Kwasniewski, Dottrina Sociale. Venga Il Suo Regno. Seconda Parte.

18 Dicembre 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, con grande piacere pubblichiamo la seconda parte dello studio che il dott. Peter Kwsniewski ha condotto sulla Dottrina Sociale della Chiesa. E come sempre ringraziamo Carlo Schena per il lavoro di traduzione dall’inglese. Buona lettura.

§§§

 

Venga il suo regno: La Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica

Parte II – Gerarchia contro egualitarismo

 

Questo articolo è apparso per la prima volta nell’edizione cartacea di maggio 2020 di Catholic Family News e ripreso il 2 luglio 2020 dal sito online della medesima testata.

 

[Nota del Traduttore (dicembre 2020): Questo articolo che il dott. Kwasniewski è ben lieto di estendere al pubblico italiano tramite il blog del dott. Tosatti affronta la questione, oggetto di numerosi fraintendimenti nelle moderne democrazie liberali, del rapporto tra il principio di uguaglianza e quello di gerarchia. La seconda parte di questa serie di articoli sulla DSC assume un particolare rilievo oggi, se pensiamo come la triade rivoluzionaria “liberté, egalité, fraternité” – così puntualmente chiarita e rimessa nella giusta prospettiva da Papa Leone XIII – sia stata recuperata con non altrettanta chiarezza dal più recente magistero.]

 

Parte II: Gerarchia ed egualitarismo

La tendenza tra le rivoluzioni politiche della modernità è quella di oscillare tra l’esaltazione di una libertà illimitata (che in termini più esatti si definisce licenza) e l’applicazione di una sorta di uguaglianza sociale che è contraria al piano del Creatore e al bene del corpo politico. Queste due aspirazioni sono, tra di loro, in tensione permanente: un aumento della libertà porta necessariamente ad un aumento della disuguaglianza, mentre la realizzazione dell’uguaglianza comporta necessariamente limitazioni della libertà. Nella prossima parte di questa serie esamineremo la concezione cattolica della libertà e come essa si differenzia dalla licenza; in questa parte, focalizzeremo l’attenzione sulla concezione cattolica dell’uguaglianza, questione quanto mai attuale, se pensiamo agli infaticabili sforzi da parte di politici liberal di promuovere “leggi per l’uguaglianza” di vario genere.

Vera nozione di uguaglianza

Come per la maggior parte degli aspetti della DSC, a fornire l’analisi più approfondita della questione fu Papa Leone XIII, che si sforzava di dare una guida sicura a un mondo sedotto dal liberalismo, e messo costantemente a rischio dalla discordia rivoluzionaria. Mentre i socialisti – scrisse nel 1878 – “predicano la perfetta uguaglianza di tutti nei diritti e negli uffici [cioè nei doveri, NdT]”, la tradizione cristiana insegna che:

 

“tutti gli uomini sono uguali in quanto avendo tutti avuto in sorte la medesima natura, tutti sono chiamati alla medesima altissima dignità di figliuoli di Dio; avendo tutti lo stesso fine da conseguire, dovranno essere giudicati a norma della stessa legge, per riceverne premi o pene secondo che avranno meritato. Tuttavia l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’Autore medesimo della natura, “dal quale tutta la famiglia e in cielo e in terra prende il nome” (Ef 3,15)”. (Quod Apostolici Muneris , paragrafi I e VI)

Riprendendo l’antico tema del “corpo politico” e dell’organismo cosmico che, in forma diversa, era anche l’immagine centrale usata da San Paolo quando parlava della Chiesa come “corpo di Cristo”, l’enciclica di Leone XIII Humanum Genus (1884) approfondisce il discorso:

