumulo della cultura, che dovrebbe essere delicata coltivazione preventiva e non affastellamento pietroso di informazioni da sciorinare conflittualmente alla prima occasione. Dov’è la persona che realizza con tutta se stessa la cultura di cui è satura la sua testa, nella quale la spira turbinosa cerebro-intellettuale (la Fata Morgana, l’Immaginifica) è ognora all’opera e produce un sapere che si pretende risolutivo quando invece non è che indicativo e perciò propedeutico, ma impone una forma alla coscienza impietrandola nella molteplicità-complicazione dei dati “oggettivi”? Cos’è l’oggettivo per una coscienza preventivamente “formata”?

 

Essere ciò che si sa: questo lo scoglio. Perciò, se si sa dell’Arché, come si fa ad esserlo? Più precisamente, come si fa ad esserne assunti?

 

«E il Verbo si fece carne» per ribadire l’opportunità dello slancio, oggi  affievolito se non quasi nullo, verso di Sé, verso l’Archè, verso il Principio che È. Quindi:

 

ASTRARRE DALL’ACCUMULO PER … ACCUMULARE.

 

«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».

 

A cosa alludono «le tarme, la ruggine e i ladri»? In cosa li si può individuare senza un’accurata, costante e coraggiosa introspezione? Non basta un vita per assimilare in tutto e per tutto questo processo (quindi comprenderlo anche con il corpo!) e restarne trasfigurati.

 

V’è l’accumulo di tesori in terra (uno dei «due padroni)» e, agli antipodi, v’è l’accumulo di tesori in cielo (l’altro dei «due padroni»): non li si può servire entrambi; il secondo è impossibile se c’è il primo. Il secondo è qualitativo, il primo è quantitativo, in senso tanto materiale quanto psico-intellettuale. L’accumulo celeste cresce in misura proporzionale al disaccumulo terrestre. La clessidra mostra il “segreto”: è il vaso superiore, cioè la coscienza arcaica, che si svuota da ogni contenuto che decanta nel vaso inferiore: non sparisce, si badi, bensì decanta, ovvero se ne torna al suo posto, nella confusionaria e conflittuale orizzontalità.

 

Davvero non c’è alibi che tenga: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». Qui la Dottrina o le Dottrine imparate a  memoria e ripetute all’occasione lascia il tempo che trova. Qui lo specchio dell’introspezione può presentare un’immagine di sé non propriamente piacevole. Altro è guardare alla Dottrina e altro è guardare a sé. Rivoluzionaria inversione di tendenza dagli oggetti al soggetto, donde la paura del vuoto, giacché, appunto, il soggetto non è oggetto e quindi non può essere pensato.

 

Ma l’Arché/Cristo è PRESENTE. Lui stesso ce lo ha promesso: “ Io sono con voi tutti i giorni ”. IO SONO (COLUI CHE SONO), l’ARCHÈ, è con noi ogni giorno, adesso, proprio QUESTO MOMENTO che il pensiero  non può mai cogliere, e che anzi, come già osservato, zavorra la coscienza rendendola inerte.

 

Ecco perché la preghiera fatta di pensieri e parole ha da sfociare nella più eterea, arcaica non-preghiera, cioè nella temperie silente contemplativa in cui la separazione fra soggetto e oggetto si estingue, e la coscienza dell’orante, avendo riconquistato l’arcaicità propria, viene, per mistico sposalizio, assunta dall’Archè, di cui ha sempre sentito l’irresistibile richiamo.

 

Quindi, sparizione del soggetto così come comunemente esso si identifica in quanto culturalmente “costruito”. Al riguardo, Mircea Eliade scrive:

 

«archetipicità e paradigmaticità dell’uomo arcaico che si riconosce “veramente se stesso” soltanto nella misura in cui cessa proprio di esserlo».

 

La stupenda immagine della Luna e del Sole proposta in incipit sintetizza, per chi sa vedere, l’intero presente articolo.

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29 commenti

  • Rolando ha detto:

    GRANDE papa Francesco che ispirato dalla tragedia del Bene Comune colpisce al cuore Il dolo di ogni Istituzione, il vero ed unico peccato originale secondo il grande Charles Darwin! A cominciare da quelle di presunta divina istituzione!

  • Rolando ha detto:

    BENEDICITE, NOLITE MALEDICERE.

