FERRO CANALE, VAT II: CONSIDERAZIONI PRELIMINARI SUL METODO.

21 Luglio 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, riceviamo questo ponderato e documentato contributo sul metodo che si dovrebbe seguire quando – come nel nostro caso, nelle ultime settimane – si discute su un Concilio di Santa Romana Chiesa. Purtroppo questa riflessione, veramente molto ricca e interessante, giunge in coda a una discussione che come ben sapete ha incendiato il blog per vario tempo. Grazie a Guido Ferro Canale per questo suo prezioso piccolo saggio. 

 

§§§

Il dibattito sul Vaticano II

Alcune considerazioni preliminari sul metodo

Preg.mo Dott. Tosatti,

gli interventi che, dopo la presa di posizione di Mons. Schneider e soprattutto dopo quella di Mons. Viganò, si sono susseguiti nel dibattito sul Vaticano II – di colpo rinfocolato – mi han colpito al punto di farmi rientrare in una discussione che, mi ero detto da tempo, non poteva approdare da nessuna parte; e siccome penso tuttora che andrà così, a meno che non vengano prima chiariti alcuni punti preliminari, vorrei sottoporre a Lei e, se riterrà, ai Suoi lettori qualche considerazione in proposito.

Da non teologo e non specialista, leggendo i vari articoli – inclusi gli ultimi – ho riportato l’impressione, via via sempre più netta, che tutti dicano “il Concilio”, ma a stento due persone su cento intendano davvero la stessa cosa. Tutti hanno una loro idea su cosa sia stato in termini storici e pure su cosa implichi in termini teologici… solo che si va da “complotto modernista” a “nuova Pentecoste”, passando per “ritorno all’autentica Tradizione”, “rinnovamento nella continuità” etc. etc.

Si può affrontare il problema del Concilio in un modo che non parta già condizionato da una qualunque di queste prospettive, che altrimenti continueranno in eterno la loro rissa nella notte?

Credo di sì e vorrei appunto formulare qualche proposta in tal senso. Ma, per prima cosa, ritengo si debba chiarire: Che cos’è un Concilio Ecumenico?

Una definizione ufficiale non esiste, ma tralasciamo i punti controversi: i cattolici concordano che esso è un’assemblea di Vescovi (ed eventualmente altri ecclesiastici) che legifera sulla vita della Chiesa; però, nessuna sua deliberazione, neppure una definizione dogmatica, ha forza obbligante se non viene approvata dal Papa. Abbiamo, quindi, tre elementi essenziali: un’assemblea deliberante; l’approvazione papale; la decisione stessa. In termini di risultato, “il Concilio” significa essenzialmente “le decisioni”; come processo deliberativo, a volte indica il momento assembleare, altre volte l’insieme “Concilio + Papa”.

Secondo me, nel nostro caso il problema non sta tanto nell’usuale contrapposizione tra documenti e “spirito del Concilio” o “Concilio-evento”, quanto in due diverse concezioni del Concilio come processo: processo chiuso, perché destinato a terminare e di fatto terminato con le decisioni assunte, oppure processo aperto, nel senso in cui oggi si dice che “l’importante è avviare processi”. La prima visione ha dalla sua la forza del precedente storico; l’altra sembra, obiettivamente, una descrizione di gran lunga migliore della vita della Chiesa dall’apertura del Concilio Vaticano II in avanti.

Questo mi porta ad esplicitare la mia prima scelta di metodo: ritengo che abbia ragione de Mattei e che la valutazione del Concilio sul piano teologico o canonico vada separata dall’indagine storico-sociologica. La prima richiede il paradigma del “processo chiuso”, non fosse che per l’impossibilità materiale di analizzare un qualcosa che non si ferma mai; mi sembra però innegabile che, in termini storici e sociologici, “il Concilio” sia stato (e sia tuttora) soprattutto un movimento di opinione, le cui parole d’ordine perdurano con innegabile continuità… ma anche completamente a prescindere dai testi dei documenti conciliari. Non dico in contraddizione con essi – non è detto – ma a prescindere senz’altro. Però, un conto è dire che sul piano storico non vi è soluzione di continuità tra Concilio e post-Concilio, perché le stesse persone hanno continuato a discutere e brigare intorno alle riforme conciliari; altro sarebbe negare che vi sia comunque una differenza, marcata dalla cerimonia di chiusura dell’8 dicembre 1965, fondamentale in termini teologici e canonici, nonché storicamente tale da segnare almeno un mutamento di sedi decisionali e di metodi.