“Nessuno dubita che tutti gli uomini siano uguali tra loro, per quanto riguarda la loro comune origine e natura, o l’ultimo fine che ciascuno deve raggiungere, o i diritti e doveri che ne derivano. Ma, poiché le capacità di tutti gli uomini non sono uguali, poiché uno differisce dall’altro nei poteri della mente o del corpo, e poiché ci sono molte diversità nei modi, nella disposizione e nel carattere, è assai ripugnante alla ragione tentare di confinare tutti entro la stessa misura, e di estendere la piena uguaglianza alle istituzioni della vita civile. Proprio come una perfetta condizione del corpo risulta dalla congiunzione e dalla composizione delle sue varie membra, che, sebbene differenti per forma e per scopo, realizzano, mediante la loro unione e la distribuzione di ciascuna al proprio posto, una combinazione bella a vedersi, salda, forte e necessaria alla vita; così, nello Stato, c’è una varietà quasi infinita degli individui che lo compongono. Se questi uomini verranno parificati, e ciascuno vivrà secondo la propria volontà, il risultato sarà uno Stato mostruosamente deforme; ma se, tramite una distinzione armonica per gradi di dignità, di attività e di impieghi, tutti coopereranno opportunamente per il bene comune, l’immagine che ne scaturirà sarà quella di uno Stato ben costituito e conforme alla natura”. [adattamento all’italiano corrente del traduttore]

Questo argomento, tra l’altro, è ben sviluppato nel discorso di Natale di Pio XII del 1944 sulla vera e falsa democrazia.

Alla fine della Humanum Genus, Leone XIII coglie l’occasione per presentare e raccomandare una comprensione cristiana del famoso slogan della Rivoluzione francese – liberté, égalité, fraternité :

“Non come le immaginano assurdamente i massoni, ma come Gesù Cristo le ottenne per il genere umano, e come san Francesco le ravvivò nel mondo: la libertà, diciamo, dei figli di Dio, che ci libera dalla schiavitù di Satana e dalle nostre passioni, che sono i tiranni più malvagi; la fraternità, che ha la sua origine in Dio, Creatore e Padre di tutti; l’uguaglianza che, fondata sulla giustizia e sulla carità, non distrugge le differenze tra gli uomini, ma crea, dalla varietà della vita, dei doveri, delle inclinazioni, quell’unione e quell’armonia volute dalla natura a tutto beneficio e dignità della società.” [adattamento all’italiano corrente del traduttore]

Nella Rerum Novarum (1891), Leone XIII giudicava l’utopia socialista della proprietà comune come una vera e propria ricetta per il disastro: “la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria” (n. 12) – parole profetiche, se guardiamo al corso del secolo successivo, con i suoi numerosi e fallimentari esperimenti di “liberazione” e “affermazione” marxista, per quanto, a dire il vero, non si può affermare che il capitalismo, con tutta la serie di vizi che si porta dietro, si sia dimostrato moralmente superiore (cfr. Pio XI, Quadragesimo Anno).

Autentica solidarietà

Basandosi sull’eredità di Leone XIII, Pio XII offre una trattazione profonda dell’argomento nella sua enciclica inaugurale Summi Pontificatus, scritta nel 1939, mentre sull’Europa calavano le tenebre della seconda guerra mondiale. Pio XII lamenta una crescente “dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. […] La prima pagina della Scrittura […] ci narra come Dio fece l’uomo” – maschio e femmina – “a sua immagine e somiglianza […] destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini”; in questo modo, tutti gli uomini sono veramente fratelli. La Scrittura ci propone “una meravigliosa visione” delle tante fonti di unità: possiamo trovarle

“nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine.

E lo stesso apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile […]; nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini”.

Dopo aver passato in rassegna i fondamenti essenziali della solidarietà umana, Pio XII può concludere così: “Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni”. Il papa dunque prosegue applicando queste verità alle relazioni internazionali e all’appartenenza alla Chiesa.