    • il Matto ha detto:

      1) “parlarsi”: cosa accade nel parlarsi? Oppure: cosa deve o dovrebbe accadere nel parlarsi? Perciò: cosa non deve o non dovrebbe accadere nel parlarsi? Insomma: a che serve parlarsi?

      2) benedire e non maledire: cioè bene-dire sempre e mai male-dire. Che vuol dire? Che tutto va bene-detto? Che va detto che tutto è bene? Che il male non esiste? Se me lo confermi, con la tua benedizione vado a rapinare l’ufficio postale, così la smetto di centellinare la mia pensione per arrivare a fine mese. Chiaro che se devo sparare a qualcuno non ho da farmi scrupoli, se sono benedetto, sono a posto con la coscienza.

      • Rolando ha detto:

        Appunto, caro IL MATTO, a che servono le parole delle Sacre Scritture? O meglio, a che serve IN SCRIPTIS ET NON SCRIPTIS TRADITIONIBUS del dogmatico tridentino?

      • Rolando ha detto:

        A che serve poi che io te lo confermi? E sei sicuro che sia un male prendere dove c’è n’è?

      • Rolando ha detto:

        Caro IL MATTO, tu così scrivi : “Che il male non esiste? Se me lo confermi, con la tua benedizione vado a rapinare l’ufficio postale, così la smetto di centellinare la mia pensione per arrivare a fine mese.”
        Innanzitutto, a ben riflettere, fai una domanda. Nel proseguo, io ci vedo già la risposta data da te stesso e non c’è bisogno di alcuna altra benedizione sacra aliena.
        Ammettendo con fa sofferenza di dover centellinare per vivere dimostri che è un bene per te quello che sta in banca. Quindi ammetti che è un bene er te appropriarti del bene di cui abbisogna. Ma ci sono dei costi da pagare: non essere scoperti. Tu hai detto in parole semplici ciò che ben tre Nobel hanno dimostrato circa THE TRAGEDY OF THE COMMONS. E tutto avviene nella supercooperazione tra babbeo e furbi. Ai Romani quando vennero a contatto con i Giudei ebrei ed il loro tempio, non interessava affatto YHWH, di cui ignoravano perfino il nome, ma il Tesoro della Banca del Dio come un bene di diritto per Roma. Ed era una lotta tra due Istituzioni in pratica….

        • Rolando ha detto:

          Ti ricordi quando Aronne fa il nuovo idolo per il popolo stanco di attendere Mosè, che forse lo davano per bruciato sul e col monte? Fa un dio di oro. E che fa il pio Mosè quando si imbestialisce divinamente? Ordina di uccidere anche tra genitori e figli senz’alcun scrupolo!
          E il vitello-dio-oro? Bella trovata! Lo riduce in polvere d’oro che fa bere ai suoi devoti. Notare che la polvere d’oro non si scioglie in acqua, ma si deposita sul fondo del recipiente. Quindi Mosè, con un atto di furbizia politica, recupera quel Dio in tutti i suoi atomi e non trova alcuna differenza col suo Yhwh-Tesoro custodito nella sacra Tenda e poi del Tempio. La bibbia è molto interessante se con pazienza la si legge e rilegge. C’è poi la legna “bagnata” ad hoc di Elia che prende subito fuoco ed il tesoro dei cinquecento dipendenti della banca degli idolatri di Baal passa ai furbi devoti di YHWH. Vi si può benissimo leggere la scoperta del petrolio da parte di Elia, due millenni prima che Marco Polo notasse, nei suoi viaggi in oriente, acqua fangosa che brucia!
          Miracoli d’oro.

  • il Matto ha detto:

    Caro Rolando,

    come testimoniano anche gli articoli e i commenti su questo blog, ciascuno parla della/dalla propria esperienza.
    Perciò io parlo della/dalla mia esperienza, come tu parli della/dalla tua esperienza.
    E’ perciò impossibile che i diversi linguaggi coincidano, poiché diverse sono le esperienze, forse quante sono le anime.
    Impegnarsi a precisare i rispettivi linguaggi non può portare che ad una complicazione del comunicare anziché un loro reciproco chiarimento.