Storicamente, alcuni Concili hanno preso decisioni e solo in un secondo momento sono stati scritti i documenti destinati a comunicarle e giustificarle. Non così il Vaticano II, che, sotto questo profilo, si è svolto come una discussione di documenti previ, rielaborati in vario modo anche a più riprese, e ha deciso appunto votandoli. Da ciò si dovrebbe desumere “decisioni = testi”; questo fanno, in genere, i fautori del “processo chiuso”.

Non io.

Certo, prima di stabilire se i testi vadano sacralizzati, scartati, corretti etc., occorre confrontarsi con la domanda, forse banale ma non per questo eludibile, “Cosa dicono questi documenti?”. Ma i problemi interpretativi, se per me non possono risolversi a priori con il richiamo a chiavi di lettura esterne (le quali danno vita a tutta la battaglia delle ermeneutiche, dal complotto fino al rinnovamento nella continuità), tantomeno vanno esorcizzati con un richiamo alla nuda lettera dei documenti. Di fronte al conflitto di posizione, occorre ricostruire il tenore della decisione, anche se – in ipotesi – espressa male nel testo, perché l’esercizio della potestà risiede nel momento deliberativo, il documento è una fonte di cognizione e non di esistenza del decisum.

Questa mia seconda scelta di metodo si spiega meglio, forse, alla luce di un altro interrogativo: Esiste un Vaticano II?

E intendo: esiste “il Concilio” come idem placitum, come insieme di decisioni veramente comuni?

L’interrogativo mi sembra necessario: il Concilio di Siri o di Palazzini non è stato quello di Frings o di Doepfner, per non parlare di un Congar o di un Rahner; per ciascuno di questi illustri personaggi, e in termini propriamente dottrinali, il Vaticano II ha detto cose diverse. Tra loro inconciliabili.

Mi limito ad un esempio solo: la collegialità. I più si limitano a ripetere il testo di LG 22 e ad affermare che vi sono due soggetti della potestà suprema, il Papa e il Collegio, ma che quest’ultimo non può fare nulla senza l’assenso del primo. Questo dovrebbe suscitare qualche interrogativo sui loro reciproci rapporti; ma in genere ci si ferma lì. Siri, invece, risponde – e Ciappi con lui – che il Collegio opera soltanto per mezzo del Papa (per Petrum), nel senso che questi è titolare dell’unica potestà veramente suprema (aggettivo che, a norma di grammatica, non ammette eguali) e chiama i Vescovi ad esserne partecipi per quella singola occasione, così facendoli agire come Corpo. Rahner fa l’esatto contrario: la fonte del potere è il Collegio, che agisce tramite il proprio Capo. Fin qui si potrebbe forse ancora pensare a due modi diversi di spiegare la stessa cosa; ma basta approfondire un minimo princìpi e conseguenze per comprendere quanto le due visioni siano inconciliabili.

Potrei facilmente addurre altri casi, forse tutte quante le “novità” del Vaticano II. In ogni caso, basta un esempio solo perché si capisca l’importanza del problema: i documenti conciliari, nella votazione finale, sono sempre stati approvati all’unanimità morale, tanto che il numero più alto di voti contrari non si è registrato per uno qualunque dei più controversi, bensì per il dimenticatissimo Inter mirifica; quindi, appare innegabile un consenso rispetto all’enunciazione, ma oltremodo dubbio quello rispetto all’enunciato.

Ciò ha un’importanza notevole sul piano teologico, perché solo un consenso dei Vescovi di tutto il mondo nell’insegnare la stessa cosa potrebbe ambire all’infallibilità – non delle definizioni dogmatiche, mai pronunziate dal Concilio, bensì – del Magistero ordinario e universale, il consenso di tutti i Vescovi, con il Papa, nell’insegnare la stessa cosa… non uno stesso testo, ma uno stesso contenuto. Intendiamoci, qualcuno degli insegnamenti conciliari potrebbe ben ambire a questo status, però difficilmente farà parte delle “novità”: il candidato migliore, a parte LG 21 sulla sacramentalità dell’Episcopato, mi sembra il cap. VIII della Costituzione sulla Chiesa, che, al n. 54, dichiara espressamente di voler evitare le questioni ancora controverse, insegnando solo la dottrina mariologica assodata.