Se lo mettiamo in termini sistematici, l’insegnamento cattolico si può presentare così: gli esseri umani – uomini, donne e bambini, senza alcuna eccezione – sono uguali per quanto riguarda la natura umana – razionale e libera – che possiedono; per quanto riguarda la loro capacità inerente (ma non attualizzata) nei confronti della verità e della bontà morale; per quanto riguarda i diritti naturali di cui sono dotati, e i doveri ad essi corrispondenti (cfr. Giovanni XXIII, Pacem in terris, nn. 5-25); per quanto riguarda il loro bisogno della società umana, verso la quale hanno certi obblighi, come anche verso le sue autorità di governo, quali che esse siano. Tutti questi punti si basano sul loro possesso di una natura umana, dalla quale sono costituiti come persone. Non è mai consentito trattare una persona come una non-persona, come un semplice mezzo per un fine ulteriore, per il quale essa può venire tranquillamente calpestata. Inoltre, gli esseri umani sono uguali per quanto riguarda la loro vocazione alla vita soprannaturale, la vita di partecipazione alla grazia divina: Dio desidera che tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della sua verità salvifica (cfr. 1 Tim 2: 4). Sotto questo profilo, sono uguali nei diritti e nei doveri che appartengono essenzialmente alla vocazione cristiana, il che include, ad esempio, poter ricercare e aderire alla verità su Dio, poter ricevere il Battesimo o uno qualsiasi dei sacramenti quando adeguatamente disposti (e questo è un punto che ha fatto molto discutere durante questa crisi pandemica), poter abbracciare la vita religiosa, e così via. Nessun potere terreno può legittimamente ostacolare il perseguimento di uno qualsiasi di questi beni.

Allo stesso tempo, la tradizione cattolica valorizza il sottile rapporto che si instaura tra la persona e le diverse società a cui appartiene, tra dignità individuale e solidarietà sociale. Nessun uomo è un’isola, ma tutti sono, in vari modi, chiamati a rispondere, ad essere responsabili verso gli altri, nel servizio di quel vero bene comune che davvero appartiene a me come a te più di ogni altro bene puramente privato. Dunque, il bene comune e il suo sostegno, la legge civile, pongono dei limiti alla libertà e ai diritti dell’individuo, proprio per consentire e favorire il miglior sviluppo di ciascuno e di tutti (questo è un argomento ricorrente nella DSC: v. Pio XI, Divini Redemptoris nn. 25-38, e per un’analisi più approfondita, Sul primato del bene comune, di Charles De Koninck). La dignità umana non è una proprietà immutabile e unidimensionale, ma, fondandosi saldamente sulla natura razionale dell’uomo, ammette un aumento di intensità man mano che l’uomo si avvicina al suo fine ultimo, che è oggettivamente Dio e soggettivamente la felicità dell’unione con Dio. La dignità attuale dell’uomo aumenta o diminuisce in proporzione al modo in cui si pone nei confronti del bene umano, sebbene non possa cadere così in basso da perdere del tutto la dignità, né può elevarsi così in alto da possedere una dignità pari a quella del suo Signore increato. La tradizione cristiana non è, in questo senso, egualitaria, ma ritiene che gli uomini siano classificati oggettivamente – anche se in modo invisibile ai nostri occhi – da quel fuoco della carità che arde nei loro cuori, e dalla chiarezza di visione con la quale sono uniti alla Verità Prima, riflettendo l’immagine della Sua Luce (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 93).

L’errore degli estremi

Gli errori che sono sorti riguardo all’uguaglianza sono errori di estremi: da un lato, abbiamo un egualitarismo che o nega in linea di principio le differenze umanamente significative, respingendo ogni valutazione in proposito come “giudizio soggettivo”, o ammette che esistono, ma le vede come mali da superare attraverso una legislazione che punta a un livellamento massimo; dall’altro lato, troviamo l’estremo di un rigido senso di gerarchia che si risolve in una negazione, implicita o esplicita, del fatto che la natura umana è essenzialmente la stessa in tutti gli individui, e dei diritti e doveri che ne derivano, come si può vedere nel sistema indiano delle caste o nelle passate schiavitù del Nuovo Mondo. Nel moderno Occidente sembra esserci una strana tentazione di negare completamente, o per lo meno di minimizzare la rilevanza della più fondamentale tra le differenzenaturali, cioè quella tra i sessi (si veda il magistrale commentario di Cahill, Framework of a Christian State, pp. 422-50). Esiste anche una sinistra tendenza a negare a intere classi di esseri umani (come ad esempio il nascituro o colui che si trova in una condizione di incoscienza) lo status di “persone” davanti alla legge, per evitare di riconoscerle pari detentori di quei diritti naturali che appartengono all’uomo in quanto uomo.