    • Rolando ha detto:

      Carissimo il mio IL MATTO, sono completamente d’accordo anche intuitivamente prima che per ragionamento. Anzi la tragedia d’intendere il medesimo pensiero tramite lo stesso termine scritto o pronunciato è una costante che appare anche nella esposizione della “Storia del pensiero cristiano tardo-antico” di Claudio Moreschini, opera che al momento non ha uguali a livello mondiale.
      Pertanto non mi meraviglio dei tanti risvolti di pensiero diversi che hanno portato agli attuali cambiamenti in ogni campo della cristianità cattolica e romana e dubito dell’esattezza, anzi della correttezza, di voler additare un tempo, una circostanza, o peggio ancora uomini specifici, come fonti principali di tali cambiamenti.
      Parlarsi però è sempre bello quando è bello, libero da paure ed anatemi, che non sono serviti a niente se non ad aumentare sofferenze gratuite.
      È di questa sera la notizia della benedizione dei gay cristiani cattolici credenti, che la richiedono, in chiesa, voluta da tanti vescovi ed accolta dal papa. Certo, mi è difficile mandarla giù, vista la storia e le scritture…. ma …. benedicite, nolite maledice!

  • Rolando ha detto:

    “Ma l’Arché/Cristo è PRESENTE. Lui stesso ce lo ha promesso: “ Io sono con voi tutti i giorni ”. IO SONO (COLUI CHE SONO), l’ARCHÈ, è con noi ogni giorno, adesso, proprio QUESTO MOMENTO che il pensiero non può mai cogliere, e che anzi, come già osservato, zavorra la coscienza rendendola inerte.”
    Talmente zavorrata è la mia “coscienza” che casualmente si è accesa in essa una miccia riflettendo su quanto sopra riportato, caro IL MATTO.
    Ma Cristo non è un nome proprio, esprime semplicemente una funzione, una carica per la quale sarebbe stato “unto” col sacro olio balsamico!!!
    Ciò che realmente, ripeto: realmente, interessa è l’uomo ebreo di Nazara, nato a Betlemme in Giudea, conosciuto col nome di Jehoshua. Costui in carne ed ossa umane, incarnerebbe la funzione cristica. Penso che occorra del coraggio pensare che l’uomo Gesù valga meno della carica. Oddio, nessuno lo ha mai sostenuto apertamente. Ma mi sembra innanzitutto verosimilmente “reale” l’uomo Jehoshua che la supposta carica. Comunque senza la “realtà” umana, dove mai ogni presunta altra poggerebbe?

  • il Matto ha detto:

    La ringrazio di questo “sostanzioso” intervento.

    Mi ha particolarmente compito il finale: “La differenza sostanziale tra Dio e mondo, Assoluto e contingente viene salvaguardata”.

    Per quel che posso dirne in base alla mia personalissima esperienza, la necessità di salvaguardare la differenza sostanziale tra Dio e mondo, Assoluto e contingente, si pone soltanto sul piano umano che è orizzontale, su cui opera la ragione che si preoccupa, per così dire, di “regolamentare” ciò che, però, sfugge ad essa in maniera totale. Lo si voglia o no, il Sovrarazionale è una Realtà.

    Man mano che dall’orizzontalità si libera la Verticalità (di per Sé già libera) tale necessità va sfumando, ed anzi occorre lasciarla andare (apofasi): atto non propriamente scontato ed anzi richiedente un reiterato esercizio.

    C’è un momento specialissimo in cui Oggetto e soggetto (al culmine l’Archè e l’Anima) si ritrovano in un ineffabile non-dualismo inconcepibile dalla ragione, e tantomeno a portata della coscienza ordinaria, anch’essa (in)naturalmente prostrata sull’orizzontalità.

    Le porgo I miei auguri per un sereno Natale.

    • il Matto ha detto:

      Qui sopra è la mia risposta a Giampiero il cui intervento, però, è sparito!