Comunque, l’esempio della collegialità basta a dimostrare la necessità di affrontare un problema che la retorica classica chiamerebbe di scriptum et voluntas, ossia possibile divergenza tra testo e volontà. Evidentemente, il testo da solo non può risolverla. Di qui l’esigenza di individuare una decisione del Concilio anche al di là del documento. Oppure un’ambiguità intenzionale, nel senso della decisione di non decidere.

Come si dovrebbe procedere, in concreto? Essenzialmente ripercorrendo liter dei documenti.

Questo prevedeva: l’elaborazione di una bozza (schema) da parte di uno o più teologi incaricati (periti), poi la discussione dello stesso in seno alle Commissioni competenti – per Sacrosanctum Concilium e Inter mirifica, alla Commissione centrale preparatoria del Concilio – con adozione formale del testo, modificato come ritenuto più opportuno. A questo punto, seguiva la sua presentazione all’assemblea conciliare (“Congregazione generale”) da parte di uno o più relatori deputati ad illustrare il ragionamento seguito dalla Commissione; i Padri, dopo una prima discussione generale, dovevano votare se adottare a loro volta il testo come base per il documento definito, per poi passare a discutere e votare le singole parti, con la possibilità, per ciascuno, di proporre emendamenti. Dopodiché il testo tornava in Commissione per il vaglio delle proposte emendative e la conseguente limatura del testo; la versione emendata riapprodava in Aula, accompagnata da una nuova relazione, che dava conto dei motivi per cui ciascun emendamento andava accolto, in tutto o in parte, oppure respinto; nuova tornata di votazioni e anche di emendamenti; e così via fino alla definitiva approvazione del testo in una votazione finale, con successiva sottoscrizione da parte del Papa in una solenne sessione pubblica. Accanto all’iter formale e regolamentare, peraltro, non sono affatto mancate iniziative di vario genere, come schemata elaborati in autonomia e sottoposti alle Commissioni, distribuzioni di materiale propagandistico vario ai Padri conciliari, scambi di idee tra Padri e/o periti, interventi del Pontefice affidati ai canali più diversi: occorre tener conto anche di tutti questi elementi, per valutarne l’impatto effettivo sul processo decisionale, ma esso resta – e non può che restare – quello appena descritto.

Vi è stata, e vi è tuttora, una tendenza a fare dei periti quasi gli interpreti ufficiali dei documenti. Come pure, per altri versi, a sostenere che le riforme postconciliari svelino il “vero” senso, il vero volto del Concilio. Non sono d’accordo né con l’una né con l’altra tendenza, perché mi sembra che contraddicano la nozione stessa di Concilio Ecumenico. In tanto una decisione è “conciliare”, in quanto assunta da un gruppo di Vescovi approvato dal Papa; al limite questo gruppo potrà anche essere la minoranza – se ha il Papa dalla sua prevale lo stesso: lo si è visto a Basilea, dove solo la minoranza ha accettato di trasferirsi a Ferrara – ma un gruppo deve esserci, altrimenti l’atto non potrà dirsi conciliare, bensì solamente papale.

Il Pontefice, poi, se non vi sono state definizioni dogmatiche, resta liberissimo di cambiare idea anche in seguito, anche rispetto ai documenti da lui stesso firmati, perché la sua autorità è la stessa del Concilio.

Nel caso del Vaticano II, proprio questo mi pare sia successo riguardo all’uso del latino e al limite di età dei settantacinque anni per la rinuncia obbligatoria dei Vescovi.

Lo schema iniziale di costituzione liturgica prevedeva l’introduzione della lingua volgare come obbligatoria; tuttavia, all’esito di un articolato dibattito in Aula, la soluzione approvata è un compromesso che prevedeva (artt. 36 e 54) il mantenimento del latino come regola generale, salvo il potere, per ciascuna Conferenza Episcopale, di approvare l’introduzione del volgare, in misura più o meno ampia ma comunque solo per alcune parti del rito, sempreché la giudicassero necessaria. Senonché, le successive norme emanate, almeno formalmente, per l’attuazione della riforma liturgica hanno prima imposto l’introduzione del volgare, poi allargato via via i limiti dettati dal Concilio, per eliminare infine quasi ogni coesistenza tra le due lingue e relegare il latino ad un ruolo assolutamente marginale, non solo nella prassi.

