Qui Videt Me, Videt Eum, Qui Misit Me. Un testo di Gian Pietro Caliari.

3 Giugno 2023 Pubblicato da 1 Commento

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il prof. Gian Pietro Caliari offre alla vostra attenzione queste riflessioni pronunciate il 2 giugno scorso. Buona lettura e condivisione.

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Incontro dei ragazzi e delle famiglie “Fides et Ratio”

Brescia – 2 Giugno 2023

Salmo 27 – Giovanni 12, 35-50

Qui videt me, videt eum, qui misit me

  

Care Mamme e cari Papà,

Carissimi amici, socii et comites,

“Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. […] Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Confessiones, I, 1, 1-3). 

Così Sant’Agostino d’Ippona inizia le sue Confessiones – Confessioni – la sua opera più celebre, che è una straordinaria autobiografia umana, spirituale e intellettuale , scritta a lode di Dio. 

Le Confessioni del Doctor Gratiae – come è chiamato Agostino –  con la loro attenzione all’interiorità e alla psicologia umana, costituiscono un modello unico nella letteratura mondiale, anche non religiosa, fino ai nostri giorni e permangono una lettura di straordinaria contemporaneità. 

Questa attenzione alla vita spirituale, al mistero dell’io, e al mistero di Dio che si nasconde nell’io, è una cosa straordinaria, senza precedenti, e rimane per sempre un vertice, non solo letterario, ma soprattutto, intellettuale e spirituale.

Agostino, nato a Tagaste nel 354 d.C. – allora città berbero-romana – l’attuale cittadina algerina di Souk Ahras – percorse tutti i gradi di quella che era, ai suoi tempi, la carriera accademica retorica e filosofica, fino a giungere – grazie alla raccomandazione di un pagano e acerrimo nemico dei cristiani, il prefetto di Roma Simmaco – a ricoprire un ruolo prestigioso alla corte imperiale romana, che allora risiedeva a Milano.

Proprio là, Agostino prese l’abitudine di andare ad ascoltare – inizialmente solo allo scopo di arricchire il suo bagaglio retorico – le bellissime omelie del Vescovo Ambrogio, che era stato prefetto imperiale per l’Italia settentrionale. 

Dalle parole del grande Santo e Vescovo milanese, il retore africano rimase affascinato, e non soltanto dalla sua retorica ma soprattutto dai contenuti, che – giorno dopo giorno – toccarono sempre più l’animo e il cuore di quel giovane africano dalla brillante carriera pubblica, ma dalla vita privata mondana e dissoluta.

Nelle parole di Ambrogio, Agostino trovò la chiave per capire la bellezza, la profondità e la grandezza, pure filosofica, dell’Antico Testamento e capì tutta l’unità del mistero di Cristo nella storia, trovando così anche la sintesi fra Fides et Ratio; fra la Ragione e la Fede nel Logos: in Cristo, il Logos, il Verbo eterno che si è fatto carne.

 

Così, a trentadue anni, la tormentata ricerca del Logos,  del senso proprio e ultimo di ogni cosa, ebbe per Agostino il suo approdo il 24 aprile del 387 d.C., quando durante la Veglia Pasquale, nella Cattedrale di Milano, ricevette da Ambrogio il sacramento del Battesimo.

Sì! “Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te” (Confessione, I, 1, 3). Sì! “Ci hai fatti per Te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.

In quella notte pasquale sì compì per Agostino l’ardente anelito del Salmista, che abbiamo insieme ricordato, nel Salmo 27: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza”. 

A questa tappa fondamentale di quello che sarà poi il suo lungo cammino di filosofo, di teologo, di Vescovo e di Padre della Chiesa, il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’Uomo e per la Verità; passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. 

La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano e absconditus, in realtà, in Gesù di Nazareth non lo era più. 

Dio, infatti, in Gesù si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. 

In questo senso, la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca intellettuale di Agostino sul cammino della Verità. 

 

Solo un Dio fattosi “toccabile”, uno di noi, infatti, era finalmente un Dio che si poteva pregare e adorare; per il quale e con il quale si poteva vivere, e che rivelava, infine, a noi la Verità e ci faceva comprendere la piena Verità su noi stessi e di noi stessi!