    • Rolando ha detto:

      Caro IL MATTO, condivido questo tuo pensiero, mettendo tra parentesi quadre ciò che, secondo me, è deviante più che superfluo:
      “Per quel che posso dirne in base alla mia personalissima esperienza, la necessità di salvaguardare la differenza sostanziale tra Dio e mondo, Assoluto e contingente, si pone soltanto sul piano umano [che è orizzontale,] su cui opera la ragione che si preoccupa, per così dire, di “regolamentare” ciò che, però, sfugge ad essa in maniera totale.” Poi prosegui con: “Lo si voglia o no, il Sovrarazionale è una Realtà.” Cosa intendi dire: che Dio, oppure Assoluto, è una Realtà? Non capisco: quante realtà ci sono contenute nella “r” o “R”. La nostra ragione si scontra con un dualismo “suo proprio” non perché esistano due realtà, ma perché non può cogliere in sé senza-dimenticanza [a-letheia = verità] l’unica realtà in divenire. Ev kai pan, uno e tutto senza limiti, senza orienti ed occidenti, verticali ed orizzontali quali i neuroni specchio, posto, reticolo riflettono processando immagini-pensiero della realtà che non è come viene processata dal cervello “animal”. Ma è sempre Una e Incommensurabile e noi umani siamo essa scarpe, mutande e tutto.
      E poi non ti sembra che possa configurarsi come massima empietà quella di presumere di “salvaguardare la sostanza di Dio”, quale Realtà, da parte della nostra “superba” realtà ? Io sono, col mio piccolo mentare nella sola ed unica realtà. Che amo.

  • Rolando ha detto:

    Davvero non c’è alibi che tenga: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».
    “L’antica nostalgia” cui accenna anche Adriana 1.
    “Ah, se un giorno da queste ritorte / il gran mistero pensarmi poteva / or mi guidi a morire da forte / per estremo bisogno d’amor” ( Donizzetti, Maria Stuarda).
    Intanto così canto davanti al presepe dell’eterno bambino:
    Vieni Gesù bambino
    Tu che sei tanto buono
    Lascia una volta il cielo
    E vieni a giocare
    A giocare con me
    Tu sai che il babbo è povero
    Ed io non ho giocattoli
    Sono un bambino buono
    Come lo fosti tu.
    Vedrai però se vieni
    Noi ci divertiremo.
    Sono un bambino buono
    Come lo fosti tu.
    Vieni bambin Gesù!
    Il tesoro dell’uomo è l’attaccamento alla propria esistenza. Ed attorno a questo desiderio dorme il sonno in compagnia dei sette santi Dormienti: Ephesi natalis sanctorum septem Dormientium, Maximiani, Malchi, Martiniani, Dionysii, Joannis, Serapionis et Constantini. Sexto Kalendas Augusti.

  • stefano raimondo ha detto:

    “…inadeguatezza radicale tra il nostro pensiero e la realtà che vuole raggiungere.”

    Quando cominciamo a pensare ci appoggiamo subito alla dicotomia vero/falso, procediamo così (scegliendo ciò che ci sembra vero), ma come insegna Hobbes, vero e falso sono attributi del discorso non delle cose, e dove non c’è discorso non c’è nemmeno verità. Se c’è una verità, questa è nelle cose, nella realtà, eventualmente.

    Comunque, a parte questo, come scrissi già in un altro bellissimo articolo del Matto, occorrerebbe fermarsi alla sensazione, fotografarla, e attenersi solo a questa: noi siamo questa sensazione, non siamo ciò che il pensiero elabora dopo, dopo la mente inizia a razionalizzare e finisce per giustificare azioni che non corrispondono alla nostra essenza, di solito per adeguarsi ai dettami del vivere comune. Questa sì che è orizzontalità… E non va bene: come dice il Matto, dobbiamo cercare la verticalità, non soltanto perché siamo cattolici ma proprio per essere noi stessi, altrimenti il nostro è un semplice sopravvivere!

    PS – Sempre bene ricordare l’inesprimibile, correlato secondo me al Silenzio (già discusso dal Matto in un altro suo pregnante articolo). Un grande saluto al mio grande amico Matto.

    • il Matto ha detto:

      Interessanti osservazioni.
      Un grande saluto natalizio a te.