Discorso in tutto analogo per la c.d. “età pensionabile” dei Vescovi: l’ipotesi di fissarla per tutti a settantacinque anni è stata discussa, ma non accolta, e il testo finale del decreto Christus Dominus (n. 21) si limita ad esortare ogni Vescovo alla rinunzia se in concreto si rende conto di non essere più in grado di esercitare l’ufficio in maniera adeguata. Poi però, l’anno seguente, le norme per l’attuazione del medesimo decreto hanno introdotto proprio quello stesso limite di età, in una formulazione che, sebbene un po’ blanda, è stata subito interpretata come obbligatoria.

Qual è, in ipotesi del genere, la volontà del Concilio? Chi è e dove sta “il Concilio”?

Almeno nei casi testé citati, la risposta mi sembra univoca: il processo deliberativo ha portato a scartare certe ipotesi trovando un accordo su altre; il Papa ha approvato un testo che non contemplava le prime. Sia che non fosse d’accordo con le scelte dell’assemblea conciliare e abbia preferito non dirlo (poco importa il pur interessante perché…), sia che, invece, sul momento fosse convinto e abbia cambiato idea in seguito (idem sul perché), a mio parere non può che prevalere il dato formale: “il Concilio” è la decisione assunta in assemblea, rispecchiata nel testo finale, che è stato approvato dal Papa e neanche con la più fantasiosa delle interpretazioni può contenere le scelte scartate. Questo perché – lo ha notato Walter Brandmüller quando ha propugnato l’ecumenicità del negletto Concilio di Pavia-Siena, a mio avviso con ragione – non è possibile che i fedeli debbano attendere il seguito o la recezione di un Concilio per capire se, o a che cosa, siano tenuti a prestare il loro assenso; i contrassegni di riconoscimento sia del Concilio come tale sia dei suoi decreti non possono che essere, almeno innanzitutto, di carattere formale.

In verità, se queste ed eventuali altre modifiche ai decreti conciliari fossero state subito dichiarate per tali, anziché gabellate per fedelissima attuazione, si sarebbe magari evitata anche la nascita del mito che vorrebbe in qualche modo intangibili o “costituzionali” tutti i documenti del Vaticano II. Di certo si sarebbe evitato di far risalire al Concilio il biasimo di scelte che, nel bene e nel male, il Papa aveva il potere di compiere, ma erano soltanto sue… (perché non c’è stata una previa conforme decisione assembleare; e neanche Dio in persona può cambiare il passato, tantomeno il Pontefice.

In altri termini: sul piano storico si è liberissimi di ipotizzare che Montini facesse parte di un complotto più o meno diabolico che mirava fin dall’inizio a far sparire il latino, o che sia stato manovrato, o anche che la forza inarrestabile del progresso non potesse non trionfare (quest’ultima mi sembra a un di presso la posizione di Bugnini); ma, in termini giuridici, “il Concilio”, Papa incluso, tutto ha voluto fuorché la scomparsa del latino.

Se, invece, la volontà dei Padri conciliari fosse rimasta discorde fino alla fine, occorrerà capire quale linea sia stata condivisa dal Papa in quel momento e, anche se minoritaria in assemblea, quella sarà “il Concilio”. In altri casi, infine, si dovrà probabilmente concludere per una consapevole decisione di non decidere (penso alla Tradizione c.d. costitutiva).

Vorrei, quindi, concludere proponendo una serie di criteri operativi.

  1. A) Nell’apprezzamento del senso del testo, opinione e volontà dell’assemblea conciliare prevalgono su quelle della Commissione, che a loro volta si sostituiscono alle idee personali dei periti redattori dello schema di partenza.

Si tratta, per molti versi, del criterio più importante, ma in fin dei conti non fa che rispettare le fasi dell’iter. Nonché il dato teologico e, quindi, il ruolo dell’assemblea dei Vescovi riuniti.