Così, infatti, scrive il grande Padre della Chiesa latina in un’altra delle sue opere: “Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur”. 

“Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione” (De vera religione XXXIX, 72).
 

Da quella vigilia pasquale del 387 d.C,. iniziò per Agostino un cammino nella fede umile e santa di quella “compagnia” che egli chiama semplicemente la Catholica, vale a dire la Chiesa.

Una “compagnia Catholica” che per il Doctor Gratiae non è una semplice Istituzione semper reformanda – da sempre riformare – ma è al contrario una “compagnia” semper convertenda: un popolo di battezzati che – giorno dopo giorno – sempre più si deve convertire al solo unico e grande Pastore e Maestro, Gesù il Cristo, che solo è la Via, che solo è la Verità, e che solo è la Vita e la Vita vera!

Carissimi amici, 

abbiamo ascoltato la parte conclusiva del capitolo dodicesimo del Santo Vangelo dell’Apostolo Giovanni.

Questo capitolo conclude la predicazione pubblica di Gesù fra gli ebrei del suo tempo. 

I capitoli che seguono, infatti, sono dedicati dal 13.mo al 16.mo al lungo insegnamento che Gesù, alla vigilia della sua Passione, riserva esclusivamente ai Dodici Discepoli, ormai ridotti a undici dopo che in Giuda “il figlio della perdizione” (Giovanni 17, 12) era già entrato Satana e Giuda era uscito nella notte per portare a termine il suo tradimento (cfr. Giovanni 13, 27 e 30). 

Il capitolo 17.mo riporta, invece, la lunga preghiera sacerdotale che Gesù eleva al Padre non solo per gli undici Discepoli rimasti, ma anche “per coloro che crederanno in lui mediante la loro parola” (Giovanni 17, 20).

I capitoli 18.mo e 19.mo riferiscono dell’arresto di Gesù, del suo processo davanti al Sinedrio prima e davanti a Pilato poi, della sua crocifissione e della sua morte in Croce.

Il 20.mo e il 21.mo capitolo, infine, riferiscono l’evento della Resurrezione e le apparizioni del Risorto a Maria Maddalena, ai Discepoli riunitisi al chiuso “per paura dei Giudei” (Giovanni 20, 19) – la sera stessa della Pasqua e otto giorni dopo – e, infine, l’apparizione a sette Discepoli, intenti alla pesca sul “mare di Tiberiade” (Giovanni 21, 1).

Già questa collocazione narrativa, ci fa comprendere l’importanza che l’Evangelista Giovanni conferisce a quest’ultimo  e incisivo discorso pubblico di Gesù.

Ci sono, tuttavia, alcuni altri elementi, che è opportuno tenere presenti, per cogliere l’importanza di questo brano evangelico.

Il discorso di Gesù è, innanzi tutto collocato nel terzo e ultimo viaggio, che egli compie dalla Galilea alla capitale della Giudea, Gerusalemme, sempre in occasione della Pasqua ebraica..

Nessuno di questi tre ingressi nella Città Santa – che segnano l’inizio e la conclusione di ognuno dei tre anni della pubblica predicazione di Gesù ai giudei – passò, in verità, inosservato.

Nel primo, Gesù “fattasi una frusta di funicelle, scacciò tutti dal Tempio, anche le pecore e i buoi, disseminò il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi” (Giovanni 2, 15), rivendicando per Dio quel luogo di culto contro coloro che “avevano fatto della casa del Padre una casa di mercato” (Giovanni 2, 16).

In quell’occasione, poi, rispondendo ai giudei aveva annunciato il grande evento della sua futura Resurrezione: “Distruggete questo santuario – disse, riferendosi a se stesso – e in tre giorni lo farò risorgere” (Giovanni 2, 19).

Ma anche se molti credettero in lui, a causa di quel gesto eclatante e per l’annuncio ancor più stupefacente, Gesù – annota l’Evangelista – “diffidava di loro perché conosceva tutti e non aveva bisogno che altri testimoniassero sull’uomo: egli infatti sapeva ciò che vi era nell’uomo” (Giovanni 2, 24-25).

Nel secondo viaggio dalla Galilea a Gerusalemme, sempre in occasione della Pasqua ebraica, Gesù compie un segno ancor più eclatante di quello compiuto nella precedente visita alla Città Santa.  

