Caliari: Neanche il Gloria si Salva dal Religiously Correct della CEI.

4 Dicembre 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Cari Stilumcuriali, Gian Pietro Caliari ha rivolto la sua attenzione alla versione rivista – ahimè – del Gloria, e ci ha offerto questo piccolo saggio, di cui lo ringraziamo veramente di cuore. Buona lettura.

§§§

Vide, o homo, quid pro te factus est Deus:

doctrinam tantae humilitatis agnosce.

di Gian Pietro Caliari

In un Natale di molti secoli fa, il Vescovo d’Ippona, Sant’Agostino così esortava i suoi fedeli, ma non solo: “Vide, o homo, quid pro te factus est Deus: doctrinam tantae humilitatis agnosce”.

 Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere linsegnamento di tanta umiltà” (Sermo 188, In Natali Domini, III, 3).

E si chiedeva ancora: “Quali lodi potremo dunque cantare allamore di Dio, quali grazie potremo rendere? (Ibidem, I, 2).

 Non c’è alcun dubbio che ogni volta che, nelle liturgie cattoliche, risuona il Gloria in excelsis Deo non sia evocato il Mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, dove la Maestà Divina si svela nell’Agnello immolato che “è degno di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Apocalisse 4, 11).

Il suo incipit, infatti, riproduce lo stesso annuncio angelico che risuonò alla nascita di Gesù Cristo quando una schiera angelica lo proferì a un gruppo di pastori “presi da grande spavento” per quello che stavano vedendo ed era stato loro appena annunciato: “E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis(Luca 2, 13-14).

 Il Gloria in excelsis Deo, proprio per questo, è noto anche come Laus Angelorum(Lode degli Angeli) o Grande Dossologia, che esprime con precisa potenza teologica e letteraria ciò che i Padri Conciliari al Vaticano II intendevano dover essere la liturgia cattolica: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria” (Sacrosantum Concilium, 8).  

Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane, scrivendo all’imperatore Traiano, nella seconda metà del I secolo d.C., descrive che i cristiani “essent soliti die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere – erano soliti radunarsi ogni giorno prima dell’alba e dire un inno a Cristo quasi – fosse – un dio” (Litterae X, 97).

Plinio il Giovane nulla scrive di preciso su quello che dicessero o cantassero i primi cristiani, ma nella liturgia bizantina verso il termine dell’Ὀρθρός (orfròs), l’ufficio che i monaci cantano prima dell’alba, troviamo un Inno, che echeggia ampiamente il Gloria latino e che è introdotto da questo versetto:Δόξα σοι τῷ δείξαντι τὸ φῶς” (Dòxa soi tò deìxanti tò fòs); “Gloria a te che ci mostrasti la luce”.

Il Liber Pontificalis riporta come ottavo  successore dell’Apostolo Pietro il nome di San Telesforo. Si tratta di una Papa di origine greca (natione Grecus) e che era stato anche monaco (ex anachorita) e che durante il suo Pontificato, dal 127 al 137, stabilì    fra le altre cose che: “siano celebrate di notte messe del natale del Signore” (natalem Domini noctu missas celebrarentur et ante sacrificium hymnus diceretur angelicus, hoc est: Gloria in excelsis Deo) e prima del sacrificio sia detto linno angelico che è: Gloria in excelsis Deo” (Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire, par L. Duchesne, Paris, 1886, vol. I,  p. 345).

Il testo originale greco di quest’Inno ci è tramandato dal Codex Alexandrinus dell’inizio del quinto secolo. Questo codice raccoglie i testi dell’Antico Testamento, nella versione greca dei Settanta, e quelli del Nuovo Testamento nel loro originale greco.

Al termine del Libro dei Salmi, il Codex raccoglie quindici Odi – o Inni – di cui il Gloria in excelsis Deo è l’ultimo (cfr. F. M.T. Ryan, The Gloria in Excelsis Deo; Sources, Theology and Significance For The Roman Rite, in: Ephemerides Liturgicae 133, 2019, p. 223).

A differenza, dunque, di altri Cantici e Inni – per lo più inseriti nella Liturgia Horarum all’ora di Vespri – il testo del Gloria non è direttamente derivato dagli scritti neo-testamentari, eppure – assai significativamente – lo troviamo trasmesso proprio insieme al corpo dei testi dell’Antico e del Nuovo Testamento.

La prima versione latina dello stesso Inno ci viene, invece, tramandata dall’Antifonario di Bangor del settimo secolo e dal Liber Sacramentorum Augustodunensis dell’ottavo secolo.

Queste due  prime versioni latine convergono specularmente col testo greco del Codex Alexandrinus e lo riproducono letteralmente (cfr. Ibidem, pp. 223-224).

Che l’Inno Angelico sia, poi, da subito considerato di grande importanza per la liturgia romana, ci è poi dimostrato dall’insieme di norme liturgiche che ne regolano l’uso in maniera assai meticolosa.