La nostra analisi si può spingere oltre approfondendo il tema della aristocrazia. Il termine “aristocrazia” si può utilizzare in due sensi. In senso stretto, si riferisce a una forma di governo o a un regime in cui il popolo è governato dagli aristoi, “i migliori”. In senso più ampio, si riferisce alla presenza all’interno di una società di una classe, una élite, distinta per nascita, ricchezza, istruzione o particolare coraggio nella difesa della patria (a volte, per tutte e quattro le caratteristiche insieme). Se, con Aristotele, intendiamo “i migliori” come coloro che sono nobili nello spirito, eccezionali nella virtù, modelli di saggezza pratica, una classe del genere può esistere o meno a seconda delle strutture sociali che ne favoriscono o ne avversano la nascita e la permanenza. Inoltre, una classe sociale è una categoria mutevole e variabile; il passare del tempo può portare al decadimento tanto di una classe sociale quanto dei singoli individui. Proprio come la democrazia può degenerare nell’oclocrazia o dominio delle masse, così l’aristocrazia può degenerare nell’oligarchia o dominio dei pochi a favore dei pochi.

Per quanto oggi si tenda a parlare come se i regimi aristocratici fossero scomparsi con l’avvento della moderna democrazia, si può ben dubitare del fatto che qualsiasi popolo o civitas sia mai stato governato da qualcosa d’altro che non fosse un’aristocrazia, con membri che ne fossero i “migliori” di fatto o soltanto di nome. Ci sarà sempre una élite privilegiata anche in quelle società che si vorrebbero democratiche o socialiste; si pensi soltanto alla nomenklatura dell’ex Unione Sovietica, che poteva godere dei migliori appartamenti, automobili e cibo, o ai Kennedy degli Stati Uniti.

Il primo equivoco di cui fare piazza pulita è il pregiudizio per cui la tradizione cristiana sarebbe essenzialmente anti-gerarchica, e che promuova un’utopia in cui tutti sarebbero uguali sotto ogni aspetto, dotati degli stessi diritti e degli stessi privilegi. Dal Nuovo Testamento traspare chiaramente che la preoccupazione principale dei primi cristiani era la liberazione dalla schiavitù del peccato e la vittoria sull’orgoglio personale. San Paolo esprime tutta la sua gioia per questa paradossalità del Vangelo: “Colui che è stato chiamato nel Signore quando era schiavo, è un affrancato del Signore; similmente colui che è stato chiamato quando era libero, è schiavo di Cristo. […] Quindi, fratelli, in qualunque stato ciascuno fosse chiamato, rimanga con Dio” (1 Cor 7:22, 24). La prospettiva dell’Apostolo era che le distinzioni sociali, per quanto spesso derivino dai peccati, non sono il contesto spirituale all’interno del quale il cristiano deve imparare a vivere, a muoversi, a giocare tutto il proprio essere. Quando afferma: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal. 3:28), non sta lanciando uno slogan per una rivoluzione comunista, ma sta esultando nell’ineffabile mistero della comunione con il Salvatore risorto.

Per san Paolo, come per gli altri testimoni del Nuovo Testamento, sempre ci saranno sia i ricchi che i poveri (cfr. Marco 14: 7; Rm 15:26; 2 Cor 8), quelli che hanno il potere e quelli che non lo hanno (cfr. Matt. 20:25; Rom. 13: 1–7; 1 Piet. 2:13), il famoso e lo sconosciuto, il colto e il grezzo. La domanda decisiva e – in un certo senso – l’unica domanda, è questa: dov’è il tuo cuore (cfr. Matt. 6:21)? Indubbiamente, più un uomo si volgerà verso il Signore, più si allontanerà dalle misure e dai pesi terreni, e penserà con la mente di Cristo (cfr. 1 Cor. 2:16; Rom. 8: 6–9 , 12: 2; Filip. 2: 1–5). Quindi, sebbene il cristianesimo non sia una forma di egualitarismo – non si tratta di una teoria astratta, ma di una vita di amicizia con Gesù – esso promuove però una radicale rivalutazione del rango e dei privilegi mondani, conducendo il discepolo sempre più a fondo nell’abnegazione totale del Re Crocifisso.