    • Rolando ha detto:

      Caro Stefano Raimondo, leggo e mi fermo su proposizioni brevi, chiare come questa tua: “noi siamo questa sensazione,”. Sensazioni. Sono convinto. Condivido. Poi prosegui: “non siamo ciò che il pensiero elabora dopo, dopo la mente inizia a razionalizzare e finisce per giustificare azioni che non corrispondono alla nostra essenza,” Qui mi è difficile capirti. Al pensiero segue la corrispondente azione quale migliore convenienza. Di solito non giustifichiamo la scelta “conveniente”, ma quella che si è rivelata “non conveniente” nelle conseguenze impreviste costose per sé o nocive per “l’altro” che le subisce e viene a conoscere chi ne è la fonte. Non capisco bene quali sarebbero, secondo te, le scelte di una persona libera che non corrispondono alla sua propria essenza. A me risulta che nessuno sceglie un male in quanto male, ma solo perché è bene per lui. Sgrovigliami la matassa dal tuo punto di vista umano. Se vuoi. Grazie.

      • stefano raimondo ha detto:

        Caro Rolando, ho inteso dire questo. Noi siamo la sensazione, di fronte all’evento dovremmo limitarci alla prima sensazione che proviamo, noi siamo quella “cosa”. Purtroppo però, forse per pigrizia o vigliaccheria, ci adeguiamo al mondo esterno e, per intraprendere un’azione ad esso più conforme, lasciamo che prenda il sopravvento la parte sinistra del cervello, quella non intuitiva, quella razionalizzante, quella che esprime giustificazioni per l’azione che facciamo. Alla fine ci facciamo piacere qualcosa che in realtà non ci rende felici, mentendo a noi stessi. In tal modo dimentichiamo la prima sensazione, ci ritroviamo a compiere azioni che non solo non ci piacciono ma che oltretutto rinnegano il nostro IO, che invece si era espresso benissimo con la prima sensazione. Dovremmo abituarci a trattenere la prima sensazione, memorizzando il momento in cui passiamo da una situazione di stallo a una situazione di forte benessere, memorizzando il “dislivello”. Il discorso vale anche per il malessere: anche il passaggio da zero a meno dieci va impresso nella nostra mente, per capire cosa non siamo (parlo quantificando per capirci). Quindi memorizzare il momento in cui sorge il benessere o il malessere. Per pigrizia o ignoranza invece tradiamo il nostro IO e scegliamo la via che porta all’adattamento. (Ho parlato di giustificazioni perché la parte sinistra del cervello appunto giustifica, legittima, si auto-convince della bontà di azioni che invece non sono congrue a ciò che siamo. La dicotomia base dovrebbe essere MI PIACE/NON MI PIACE).

        Piccola addenda comunque non fondamentale per il succo del discorso – Mentire agli altri non è così grave: può essere disonorevole ma la mente è sana, noi sappiamo di farlo (a volte lo facciamo a fin di bene) e abbiamo la situazione sotto controllo; mentire a noi stessi invece è grave, è patologico.

    • Rolando ha detto:

      Stefano Raimondo, interessante ciò che scrivi. Ma qui non capisco: “Se c’è una verità, questa è nelle cose, nella realtà, eventualmente.” Mi pare che qui ci sia un malinteso, forse dovuto alle parole che usiamo: “nelle cose”? In esse c’è la verità o sono esse la verità? O è la storia delle bambole russe? Se in esse c’è ĺa verità, dopo che abbiamo capito il “come” della cosa, resta sempre l’immancabile “come” di una spietata, inaccessibile, supposta “verità” . Et… Quid est veritas?

      • il Matto ha detto:

        Forse Stefano vuol dire che le cose sono già quelle che sono, sicché, dopo la sensazione, l’intervento intellettuale su di esse con il conseguente giudizio (in)naturalmente soggettivo, le analizza e perciò le deturpa.
        Un albero – dieci occhi – dieci alberi.
        Siamo sempre lì: il pensiero/giudizio soggettivo che “ricrea” (illusoriamente) l’oggetto.
        È un argomento cruciale: la morte del soggetto giudicante (il chicco di grano) quale presupposto della sua rinascita in perfetto non-dualismo con l’oggetto.
        Apofasi: negazione del piccolo sé presuntuoso; aspirazione alla non-conoscenza quale Via verso l’Archè.
        Meno si conosce e più si conosce.
        Meno si è e più si è.
        Un bel koan!