Riceve da “un ragazzetto cinque pani d’orzo e due pesci” (Giovanni 6, 9) e con questi sfama una folla di “all’incirca cinquemila uomini”, senza contare donne e bambini, e da quella moltiplicazione si raccolgono avanzi per “dodici canestri” (Giovanni 6, 13).

In questa espressione “dodici canestri”, nel testo originale greco δώδεκα κοφίνους non è tanto importante la parola κοφίνος, che significa cesta o canestro o contenitore – da cui viene il termine italiano cofano – ma il numero δώδεκα vale a dire dodici: insomma si raccolsero così tanti avanzi da poter sfamare l’intero popolo giudaico, vale a dire le sue dodici tribù.

Anche questo segno della moltiplicazione dei pani e dei pesci, col quale Gesù annuncia di essere lui stesso “il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Giovanni 6, 51), non viene, tuttavia, compreso dai giudei. 

L’Evangelista annota, infatti, che “da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Giovanni 6, 66).

Eccoci allora, al terzo e ultimo ingresso di Gesù a Gerusalemme dove è accolto da una grande folla al grido di “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Giovanni 12, 12). 

L’estemporaneo entusiasmo della folla, tuttavia, annota ancora l’Evangelista e i segni compiuti da Gesù – inclusa la resurrezione di Lazzaro che viene ricordata all’inizio di questo dodicesimo capitolo – non sono in grado di spingere i giudei a una vera adesione al Cristo di Dio e a credere in lui.

Cade così nel vuoto, ancora una volta, l’accorato appello di Gesù: “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce” (Giovanni 12, 35-36).  

E l’Evangelista è costretto, di nuovo, ad annotare che: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Giovanni 12, 37).

Giovanni – come abbiamo ascoltato – distingue coloro che “non credevano in lui” in due precise categorie.

La prima – citando il profeta Isaia – è composta da coloro che hanno accecati gli occhi, incallito il cuore “affinché con gli occhi non vedano e col cuore non comprendano e così non si convertano, e io li guarisca” (Giovanni 12, 40).

Sono coloro che vivono in uno stato di chiusura persistente  e assoluta, che impedisce anche a Dio stesso di operare. 

Dio, infatti, non opera in modo discrezionale per quanto riguarda la salvezza: non salva secondo la logica del Fato o del Destino, ma secondo quella del Giudizio! 

La Salvezza di Dio non può raggiungere, non può guarire l’uomo, che non concede a Dio lo spazio per poterlo fare. 

Potremmo dire che non dipende dall’energia elettrica accendere alcune lampadine e altre invece no, ma dalle lampadine  stesse che sono o bruciate o non collegate con l’elettricità. 

Il rimandare a Dio l’indurimento del cuore e la cecità della mente, così da non poter accedere alla salvezza operata da Gesù, lascia intendere come sull’incredulo sia stato posto una sorta di giudizio divino, che non gli concede più nessuna speranza, a causa della sua stessa incredulità. 

È questa che lo giudicherà e determinerà il suo eterno destino!

La seconda categoria di persone assimilati agli increduli e quella composta da coloro che, pur credendo, non hanno avuto il coraggio della testimonianza, e questa loro manchevolezza è tale da vanificare il loro stesso credere.

 

Fecero, infatti, questa scelta “per non venire espulsi dalla Sinagoga” (Giovanni 12, 42).

Giovanni e gli altri tre Evangelisti citano alcuni di questi “molti che credettero” in Gesù, ma non lo dichiaravano: Nicodemo, un capo dei Giudei (Giovanni 3, 1); Giuseppe di Arimatea, un membro autorevole del Sinedrio (Marco 15, 43); un notabile di cui ci parla Luca (Luca 18, 18); uno scriba pronto a seguire Gesù citato da Matteo (Matteo 8, 19) o quello di Marco, che elogia Gesù per la risposta datagli e che Gesù dichiara non lontano dal Regno di Dio (Marco 12, 38-34); e così similmente Giairo, uno dei capi della sinagoga, che si sente sollecitare da Gesù a continuare a credere (Marco 5, 22.36); anche tra i sacerdoti giudei – come ci ricordano gli Atti degli Apostoli – vi furono numerose adesioni a Gesù (Atti 6, 7b), ma vissute nel segreto e senza la possibilità di diventare testimonianza di Fede. 