Quindi, in particolare: l’approvazione di un emendamento prevale su tutte le manifestazioni di volontà anteriori; quella del testo senza modifiche si presume che implichi consenso rispetto alle considerazioni svolte dal relatore, salvo che dal dibattito (anche fuori dell’Aula) non emerga altrimenti; analogamente, quell del testo emendato importa condivisione dei motivi addotti dalla Commissione (non solo per accogliere, ma anche) per respingere le proposte emendative.

In effetti, la mia principale riserva, riguardo alle critiche “tradizionaliste”, riguarda il fatto che, quasi sempre esse sono state avanzate già direttamente in Aula, durante le discussioni sugli schemata e che non ha senso, in termini di metodo, riproporle tal quali, senza nemmeno soffermarsi sul seguito che hanno incontrato in tale sede, o sui motivi addotti per non accoglierle.

  1. B) Ai fini interpretativi, si ha riguardo al tenore delle varie dichiarazioni, senza che possano rilevare ai fini interpretativi i dubbi sulla loro sincerità, o sulle intenzioni più o meno dissimulate o recondite dei dichiaranti; in ogni caso, le dichiarazioni pubbliche prevalgono su quelle private.

Un conto è chiedersi cosa pensasse davvero Tizio o Caio, un conto come abbia influito sul procedimento. Se Tizio o Caio si esprimono così in aula conciliare e cosà nel diario o con gli amici, è il tenore obiettivo delle loro parole a raggiungere, e influenzare, migliaia di altri Padri conciliari.

  1. C) Se la volontà dell’assemblea, come risultante dall’applicazione dei criteri precedenti, è univoca, l’approvazione di Paolo VI si presume ad essa conforme se non sia accompagnata da contestuali indicazioni di segno diverso.

Non credo che sul punto siano necessarie particolari spiegazioni: si tratta, dopotutto, di un criterio volto ad evitare che insorgano problemi là dove non ce n’è motivo.

  1. D) In presenza di suoi interventi durante l’iter, si presume la costanza nella volontà del Papa e, dunque, che egli abbia inteso attribuire al testo il senso per cui insisteva inizialmente, salvo che non risulti invece un mutamento di opinione.

Così, ad esempio, il fatto che egli abbia voluto la Nota explicativa praevia ci dice, già da solo, che ha approvato la dottrina della collegialità in quel senso ad esclusione di altri; nel caso di specie, lo conferma quanto da lui stesso dichiarato nel discorso tenuto al momento della firma. Invece, in vari casi in cui egli voleva che i testi fossero modificati in un certo modo, la loro approvazione sebbene la sua volontà fosse stata ignorata parrebbe indicare un ripensamento; occorrerà valutare tutti gli elementi di volta in volta.

  1. E) Il criterio B) si applica anche al Papa. Inoltre, le sue esternazioni dirette, scritte od orali, prevalgono su quelle riferite da altri; in caso di contrasto tra le dirette, prevalgono le più vicine al momento dell’approvazione.

A rigore, la volontà del Papa può prevalere anche senza alcun nesso con il dibattito assembleare e senza aver esercitato alcun influsso su di esso; deve però trattarsi, non dell’opinione personale di G.B. Montini, bensì di una concreta decisione assunta dal Papa nell’esercizio delle sue funzioni, esercizio che presuppone, per sua natura, esternazioni di carattere pubblico.

Questo, peraltro, non significa affatto che si squalifichino tutte le carte personali di Paolo VI, che, anzi, torneranno utilissime per seguire l’evoluzione del suo pensiero; significa, invece, supporre che egli non abbia voluto imporre alla Chiesa il proprio punto di vista personale, se non nella misura in cui esso trova riscontro almeno in un’omelia ai fedeli.

E siccome, a torto o a ragione, Paolo VI si è guadagnato la fama di uomo incostante, mi è parso giusto predisporre un criterio atto a gestire eventuali suoi mutamenti di opinione (e/o contrasti tra le fonti). La regola della prossimità cronologica e la maggior affidabilità delle fonti dirette rispetto alla testimonianza de relato mi sembrano norme di semplice buon senso. In astratto, l’indagine potrà abbracciare l’intero Pontificato e senz0altro rintraccerà molte indicazioni utili negli atti degli anni Settanta (eventualmente anche di organismi della Curia, purché muniti di un’approvazione papale almeno generica), ma l’optimum sono, ovviamente, le dichiarazioni contestuali alla firma.