Oltre alle indicazioni già presenti nel Liber Pontificalis riguardo a Papa Telesforo, fin dall’ottavo secolo, i rituali prevedono che il Gloria sia cantato solo nelle domeniche e nelle feste dei martiri, dopo il Kyrie eleison, ma esclusivamente quando alla celebrazione è presente il  Vescovo.

I semplici preti potevano, invece, cantarlo nel giorno della Pasqua: “Item dicitur Gloria in Excelsis Deo, si episcopus fuerit, tantummodo die dominico, sive diebus festis; a praesbyteris autem minime dicitur nisi solo in Pascha.

Poi si dice il Gloria in Excelsis Deo se c’è il Vescovo, nello stesso modo nel giorno di domenica sia nei giorni di festa; dai presbiteri non sia affatto detto se non solamente nella Pasqua (cfr. Jean Deshusses (ed.), Le sacramentaire grégorien, ses principales formes daprès les plus anciens manuscrits, Fribourg, 1992, vol. 2, p. 85).

Un’altra norma liturgica, sempre nell’ottavo secolo e in uso nella sola diocesi di Roma, concede ai preti novelli di poter cantare il Gloria quando celebrano la loro prima Messa: “Et cum pervenerit ad ecclesiam, ponitur sedes latus altaris et habet ibi licentiam sedere eodem die et in vigilia paschae tantum et dicere Gloria in excelsis Deo”.

Dopo esser giunto in chiesa, si pone nella sede a lato dell’altare e lì avrà il permesso di sedere in quel giorno come nella vigilia di Pasqua e di dire il Gloria in excelsis Deo (Michel Andrieu (ed.), Les Ordines Romani du haut moyen âge. vol. IV, Louvain, 1956, p. 280).

A seguito delle deliberazioni del Concilio di Trento, non si è creato o promulgato un nuovo rito della Messa, ma l’uso del Missale Romanum, che contiene l’immutato rituale damaso-gelasiano, di origine apostolica e come riordinato dalla Riforma Gregoriana, è esteso a tutta la Chiesa Cattolica, ad eccezione di quei luoghi dove esistano distinte e secolari tradizioni liturgiche.

Nel 1570, dunque, abbiamo una nuova normativa liturgica che prevede l’uso obbligatorio del Gloria in tutte le domeniche – ad eccezione di quelle di Avvento, Septuagesima e Quaresima – nella Messa in Coena Domini del Giovedì Santo, nelle Solennità e nelle Feste, e che fa cadere il privilegio riservato, fino ad allora, alla liturgia pontificale.

La prima Istituzione Generale del Messale Romano del 1969 conferma questo uso e sottolinea che: Il Gloria è un antichissimo e venerabile inno col quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello” (IGMR, 1969, n. 31).

Nella terza edizione del 2003 dell’Istituzione Generale, si aggiunge che: “Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro” (IGMR, 2003, n. 53).

Per la sua traditio, il modo in cui il testo ci è stato tramandato, e per la puntuale regolamentazione liturgica che, lungo i secoli, ha contraddistinto l’uso del Gloria ci si sarebbe dovuto attendere da parte dei fantasiosi traduttori della CEI maggiore cautela e saggezza.

L’incipit dell’Inno – “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis” – riprende esattamente il testo della Natività come riportato dalla Vulgata nel Vangelo di San Luca 2, 14, ma l’intero svolgimento dell’Inno rinvia direttamente o indirettamente a ben 35 versetti dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Una rapida sinossi del testo rivela infatti i seguenti riferimenti: a Genesi 22, 12; a Isaia 6, 1-3; e 14, 13; al Salmo 113, 5; al Salmo 83, 19; da Matteo 3, 17;  13, 41-49; 17, 5; e 16, 27; a Marco 1, 11; 9, 6; 8, 38; 13, 26-27; e 16, 19; a Luca 2, 22; 9, 26; e 9, 35; a Giovanni 1, 29; 12, 41; agli Atti 7, 55; a Romani 8, 34; a Efesini 1, 20; a Colossesi 2, 3; alla 2 Tessalonicesi 1, 7; a Ebrei 1, 3; 8, 1; 10, 2; e 10, 12; e all’Apocalisse 3, 2; 4, 8; 4, 11; 5, 13; 7, 12; 11, 17; 15, 3-4; e 16, 7.

E qui solo per elencare i riferimenti più evidenti e chiari!

Tornando all’incipit, il testo greco recita così: Δόξα ἐν ὑψίστοις θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις ⸀εὐδοκίας (Dòxa én ufìstois Zeò kaì epì gès eiréne én anzròpois eudokìas).