Proprio per la loro posizione di rilevanza sociale e religiosa, il professare apertamente Gesù costituiva per loro una reale minaccia, dovuto a due cause concomitanti.

La prima era di ordine pubblico: la minaccia di essere espulsi dalla sinagoga, una pena che veniva inflitta, infatti, ai minim, cioè agli apostati e agli eretici e che equivaleva di fatto ad una morte civile. 

La seconda era, invece, di ordine personale e così la descrive l’Evangelista la descrive, nel testo originale greco, del Vangelo che abbiamo ascoltato: ἠγάπησαν γὰρ τὴν δόξαν τῶν ἀνθρώπων μᾶλλον ἤπερ τὴν δόξαν τοῦ θεοῦ, amarono infatti la gloria degli uomini più che gloria di Dio (Giovanni 12, 43).

Sì! La gloria e la reputazione umana sono stati anteposti, preferiti e amati rispetto alla gloria di Dio!

L’Evangelista Giovanni non può che prendere atto – e per la terza volta – che la predicazione pubblica di Gesù presso i giudei è fallita!

Lo stesso Gesù ne è profondamente cosciente. Infatti, è  Gesù – a questo punto – a prendere direttamente la parola, anzi come dice il testo greco originale Ἰησοῦς δὲ ἔκραξεν καὶ εἶπεν: Gesù, dunque, gridò e disse. 

Il verbo κράζω, che significa gridare, ricorre nel Vangelo di Giovanni tre volte (cfr. Giovanni 7, 28; 7, 37 e 12, 44) e in tutte e tre queste volte il verbo sembra dare l’impressione di un masso che cade o di un tuono improvviso, che precede e annuncia le parole con cui Gesù svela ai suoi interlocutori la sua perfetta identità con Dio Padre.

Come nel brano che abbiamo ascoltato: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato. […] io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento é vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me” (Giovanni 12, 44; 49-50).

In queste ultime parole pubbliche di Gesù, prima di affrontare la Passione e la Morte in Croce, è sintetizzata insieme l’identità di Gesù e il senso ultimo e vero della sua missione fra gli uomini!

Sì, infatti, potremmo chiederci anche noi, oggi che senso ha avuto più di due mila anni fa l’incarnazione del Figlio di Dio fra di noi, la sua predicazione, gli insegnamenti, e i prodigi compiuti  fra il popolo d’Israele per tre anni. E, infine, che senso ultimo dare alla sua Passione, Morte e Resurrezione. 

 

Carissimi amici,

chiediamoci: Gesù è forse venuto nel mondo per portarvi la pace e la concordia? è vissuto fra gli uomini per costruire un mondo più giusto? Ha operato prodigi per sconfiggere l’iniqua distribuzione delle risorse fra gli uomini? Ha, forse, convinto le folle che era un grande e carismatico leader, magari anche dotato di poteri speciali?  Gesù è stato il “grande rivoluzionario” che ha cambiato il corso della Storia? è stato Gesù l’antesignano di ogni movimento che si ispiri agli slogan “peace and love” o, addirittura, “love is love”? O, forse, anche da ultimo il precorritore di un ecologismo radicale ante-litteram? 

Scorrendo i molti discorsi e le troppe parole, spesso insignificanti, pronunciate anche da molti esponenti della gerarchia Cattolica – e non certo i meno rappresentativi – anche ai nostri giorni risuona attualissima l’amara constatazione che l’allora cardinale Joseph Ratzinger fece quasi vent’anni fa.

“Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde e gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. 

Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice san Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore. 

Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni” (Omelia, Missa pro eligendo Pontifice, 19 aprile 2005).

Qualche anno dopo, nel suo libro “Gesù di Nazaret”, Benedetto XVI ha formulato una domanda che sorprende nella sua essenziale semplicità, e che ogni battezzato, ma anche ogni uomo dabbene, dovrebbe porsi in modo radicale: “Ma che cosa ci ha portato Gesù veramente?” 