Per una Visione Equilibrata dell’Aristocrazia

Nei diversi secoli della cristianità è sempre esistita la tentazione di considerare qualsiasi classe privilegiata come, ipso facto, un’incarnazione dell’ingiustizia nei confronti dei diseredati. La macchina di propaganda della Rivoluzione francese ebbe particolare successo nel proiettare un’immagine puramente negativa dell’ancien régime e della sua nobiltà. Eppure non si devono né esagerare i vizi dell’aristocrazia né trascurarne le numerose virtù. Quel che è certo è che le classi d’élite di tutte le epoche si sono rese responsabili di molto bene e di molto male, secondo l’antico principio per cui corruptio optimi pessima. Molti che nacquero e crebbero aristocratici raggiunsero le rispettive vette di santità all’interno di quella sfera sociale: esempi ben noti sono Elisabetta d’Ungheria, Tommaso d’Aquino, Tommaso Moro, Francesco Borgia (o, più correttamente, Francisco de Borja y Aragon), e tutto il lungo elenco di santi re e regine di cui si è ornata la storia europea, fino all’ultimo monarca regnante della dinastia degli Asburgo, Carlo I (1887-1922). Vale la pena notare che, senza alcuna eccezione, questi santi praticavano la vita ascetica, incontravano incomprensioni e talvolta persecuzioni da parte degli altri membri della loro classe e, quando non rinunciavano del tutto alla loro posizione e al potere, distribuivano comunque generosamente le loro ricchezze ai bisognosi. Nel bellissimo libro di Ferdinand Holböck Married Saints and Blesseds Through the Centuries (San Francisco: Ignatius Press, 2002) molti dei santi che vengono presentati appartenevano alla nobiltà della propria epoca.

D’altra parte non serve nascondersi il fatto che le classi “più alte” abbiano perpetrato crimini oltraggiosi contro le classi “più basse”, come quando la aristocrazia de facto costituita dagli spagnoli in Sud America o dagli inglesi in Nord America trattava gli indigeni americani con tale spietata brutalità da sollevare appassionate proteste in nome dei diritti umani fondamentali (e mi vengono in mente i grandi teologi domenicani Francesco de Vitoria e Bartholomé de Las Casas). Sfruttare terribilmente i poveri, o chiudere un occhio nei confronti dello sfruttamento, è stata una caratteristica fin troppo familiare del rapporto tra le classi “superiori” e “inferiori” della storia occidentale, e non si può negare che questo scandalo e questa sofferenza abbiano svolto un enorme ruolo nei violenti sconvolgimenti dell’epoca moderna. Nella sfera della politica, in particolare, troppo spesso l’autorità non è stata diretta al bene comune dei governati, ma verso il bene privato del governante o di particolari gruppi di interesse; si può vedere qualcosa di simile nel modo in cui i vescovi, i superiori religiosi, o anche i mariti e i padri hanno governato, a volte, più per loro comodità e convenienza che per il vero bene di chi era affidato alle loro cure. L’ascesa del liberalismo (ivi incluso il femminismo) è, almeno in parte, una reazione contro veri abusi, proprio come il protestantesimo, il progenitore del moderno liberalismo, guadagnò plausibilità al suo dissenso grazie al lassismo e alla confusione della Chiesa tardo medievale.

Forse sorprenderà molti sapere che il magistero della Chiesa contiene degli insegnamenti ufficiali diretti agli aristocratici, che ne chiariscono i diritti e i doveri. La fonte principale di questo insegnamento fu Papa Pio XII – egli stesso un membro dell’aristocrazia romana – che seppe combinare una profonda conoscenza della storia politica con una lucida consapevolezza delle crisi della modernità. “Un’attenta lettura dei documenti dei pontefici precedenti e successivi a Pio XII rivela che lui soltanto ha trattato metodicamente la questione della nobiltà, spiegandone la natura e la missione passata e presente” (tutte queste affascinanti allocuzioni del Pastor Angelicus dal 1940 al 1958 sono raccolte in Plinio Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana, pp. 134 s.s.). Papa Benedetto XV, rivolgendo una toccante allocuzione allo stesso illustre gruppo nel gennaio 1920, arriva a parlare di un “sacerdozio della nobiltà”, esortando i nobili di tutto il mondo a dare un esempio degno nel parlare, nel vestire e nei modi, a preservare e a promuovere “il patrimonio intellettuale” della cristianità, a praticare la loro santa fede senza paura e con fervore (de Oliveira, 158-160).