In questa frase evangelica i due termine da osservare solo il primo Δόξα (Dòxa) e εὐδοκία (eudokìa), i termini sono al caso genitivo di specificazione: ⸀εὐδοκίας, che San Girolamo nella Vulgata traduce, appunto, con “bonae voluntatis”.

Nel greco antico, la dòxa esprime un’opinione, una credenza, oppure l’opinione che si ha di una certa persona o cosa; qualcosa, insomma, di assolutamente soggettivo e relativo.

In questo senso, insieme al suo verbo δοκέω (dokéo), viene  talora utilizzato nella traduzione dei Settanta dell’Antico Testamento.

Il senso prevalente, tuttavia, è quello che corrisponde al termine ebraico שְׁכִינָה, Shekinah, che indica la manifestazione della potenza di Dio sugli uomini, come luce splendente – per esempio in Esodo 24, 17 o Esodo 40, 28; o il permanere su di un eletto della potente presenza di Dio, come in 1 Samuele 4, 22 o Siracide 49, 8.

Nel Nuovo Testamento, dòxa e dokéo, sono invece impiegati solo e sempre in senso assoluto come splendore, luce brillante, magnificenza, eccellenza, preminenza, dignità, grazia e maestà che sono riferiti esclusivamente alla condizione di Dio e del suo Cristo, in primis, o alla condizione di coloro che sono da tale gloria benedetti ed eletti.

Il termine greco ⸀εὐδοκία appare 9 volte negli scritti del Nuovo Testamento e ha una selezione di significati che indicano la buona volontà, l’intenzione gentile, la benevolenza; la delizia, il piacere; il desiderio; associato al verbo γίνομαι (ghìnomai) assume anche il significato di sembrare buono.

Ora, per facilità di comprensione sottolineerò il termine italiano con cui è, invece, stato tradotto il sostantivo ⸀εὐδοκία nella nuova edizione della CEI del 2008.

Matteo 11, 26: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Luca 10, 21: Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Romani 10, 1: Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. Efesini 1, 9: facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto. Filippesi 1, 15: Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. Filippesi 3, 13: È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Tessalonicesi 1, 11: Per questo preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede.

E veniamo, ora, a Luca 2, 14, che è alla base della modifica del Gloria liturgico: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”.

Come si vede chiaramente è questo l’unico caso in cui i traduttori della CEI hanno dovuto – di punto in bianco – inventarsi un’intera proposizione relativa per tradurre il sostantivo greco εὐδοκία e hanno sostituito tutte le precedenti scelte esegetiche con un verbo, amare, che proprio nel testo non c’è!

Tradurre, infatti, con “uomini di benevolenza” o “uomini di buon sentimento” o “uomini di propositi di bene”, non sembrava valere la pena, perché avrebbe rinviato a quel “di buona volontà”, che in ogni caso si voleva innovare per il gusto d’innovare.

Il sostantivo εὐδοκία (eudokìa) deriva da suffisso εὐ (bene/buono) e dal verbo δοκέω (avere un’opinione, avere un’intenzione, una volontà) e come si comprende il termine εὐδοκία (eudokìa) riecheggia il primo della frase evangelica e liturgica Δόξα (Dòxa) che è pure un sostantivo che deriva dal verbo δοκέω.

Ora, l’evangelista Luca, che essendo nato ad Antiochia era di madre lingua greca, mentre non esita a riferire a Dio la Dòxa, nel senso di Gloria – vale a dire di opinione eccellente – si premura per quanto riguarda gli uomini di specificare che questa dokìa deve intendersi ben orientata, premettendo il suffisso εὐ, vale a dire buona e ben orientata.

 Pare proprio che, nella nuova traduzione del Gloria, abbiamo assistito a una nuova manovra del religiosamente corretto o a un’ulteriore strategia del così piacciamo a tutti e non dispiacciamo a nessuno.

 Si dirà, che la traduzione esisteva già dal 2008 – così come quella del Pater Noster – ma una cosa è lasciarla nel Lezionario, la proclamazione delle cui letture è poi seguita dal commento dell’Omelia che ne orienta l’interpretazione – che ci auguriamo corretta – altra cosa è elevare una traduzione manipolata a dignità di testo liturgico!

 Molti esegeti è pur vero, infine, suggeriscono che la eudikìa non sia da considerarsi come una risposta degli uomini alla dòxa di Dio – dunque, uomini di buona volontà – ma solo un riferimento a Dio stesso e al suo compiacersi degli uomini (inter alia, cfr. Jozef Jančovič, Who Are Addresses of Peace in the Canticle Gloria in excelsis? Analysis of the Phrase ἀνθρώποι εὐδοκίας in Luke 2:14 and its Translation Proposal, in: Slavica Slovaca, 54, Bratislava 2019, No. 2, pp. 129-141).

Di fronte a questa obiezione, dobbiamo, allora, chiederci ma di quali uomini si compiace – o come dice la CEI quali uomini ama – il buon Dio?