Papa Benedetto ha così risposto “La risposta è semplice: Dio. Ha portato Dio. Quel Dio il cui volto si era prima manifestato a poco a poco da Abramo fino alla letteratura sapienziale, passando per Mosè e i profeti […] questo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il vero Dio Egli ha portato ai popoli della terra.

 

Ha portato Dio: ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo.

Gesù ha portato Dio e con lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza. […] Solo la nostra durezza di cuore ci fa ritenere che ciò sia poco” (Gesù di Nazareth, Dal Battesimo alla Trasfigurazione, Milano, 2007, p. 67).

Sì! In qualunque modo la si pensi, anche oggi e soprattutto ai nostri giorni,  la questione di Dio è per l’uomo centrale e decisiva!

Sì! Perché per quest’unica ragione Gesù è venuto tra noi: mostrarci il volto di Dio. Sì! Chi vede me, vede Dio!

Lo è per almeno cinque motivi.

Innanzi tutto, perché la fine di questo nostro Tempo, la fine di questa nostra Storia e la fine di questo nostro Mondo sembra segnata, accompagnata, ma anche profondamente provocata, in grande misura, dalla “Crisi di Dio”.

“Il vero problema, infatti, del nostro tempo è la Crisi di Dio, l’assenza di Dio, camuffata da una religiosità vuota. […] L’unum necessarium per l’uomo è Dio. Tutto cambia, se Dio c’è o se Dio non c’è. Purtroppo – anche noi cristiani viviamo spesso come se Dio non esistesse. Viviamo secondo lo slogan:  Dio non c’è, e se c’è, non c’entra” (Joseph Ratzinger, Intervento al Convegno catechisti e docenti di religione, 10 dicembre 2000).

 

Parlare di Dio anche nel nostro tempo, al contrario, significa annunciare l’unico Dio vero! E, dunque, ancorare la nostra vita alla Verità!

Parlare di Dio significare annunciare il Dio Creatore da cui veniamo e da cui tutto trae la sua origine! E, dunque, ancorare la nostra vita e quella di ogni vivente alla sua suprema dignità, alla dignità di Dio stesso!

 

Parlare di Dio significa annunciare il Dio Santificatore che con la sua grazia accompagna il nostro cammino terreno e prepara quello futuro ed eterno. E, dunque, ancorare la nostra vita alla sua suprema sacralità, alla sacralità stessa di Dio!

Parlare di Dio significa, infine, annunciare il Dio Giudice verso cui noi tutti andiamo. E, dunque, ancorare la nostra vita a quella necessaria e Somma Bontà, che è la Bontà stessa di Dio, e a quella inscindibile Somma Giustizia, che è la Giustizia stessa di Dio!

In secondo luogo, la “Crisi di Dio”, che dilaga nella cultura post-moderna, genera una profonda “crisi dell’uomo”, perché il rapporto dell’uomo con Dio è determinante per il suo rapporto con se stesso e con il mondo. 

Escludendo Dio dalla propria vita, l’uomo rimane per se stesso un enigma indecifrabile. 

Viviamo in un tempo, così, in cui gli stessi criteri dell’essere uomo sono diventati incerti. 

Solo chi conosce Dio, può in realtà conoscere l’uomo. 

Senza la conoscenza di Dio, l’uomo diventa manipolabile. Senza Dio, la vita umana è reificava e ridotta a una pura merce intercambiabile, nel migliore dei casi, o a utile carne da cannone per gli altrui interessi, nel peggiore dei casi. 

 

“Senza Dio, infatti, l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia . 

L’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. L’umanesimo che esclude Dio è, infatti, un umanesimo disumano” (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n. 78).

 

In terzo luogo, perché “Dove scompare Dio, l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato, nel nostro tempo, i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l’uomo dipendente da idoli, da idolatrie; e lo schiavizzano” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 16 giugno 2011).

E ancora, “l’uomo, separato da Dio, è ridotto a una sola dimensione, quella orizzontale, e proprio questo riduzionismo è una delle cause fondamentali dei totalitarismi che hanno avuto conseguenze tragiche nel secolo scorso, come pure della crisi di valori che vediamo nella realtà attuale.