Conclusione

Con argomenti presi dalla ragione naturale e dalla Sacra Scrittura, la Chiesa cattolica ha sempre sostenuto un “et et” dell’etica sociale: da un lato, afferma la giustizia della stratificazione sociale, vale a dire dell’ineguaglianza basata sulla virtù, sullo sforzo e sulla posizione; dall’altro, riconosce l’uguaglianza assoluta della natura umana e della vocazione battesimale del cristiano, che non ammette alcuna cancellazione o abrogazione. Queste due verità si legano strettamente al principio per cui la gerarchia è a servizio del bene comune, e il bene comune si realizza soprattutto nella Visione beatifica, dove tutti i beati godono della felicità piena di possedere il bene supremo, e godono della visione di Dio secondo diversi gradi in base alla loro carità durante questa vita. Il principio cardine qui sulla terra, quindi, dev’essere questo: ciò che è superiore, migliore o più forte è ordinato al servizio di ciò che è inferiore, più bisognoso e più debole, alla costruzione dell’intero organismo sociale nella giustizia e nei legami di vera amicizia. È e rimarrà sempre vero il vecchio assioma: servire est regnare, servire è regnare.

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2 commenti

  • Maria Michela Petti ha detto:

    La mia capacità di lettura mi permette di intendere che i principi della Dottrina sociale della Chiesa siano inequivocabilmente espressi con un linguaggio lineare e comprensibilissimo. Quanto all’applicazione…beh! è tutta un’altra storia, se persino il card. Müller in una dichiarazione – immediatamente successiva al suo mancato rinnovo del mandato a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede – ebbe a sottolineare (vado a memoria) che essa (la DSC) “deve essere applicata prima a Roma”… intendendo con “Roma” il Vaticano, suppongo…
    Senza perdermi in rilievi che varrebbero “zero assoluto”, mi limito ad esprimere quel che mi sembra stia ad indicare il termine “disuguaglianza”, nel suo significato generale: una diversità fra una cosa e l’altra, fra l’una e tutte le altre, e tutto ciò in cui si manifesta questa diversità. Non esclusivamente, e non soltanto, disparità di trattamento nella distribuzione di beni di consumo e mancanza di equità nella regolamentazione dell’accesso ai servizi di base e dei contratti di lavoro. Disuguaglianza è anche – e soprattutto – mancanza di regole certe ed uguali per tutti, imposizione di scelte e decisioni ad e contra personam, e potrei continuare facendo riferimento a tutti quei trattamenti basati su criteri di giudizio dal valore soggettivo.
    Le disuguaglianze, di qualsiasi entità e in qualsiasi modo si manifestino, rappresentano una violazione dei diritti umani e – comunque – un ostacolo, un limite alla giustizia sociale.
    Sarebbe sufficiente tenere a mente la morale della parabola dei talenti per agire di conseguenza in prospettiva di una rinascita collettiva, mossa da una rivoluzione culturale che aiuti a superare l’ignoranza e l’ignavia per instaurare l’ordine universale di equità e giustizia che oggi si tende a perseguire attraverso alleanze spurie per realizzare un nuovo modello di “capitalismo”, prospettato come inclusivo.

  • Marco Matteucci ha detto:

    NOSTRA SIGNORA DI ANGUERA – REGINA DELLA PACE
    Messaggio N. 5.059 | Giovedì 17 Dicembre 2020

    “Cari figli, il seme del male si diffonderà ovunque e molti dei Miei poveri figli saranno contaminati. Non allontanatevi dal cammino che vi ho indicato. Vivete in un tempo di grande tribolazione. Restate con Gesù. La vostra vittoria è in Lui. Non dovete perdere la speranza. Chi è con il Signore non sperimenterà mai il peso della sconfitta. Il Mio Gesù vi ​​ama e vi aspetta a braccia aperte. Coraggio. Dopo tutto il dolore, verrà per voi una grande gioia. Avanti in difesa della verità…*

    Se vuoi leggere tutto:
    https://reginadelcielo.wordpress.com/2020/12/18/nostra-signora-di-anguera-regina-della-pace-166/