Benedetta De Vito, l’Ultima Cena di Leonardo e le Prepotenze dello Stato.

8 Dicembre 2022 Pubblicato da 1 Commento

 

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, la nostra Benedetta De Vito è stata qualche giorno in trasferta in quella che una volta da qualcuno veniva definita la “Capitale morale” del Paese, all’ombra delle guglie del Duomo e della Madonnina. E ci offre questa primizia, di un libro che sta scrivendo. Grazie, e Buona lettura.

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Il refettorio dei padri predicatori dove, per volontà del Moro, Leonardo da Vinci dipinse tra il 1494 e il 1498 l’ultima cena non è più dei domenicani. E’ dello Stato italiano dagli anni Trenta. Perché? Fu una ingiustizia bella e buona, perpetrata durante il Patti Lateranensi. Era il 1939 e si creò un vero braccio di ferro. Il primo ambasciatore italiano presso la Santa Sede, il conte Cesare de Vecchi, voleva restituirlo, come giusto, ai figli di San Domenico, dopo che gli Asburgo, nell’Ottocento, lo avevano requisito ingiustamente. Certo: andava ridato ai padri domenicani. Non all’Italia, era stato donato dal Moro!

S’oppose Ettore Modigliani, direttore del museo di Brera, e, con la forza, l’ebbe vinta ma lui scrisse che prepotenti erano i domenicani… Vabbè, mi dico, affidiamo alla storia il giudizio finale e teniamoci stretti i nostri. Per me, il cenacolo era dei padri domenicani, sfilarglielo un furto, con buonapace del sovrintendente Modigliani che era di parere opposto.

E il perché è evidente. Il tavolo dell’ultima cena, con i suoi pani, i bicchieri, i piatti, la semplice tovaglia bianca, è tale e quale a quello sul quale mangiavano, pregando, i dolci frati predicatori.

Ed era questo il senso profondo del cenacolo: mangiare con gli apostoli, spezzare il pane e bere il vino in compagnia dolce del sole della Salvezza: il Salvatore.

E avere davanti al naso, anche mangiando, il supremo sacrificio della Croce nell’affresco del Montorfano. Ora, ma questo mio pensiero è  scaturito ben dopo la visita che dura poco e che mi ha messa davanti a  un capolavoro solitario, mesto quasi, in un freddo museo che, come mi si presenta, è un grande camerone spoglio e in  malinconica penombra. Ma presto riavvolgiamo il nastro e cominciamo dal principio.

Aspetto, con altri, nell’anti stanza, tra due porte vetrate, in attesa che s’aprano quelle dell’ex refettorio. Tutto intorno è asettico, monitorato, l’occhio delle telecamere è di spia, e quasi mi sento in un triage al pronto soccorso di un ospedale. Mi fermo rigida, impalata e non mi viene neppure voglia di far due chiacchiere con il prossimo, che mi sta attorno un poco spaurito lui anche, né sento dentro montar la gioia perché a breve potrò veder con i miei occhi un capolavoro del quale così tanto ho sentito parlare. Ecco sì, è come  stare in un film di fantascienza, in cui gli uomini han smesso di mangiar pane e carne e si nutrono di pillole. Mi pare quasi che me n’abbiano data una color rosso cupo anche a me prima d’entrare o forse era una caramella…

I minuti passano e le porte restano chiuse e noi nel limbo. Ho buon tempo per continuare a fare il girotondo con i miei pensieri. Parlo a voce bassa, in discorso diretto: “Come doveva esser bello vederla viva la camera da pranzo dei domenicani, nell’uso suo, con le dolci lane bianche a spazzolar d’intorno, l’odore di minestrone d’erbe bollite, di pane di forno e di vin santo.

Di certo all’ora del desinare cinguettava una campanella e i frati tutti correndo perché la tavola è un dono del Signore anche per loro, correvano silenziosi ai loro posti, e prima la preghiera e poi il cibo. Chiudo gli occhi e li riapro. Lo sguardo si perde nel giardino interno che si chiama il chiostro dei morti. S’erge, in prospettiva elegante come fosse una fetta di torta, la basilica bramantesca, dai colori autunnali e par che tocchi il cielo nella piccola croce che saluta le nuvole in punta di piedi sulla sommità della lanterna.

In alto si solleva lo sguardo e poi giù di nuovo. E mi sovviene che nel Convento di San Marco a Firenze, pur esso domenicano, il Comune del Giglio si è ritagliato per sé la parte più bella, cioè quella affrescata dal Beato Angelico, anche lì fatto museo, che pure non ho mai visitato. I padri predicatori non sono più padroni a casa loro e ora hanno anche chiuso i battenti con gran dispiacere dei fiorentini, perché San Marco  e Firenze sono sempre andati per mano: a San Marco predicò il Savonarola e visse un sindaco amatissimo e credente chiamato Giorgio La Pira…

Mi duole, sì, mi duole  toccar con mano le ingiustizie che lo Stato ha fatto subire alla Chiesa! Anche a Roma, a San Francesco a Ripa, dai francescani, stessa solfa. M’affacciai una mattina dal convento dove visse il poverello su un giardino tenuto come lo terrebbe Giamburrasca, e il frate scotendo il capo: “Non è più nostro, lo era ed era bellino, ora è dello Stato e nessuno lo cura”. Sospira, sospiro. Gli occhi al cielo. Pazienza. Non so, non credo sia stato giusto far man bassa delle cose della chiesa… E poi, come un’ondata, ancora un altro pensiero e sempre domenicano. Perché anche Santa Maria sopra Minerva, la chiesa del transito di Santa Caterina, che guarda d’un lato il Pantheon, ha perduto il suo convento, che è ora dello Stato. Anche lì, nel chiostro, restano i segni della barbarie dei francesi, come alle Grazie…

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1 commento

  • Non Metuens Verbum ha detto:

    Gli espropri italiani e altrove dei beni della Chiesa sono sempre stati espropri contro il culto divino, contro la carità, contro i poveri, e contro la bellezza e l’arte.
    Per risarcimento lo Stato italiano dètte la legge delle guarentige, e poi la congrua ai parroci, e poi l’8 per 1000 (per inciso, ecco perché allargare l’8 per 1000 ad altre religioni ed altri scopi è una grave ingiustizia oltre che un errore storico).
    Bene, ma oggi come oggi, i preti della CEIP (P=patriottica), che non conoscono né il culto divino, né la carità né la bellezza, il contributo finanziario multimilionario lo adoperano per tutte le fisime più alla moda , e quasi ci costringono a non firmare più per loro.

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