Oscurando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e ad una concezione ambigua della libertà, che invece di essere liberante finisce per legare l’uomo a degli idoli. […] 

 

Se Dio perde la centralità, l’uomo perde il suo posto giusto, non trova più la sua collocazione nel creato, nelle relazioni con gli altri. Non è tramontato ciò che la saggezza antica evoca con il mito di Prometeo: l’uomo pensa di poter diventare egli stesso “dio”, padrone della vita e della morte” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 14 novembre 2011).

Un quarto motivo, ancora. La scelta di Dio da parte dell’uomo non ha, dunque, niente a che fare con una fuga verso l’intimismo, l’individualismo religioso, l’abbandono della realtà e dei suoi grandi e urgenti problemi economici, sociali e politici. 

 

 

Al contrario: “Chi esclude Dio dal suo orizzonte falsifica il concetto della “realtà” e, in conseguenza, può finire solo in strade sbagliate e con ricette distruttive. Solo chi conosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano” (Benedetto XVI, Discorso inaugurale, Aparecida, 13 maggio 2007). 

“I conti sull’uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto il vasto universo, senza di Lui non tornano” (Benedetto XVI, Omelia, Regensburg, 14 settembre 2006).

Le scellerate scelte di alcune classi politiche che si sono erte a nuovi Prometei globali, avendo perso l’orizzonte di Dio hanno anche fatalmente perso l’orizzonte della realtà e della logica. 

 

Per questo ergono come verità, la menzogna; per questo propagandano la libertà, pianificando e imponendo il più spietato controllo sociale. 

Per questo si fanno paladini del progresso e del benessere, imponendo ai popoli – in realtà – il regresso morale, sociale, culturale ed economico, e sviluppando politiche folli e utopiche, che fanno dilagare disagio e povertà. 

Per questo infine – sconnessi totalmente dalla realtà – pensano con le loro scelte di poter condizionare e persino cambiare le leggi naturali del creato e giungono alla follia logica di chiamare “fondo europeo per la pace” – European Peace Facility – un piano finanziario da 5.692 miliardi di euro per l’acquisto di armi.

Il quinto motivo, infine, l’esclusione di Dio dalla vita pubblica rende l’intolleranza il nuovo paradigma sociale e mina le basi stesse del Diritto e, dunque, d’ogni possibile convivenza civile.

“Si sta diffondendo” – faceva sempre notare Benedetto XVI –  “un’intolleranza di tipo nuovo. Esistono dei parametri di pensiero ben rodati che devono essere imposti a tutti. Questi poi vengono promossi in nome della cosiddetta tolleranza negativa. Come, ad esempio, quando si dice che in virtù della tolleranza negativa non devono esserci crocifissi negli edifici pubblici. 

In fondo così sperimentiamo l’eliminazione della tolleranza, perché in realtà questo significa che la religione, che la fede cristiana non possono più esprimersi in modo visibile […] La vera minaccia di fronte alla quale ci troviamo è che la tolleranza venga abolita in nome della tolleranza stessa” (Benedetto XVI, Omelia, Regensburg, 14 settembre 2006).

E, ormai, l’intolleranza contro Dio e contro il Dio di Gesù Cristo ha raggiunto livelli parossistici e persino paranoici!

Consentitemi di ricordare – a questo proposito – un eloquente episodio accaduto poche settimane fa in una scuola “cattolica” di Bergamo, e riportato proprio ieri sull’Eco di Bergamo e anche sulla stampa nazionale.

L’anno scorso una famiglia islamica che ha messo radici nella bergamasca ha deciso di iscrivere il figlio in una scuola privata cattolica. Nonostante i sacrifici economici, la famiglia era stata convinta dal programma di studio e dalla bontà dei contenuti educativi.

Tutto bene fino al saggio di Pasqua, quando l’istituto ha deciso di trasformare una recita su Gesù in un più ecumenico spettacolo di canti, musiche e poesie “all’insegna dei più universali valori di pace, solidarietà fratellanza” e con la motivazione di non urtare la suscettibilità degli alunni di altre confessioni e religioni 

Trascorse le vacanze pasquali, il figlio della coppia musulmana non torna più in classe. Dopo alcuni giorni di assenza, il dirigente della scuola “cattolica” decide di chiamare i genitori per chiedere il motivo delle assenze e si sente rispondere: “Lo abbiamo iscritto altrove”. 