  • Adriana 1 ha detto:

    E dunque…:” Li avresti creduti svegli, mentre invece dormivano, e li voltavamo sul lato destro e sul sinistro, mentre il loro cane era accucciato, con le zampe distese, sulla soglia. Rimasero dunque nella loro caverna trecento anni, ai quali ne aggiunsero nove. ” ( Corano, Sura 18 ).
    E dunque…: Jacopo da Varagine, -Leggenda aurea-,
    ” I sette dormienti di Efeso ” ( da Gregorio di Tours e Paolo Diacono )…e, via via, sempre nel tempo si snoda il filo dell’antica nostalgia per questa aspirazione, (cui non fu insensibile neppure la cortigiana Nijo, né il moderno Borgès, né Patrick Susskind)…
    ” Ah, non mi ridestar, o soffio dell’April…” ( J. Massenet, Werther ).
    A proposito, nel tempo, ritorna il Natale…Auguri di cuore.

    • il Matto ha detto:

      Credo in completa sintonia:

      “Più invecchio anch’io, più mi accorgo che l’infanzia e la vecchiaia non solo si ricongiungono, ma sono i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni della vita.
      Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con i tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato, oppure ne è uscito. E tutto l’intervallo non sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un’inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuto passare”.
      Marguerite Yourcenar

      Un forte abbraccio natalizio!

      Da bimbo o da vecchio scegli tu.

  • Mimma ha detto:

    Quanti spunti !
    Mi soffermo solo sull’invito a deporre la pietra tombale del pensiero orizzontale.
    Concordo, eccome.
    Ritengo il cogito cartesiano uno dei pilastri della modernità pervertita e perversa.
    Soprattutto approfitto per porgerle il mio Buon Natale!
    Il dolce Bambino le dia pace e serenità.

  • R.S. ha detto:

    Avvicinandosi il Natale, quasi al culmine dell’Avvento, la lettura mi ha suggerito che ogni creatura è un ricevente.
    In origine, prima, c’è Chi le dona ciò che è.
    La meraviglia ulteriore sta nell’originalità di ogni creatura.
    Come nessun figlio è un clone dei genitori, così ogni creatura dispone di una modalità propria di restare in comunione con l’origine (e l’originale).
    Tra le opzioni c’è anche quella dell’eccessiva disinvoltura, fino a “chiedere la parte di eredità” ed andarsene di casa.

    Il collegamento con l’Origine riguarda non una banale custodia di tradizioni, ma la custodia di una comunione viva. Essa riguardava anche le creature angeliche: dal loro peccato originale di rifiuto è poi conseguito quello che riguarda la creatura umana.

    Diciamo che qui c’è tutta la differenza tra antico (anche il male lo è) e originario (il male non lo è).

    Ecco che la conversione è inevitabilmente un ritorno a casa, all’Origine.
    Tornando all’Avvento il monaco è sostanzialmente chi giorno e notte conversa con Dio, il Verbo all’Origine.
    Contempla così le celesti cose, non concentrandosi su quelle della terra, non più originali.

    Nel monaco la separazione da ciò che è mondo diventa unione con Dio: la vita del deserto e il silenzio non sfumano nel vuoto, ma si riempiono della maggior pienezza possibile, con l’Origine.

    L’apparente rottura con il secolo si trasforma nel mistero dell’incontro e della comunione con Dio: nella solitudine la preghiera è attesa del Signore, la sua parusia.

    Ecco un ulteriore mistero e l’ennesima meraviglia: l’Origine è l’appuntamento atteso alla fine (dei tempi).
    Una veglia in cui non si sa quando Cristo torna, ma si sa che lo farà. Chi veglia è sempre quando “Sta per farlo”.

    La creazione è di Dio e come tale è buona, come le singole creature a motivo dell’Origine ed Autore.

    Ma distaccato dall’origine, questo paradiso diventa mondo, in senso biblico, perciò luogo di peccato (e anche apostasia). I vizi sono come i fiumi di Babilonia e irrigano di peccato le semine e i raccolti della storia.

    Viceversa i continui doni dello Spirito sono medicinali per chi accoglie quel dono, rivolgendosi all’Archè e permettendo all’uomo nuovo di farsi Uno e rinascere dall’alto con Lui che si fa carne per visitarci nella difficoltà e riaprirci la via alla divinità.

    Nell’Incarnazione il disegno originario trova il compimento perfetto. Per comprenderlo è servita la redenzione. Oggi servono monaci che facciano silenzio, per vivere il deserto e la veglia, in attesa della Parusia definitiva.

    Buon Natale ai matti che frequentano Stilum Curiae!

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