  1. F) Eventuali ripensamenti da parte di Paolo VI o dei Pontefici successivi, anche se presentati in forma di interpretazione autentica o similare, valgono come modifica del Concilio sotto il profilo disciplinare o rettifica del Magistero meramente autentico.

Vale lo stesso principio già enunciato per la riforma liturgica: il Papa è liberissimo di cambiare idea, non però di chiamare “Concilio” ciò che Concilio non è. In quanto il Magistero del Vaticano II non sia infallibile (neanche come Magistero ordinario e universale), il Papa, che gode della stessa potestà di ogni Concilio, può modificarne gli insegnamenti non infallibili; quindi, se gli asserti papali posteriori, ancorché presentati come interpretativi, non concordano con “il Concilio” come sopra ricostruito, dovrà concludersi che quei punti del Concilio non richiedano più, da parte dei fedeli, né un assenso interno né uno esterno. In termini giuridici si parlerebbe di abrogazione implicita. Non dico che sia successo; dico solo che l’ipotesi non può essere scartata a priori.

Nota a margine: l’Em.mo Card. Brandmüller sembra convinto che la maggior parte dei problemi del Concilio sia già stata risolta per questa via, grazie a documenti come la Dominus Iesus. Se una loro maggior chiarezza, almeno relativa, è innegabile, il fatto che non abbiano proceduto per condanne formali delle dottrine erronee consente sempre di riaprire la discussione… senza contare che troppi, ormai, li ritengono di autorità inferiore al Concilio e che, comunque, i testi conciliari continuano a circolare senza la glossa di cui si vorrebbe corredarli. Quindi, il singolo fedele potrà ricorrere a questo provvidenziale Magistero per risolvere i propri dubbi di coscienza, ma esso è strutturalmente inadeguato a risolvere il problema: in questo senso, mi sembra migliore la proposta un Sillabo, avanzata da Mons. Schneider.

*** *** ***

L’insieme dei criteri finora delineati dovrebbe permettere di risolvere almeno la maggior parte dei dubbi suscitati dai testi conciliari o, punto forse ancor più importante, di comprendere quando essi si debbano ad una scelta consapevole di lasciar aperta la questione soggiacente. Può essere utile aggiungere, forse, che mi sembra che la Congregazione per la Dottrina della Fede si sia attenuta ad una metodologia analoga allorché, nel 2007, ha risposto ad alcuni dubbi concernenti la dottrina conciliare sulla Chiesa.

Ad oggi, i volumi editi degli Acta Synodaliain larga misura disponibili gratuitamente on-line – includono soltanto i lavori preparatori di alcune Commissioni, ma, sebbene sia difficile misurare l’entità concreta della lacuna (ossia il quantitativo di informazioni che poi non è stato trasfuso nelle relazioni o non è altrimenti filtrato nel dibattito), questo non dovrebbe porre ostacoli insormontabili all’interprete, data la preminenza del momento assembleare, che invece può essere compiutamente investigato. Una difficoltà pratica al riguardo, a onor del vero, può sorgere per la mole e la complessità degli Acta, in cui non è sempre agevole raccapezzarsi; ma per fortuna non ci troviamo all’anno zero e c’è già stato chi ha pensato ad apprestare opportuni sussidi. In particolare, Mons. Francisco Gil Hellín, oggi Arcivescovo emerito di Burgos, ha curato una serie di volumi sinottici che presentano, per diversi documenti, le successive redazioni del testo su colonne parallele, evidenziando le modifiche e accompagnandole, in calce, sia con i passi delle relazioni che ad esse si riferiscono, sia con le motivazioni addotte per il rigetto degli altri emendamenti: si tratta di uno strumento di lavoro che personalmente trovo utilissimo e che presenta, inoltre, il pregio aggiuntivo di pubblicare non pochi materiali tratti dagli archivi delle Commissioni e non ancora editi nella serie ufficiale degli Acta.

L’atteggiamento assunto dalla S. Sede nei riguardi dei cc.dd. lefebvriani parrebbe – mi esprimo con tutta la doverosa cautela al riguardo – implicare l’esistenza di un dubium probabile riguardo alle novità qualificanti del Concilio: a parte le discussioni dottrinali degli ultimi anni, nel 1988 il m.p. “Ecclesia Dei adflicta” ha attribuito forza di legge al protocollo d’accordo già siglato con Mons. Léfebvre, in cui, se il punto 2) ribadisce la regola generale di adesione al Magistero, il n. 3 pare introdurre un’eccezione, giacché recita “A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica.”. Non una parola sull’adesione. Ora, io non so se sia mai accaduto nella Storia che la S. Sede abbia raggiunto un’intesa lasciando che l’altra parte esprimesse pubblicamente le proprie riserve su atti di Magistero!