Allora, ipotizzando che la causa fosse la retta, si rende disponibile a venire incontro economicamente alla famiglia e convoca il padre per il giorno seguente. 

Il mattino dopo il padre del bambino si presenta da lui e gli spiega la ragione della decisione: “Avevamo scelto la vostra scuola perché aveva una chiara impostazione religiosa, ma il teatro di Pasqua ci ha fatto capire che avete così poco rispetto del vostro Dio da censurarlo. Ci siamo resi conto di non poterci più fidare di voi. Ecco perché abbiamo deciso di cambiare scuola a nostro figlio” 

Nell’assenza di Dio, poi, anche il Diritto – come suprema garanzia della concordia civium – diventa il puro e semplice arbitrio del potente di turno e l’arrogante sopraffazione dei più, non per numero, ma per potere o possibilità.

Lo argomentava davanti al Bundestag, il Parlamento Federale tedesco, nel 2011, ancora una volta Papa Benedetto: “Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. 

Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio” (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento Federale Tedesco, 22 settembre 2011).

E, concludeva, “Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire.

Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza” (Ibidem).

Care Mamme e cari Papà,

Carissimi amici, socii et comites, 

Qui videt me, videt eum, qui misit me! Chi vede me, vede colui che mi ha mandato!

Nel volto di Cristo splende, infatti, la gloria del Dio, Vivente e Vero, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe!

Anche sul volto di quella “compagnia” semper convertenda, che Agostino chiamava semplicemente la Catholica dovrebbe sempre e solo splendere la luce del volto di Cristo, per illuminare con questa luce tutti gli uomini, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, 1).

Nei prossimi mesi – ahimè! – assisteremo a strane convocazioni di ancor più strani consessi, sull’altra sponda romana del Tevere, che con il linguaggio tipico, che l’Evangelista Giovanni usa nell’Apocalisse, potremmo ben definire “una sinagoga” (cfr. Apocalisse 2, 9 e 3, 9). 

Questi sedicenti incontri ecclesiali, privi ormai come sono di alcun fondamento teologico e canonico, e sopratutto le inevitabili dichiarazioni pubbliche che saranno generosamente offerte alla propaganda mediatica dai partecipanti più facinorosi, getteranno – senza dubbio – altre oscure ombre su quella luce del volto di Cristo che dovrebbe sempre risplendere su quella Catholica, così tanto amata da Agostino d’Ippona e così tanto degnamente da lui servita.

Ne saremo senza dubbio infastiditi, perché già i tragici tempi che la Chiesa di Cristo sta vivendo si volgeranno in farsa, e in farsa grottesca!

Non lasciamoci, tuttavia, né scoraggiare né tanto meno impressionare. 

Come Agostino d’Ippona non si lasciò né scoraggiare né tanto meno impressionare, quando  nei primi mesi del 430 d.C. – mentre le orde dei Vandali assediavano la sua Ippona, redasse l’ultima delle sue numerosissime opere teologiche e filosofiche, le Retractationes (Ritrattazioni).

In quest’ultima opera della sua lunga vita, l’immenso Agostino  – facendo quasi l’ultima sintesi della sua umana vicenda, – scrive: “Non mi resta, dunque, che autogiudicarmi alla presenza dell’unico Maestro· al cui giudizio sui miei errori vorrei tanto sottrarmi. […] Quando però il discorso di tutti è lo stesso, sono nella verità, e non si discostano dall’insegnamento dell’unico vero Maestro. 

 

Non sbagliano quando espongono molti dei suoi insegnamenti, ma sbagliano quando ne aggiungono di propri. In questo modo cadono dalla loquacità nella menzogna” (Retractationes, Prologus 2, 6-8). 

E, aggiunge, “Ho compreso che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli Apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Ibidem I, 19, 1-3).

Ci accompagni, ci sostenga e ci illumini in questo mese di giugno, dedicato al Sacratissimo Cuore di Gesù, quella luce splendente di Dio che promana da un Cuore, quello Sacratissimo di Gesù stesso, “abitazione di Dio fra noi e porta del cielo, fornace ardente di carità, sorgente di vita e di santità, nostra vita e resurrezione, nostra pace e riconciliazione” (Litaniae Sacratissimi Cordis Jesu).

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