Più di questo non mi azzardo a dire, perché tutti sappiamo quali siano i temi di indagine e le posizioni già assunte al riguardo, ma, come ho detto in esordio, secondo me il lavoro non è mai veramente partito e occorre capire, prima di tutto, se siamo d’accordo almeno su come farlo. O superare il disaccordo, che si può quasi dare per scontato.

Può darsi che, nel loro insieme, i criteri da me proposti favoriscano una lettura “conservatrice”, ma sono stati elaborati senza avere di mira alcun risultato prestabilito e anzi, se mi è consentito osservarlo, con un profondo fastidio per le etichette più o meno vacue o gratuite. Quindi, ho l’impressione che scontenteranno un po’ tutti. Ma, se ciò servisse ad aprire un “discorso sul metodo” che è mancato troppo a lungo, avrei comunque raggiunto il mio scopo.

 

Genova, li 18 luglio 2020

in die CL anniversaria

a Const. dogm. “Pastor Aeternus

prima de Ecclesia Christi

Guido Ferro Canale

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8 commenti

  • Giuseppe ha detto:

    Non capisco sinceramente come tutto il discorso possa essere utile a cominciare a superare i problemi posti alla Chiesa dal Vaticano II. I criteri presentati, infatti, potranno al più dirimere beghe interpretative tra conservatori e progressisti che non si dolgono di aggressioni alla fede (gli uni perché si ostinano nel negarle, gli altri perché ne sono lietissimi). Mentre la crisi della Chiesa riguarda tutt’altro, e cioè l’impossibilità, qualunque sia il criterio interpretativo applicato, di leggere alcune delle dottrine insegnate dal “concilio” (le cosiddette “novità”) in continuità con il magistero della Chiesa (il cosiddetto magistero “precedente”). Peraltro, se la contraddizione tra queste “novità” e il magistero “precedente” esiste allora il “magistero” del Vaticano II è certamente erroneo se non eretico, con la conseguente irrilevanza di ogni possibile distinzione tra “il testo” e “il contenuto” dei documenti che insegnano le dottrine erronee se non eretiche. E questa contraddizione pone il problema che sta alla base della situazione attuale della Chiesa, quello dell’autorità, dato che non è possibile che la Chiesa in materia di fede o di morale insegni ai fedeli qualcosa che contraddice il proprio magistero. Cordialmente. Giuseppe

  • Astore da Cerquapalmata ha detto:

    Non nego che vi possa essere una “valutazione del Concilio sul piano teologico o canonico” e un’indagine “storico-sociologica”.
    Ovvero: il Vaticano II da un punto di vista canonico e teologico è “regolare” ma l’indagine storica e sociologica ci dice che è stato, a volte, male interpretato.
    Da chi è stato male interpretato? Dai Papi e dal loro magistero? No di certo! E’ stato male interpretato da chi voleva trasformare il Vaticano II in un Vaticano TERZO, cioè da chi ha RIFIUTATO il Vaticano II.
    Un po’ come il popolo di Israele al tempo dei profeti: sia i sovrani che il popolo disubbidivano a Dio, spesso a causa di falsi profeti, o forse anche di profeti veri ma che non erano fedeli alle ispirazioni del Signore

  • Tonino T. ha detto:

    [IT] 🇮🇹
    21 luglio 2020
    ▶️ FERRO CANALE, VAT II: CONSIDERAZIONI PRELIMINARI SUL METODO.
    https://www.facebook.com/groups/1240854762763713/permalink/1558784274304092/

  • FRANCESCOMARIA ha detto:

    La spiegazione di chi è il Papa e cosìè il Papato la danno i card. Siri e Ciappi. E’il Papa che guida la Chiesa e non il collegio dei vescovi sia che sia formato da pochi o da tanti.
    Dio in Mt16 rivela al Figlio l’aspotolo scelto. Pietro è il prescelto colui che una volata raffeduto confermerà nella Fede i fratelli. Pietro e i suoi successori sono i depositari della Fede. Spetta al capo guidare e non alla collegiavilità degli apostoli. Se Santa Romana Chiesa si trova in questa situazione è prorio perchè grazie al vaticanoII Pietro ha perso questa priorità. Ora è inutile dire se sia stato dannoso perchè ambiguo o perchè, volutamente, interpretato male. In quanto, se fosse vera la prima ipotesi, dell’ambiguità, significherebbe che non è stato ispirato dallo Spirito Santo( sia il vostro parlare si,si,no,no Mt5,37); se fosse vera la seconda, L’interpretazione, varebbe la stessa regola di cui sopra, in quanto lo Spirito Santo non da adito a interpretazioni ambigue. In conclusione il vaticanoII è stato disastro e ora i nodi, con Bergoglio, stanno venendo al pettine. Che la Santa Vergine, ciò che ne dica Bergogio, ci protegga e sopratutto protegga i bravi pastori che, nonostante tutto fortunatamente, ci sono ancora e SS Benedetto XVI.

  • Iginio ha detto:

    Osservazioni condivisibili, anche se mi pare che De Mattei non volesse separare il Concilio in senso stretto teologico-canonico dal contesto socioculturale, anzi interpreti il primo alla luce del secondo.
    L’autore qui ha ragione laddove evidenzia che alcune disposizioni conciliari di fatto non ebbero seguito e furono anzi stravolte. La cosa formalmente avvenne per disposizioni papali (messa col nuovo rito, p. es.) ma di fatto tali disposizioni avvennero perché reclamate da chi pretendeva di agire in nome del Concilio.
    Opportuno dunque mettere in risalto il grumo di contraddizioni. E soprattutto farla finita col Mito del Concilio.
    Non trovo pertinente considerare l’analisi delle discussioni parte integrale dei documenti conciliari: quello che conta, ai fini dell’assenso, è il testo finale del documento conciliare, non come ci si è arrivati.
    Il come ci si è arrivati interessa ai fini della ricostruzione storica. Un dibattito, una proposta, uno schema non possono pretendere ossequio dei fedeli.
    Forse qualcuno ragiona in analogia con coloro i quali ritengono che, per capire il senso degli articoli della Costituzione italiana, occorra rifarsi ai dibattiti nell’Assemblea Costituente. Non sono d’accordo. A mio modesto parere occorre essere fedeli al testo letterale, riducendo al minimo le interpretazioni. In America fanno così. Da noi no, perché comandano i sedicenti progressisti i quali pretendono che tutto cambi (e poi tutto rimarrà lo stesso) e che quindi conti solo l’interpretazione. Lo stesso giochetto che si tenta di fare con le Sacre Scritture.

  • alessio ha detto:

    mi pare che questo contributo serva
    solo a raffreddare gli animi.
    In questo giorno suona grottesco ,
    adesso i laici possono celebrare
    i matrimoni magari su una panchina
    arcobaleno , guardi che i
    documenti conciliari li abbiamo
    letti tutti , dobbiamo leggere tutto
    il resto ?
    E le polemiche alla Dominus iesus
    che io scrivo con la i per non
    confonderla col nome pagano
    romano di Jesi , perché
    Giovanni Paolo II fece scrivere
    che Gesù Cristo è unico
    Salvatore del genere umano.
    La Messa di San Pio V fu
    dichiarata incancellabile dallo
    stesso , come a Firenze durante
    il Savonarola , dal confalone
    del comune fu dochiarato
    Gesù Cristo Unico Re di
    Firenze e inciso se volete
    vedere tra i due leoni sulla
    facciata di Palazzo Vecchio.
    Ma a me non basta la Messa
    antica , non voglio preti
    modernisti e soprattutto non
    voglio
    la catena del concilio a
    strangolare ogni spirito
    libero .
    Adesso che diano pure
    le chiavi delle parrocchie
    ai musulmani , tanto ho
    già capito che vogliono
    fare una tragedia.
    Da domenica sappiamo
    che i diserbanti avvelenano
    l’erba; ecco perché vogliono
    fare l’asilo obbligatorio .

  • Gianfranco ha detto:

    Parole, parole, parole…
    Cavilli, cavilli, cavilli.
    In quantità industriale.