 Lasciamo ben volentieri la risposta all’incommensurabile Agostino d’Ippona e al suo sermone natalizio, da cui abbiamo preso le mosse.

 “Osserva, uomo, che cosa è diventato per te Dio: sappi accogliere linsegnamento di tanta umiltà, anche in un maestro che ancora non parla. Tu una volta, nel paradiso terrestre, fosti così loquace da imporre il nome ad ogni essere vivente; il tuo Creatore invece per te giaceva bambino in una mangiatoia e non chiamava per nome neanche sua madre. Tu in un vastissimo giardino ricco di alberi da frutta ti sei perduto perché non hai voluto obbedire; lui per obbedienza è venuto come creatura mortale in un angustissimo riparo, perché morendo ritrovasse te che eri morto. Tu che eri uomo hai voluto diventare Dio e così sei morto; Lui che era Dio volle diventare uomo per ritrovare colui che era morto. La superbia umana ti ha tanto schiacciato che poteva sollevarti soltanto lumiltà divina(Sermo in Natali Domini, 188, 3, 3).

 Forse a questo pensava San Girolamo quanto scelse di tradurre quell’ ἀνθρώποι εὐδοκίας semplicemente ma assai efficacemente con “uomini di buona volontà”.

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11 commenti

  • MARIO ha detto:

    Credo che il “Gloria…” (e il suo significato) abbia un’importanza fondamentale all’interno della Sacra Scrittura, perché è ciò che DIO HA VOLUTO DIRE all’uomo, attraverso il coro delle schiere angeliche, nel momento più importante della storia dell’umanità, nel quale la storia è stata divisa in due, sia cronologicamente (prima e dopo la nascita di Gesù Cristo), sia spiritualmente (dalla Antica Alleanza alla Nuova Alleanza).

    Anche a mio modesto parere l’attuale (seppur non nuova…) traduzione del “Gloria…” la ritengo sbagliata o per lo meno ambigua.
    La conferma, oltre che nella traduzione latina (Vulgata) dell’originale greco, la trovo personalmente anche nell’ “Evangelo come mi è stato rivelato” di Maria Valtorta e in un messaggio molto particolare di Medjugorje.

    1. ORIGINALE GRECO (Lc 2,14).
    Interlineare greco – italiano:
    “Δόξα (Dòxa – Gloria) ἐν (én – in) ὑψίστοις (upsìstois – luoghi altissimi) θεῷ (Zeò -a Dio) καὶ (kai – e) ἐπὶ (epì – sulla) γῆς (ghès – terra) εἰρήνη (eiréne -pace) ἐν ἀνθρώποις (én anzròpois – negli uomini) εὐδοκίας (eudokìas – del suo compiacimento o di cui egli si compiace).

    Da notare che l’amore di Dio per tutti gli uomini non implica necessariamente che gli stessi possano godere automaticamente e indistintamente della sua pace. Ma la pace è un dono di Dio, riservato solo a coloro di cui Dio si compiace e cioè a coloro che lo accolgono e ricambiano il suo amore (osservando i suoi Comandamenti).

    2. ORIGINALE LATINO (Lc 2,14).
    Nova Vulgata del 1997 (paradossalmente più fedele all’originale greco rispetto alla Vulgata di S. Girolamo):
    “Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis.”

    Da notare quell’ “IN hominibus” (“IN” a volte mancante in alcune traduzioni latine), che non si traduce “AGLI uomini” ma “NEGLI uomini”, quasi a voler significare una pace interiore più che esteriore.

    3. MARIA VALTORTA
    Nella Valtorta, oltre che alla nascita di Gesù, questa frase viene citata da Gesù stesso, a 12 anni, a Gerusalemme per l’esame di passaggio alla maggiore età.

    Nella famosa disputa con i dottori del Tempio, incentrata tra l’altro sulla profezia di Daniele delle 70 settimane, Gesù, per spiegare il motivo della distruzione di Gerusalemme dopo la venuta del Messia, cita le parole degli angeli alla sua nascita (“Pace agli uomini di buona volontà”) e conclude testualmente: “Ma questo popolo non ha buona volontà e non avrà pace”.
    Allego il link del capitolo (uno dei più belli) della Valtorta:
    http://www.scrittivaltorta.altervista.org/01/01041.pdf

    4. MEDJUGORJE
    Nell’apparizione del Natale 2012(!) alla veggente Marija, per la PRIMA E UNICA VOLTA nella storia di quelle apparizioni, parla il bambino Gesù (tenuto in piedi dalla Vergine, davanti al suo petto, come in talune icone) e dice:
    “Io sono la vostra Pace. Vivete i miei comandamenti.”

    Il messaggio ricalca la stessa frase, cantata dagli angeli alla sua nascita e pronunciata da Gesù a 12 anni nel Tempio (nella sua prima e unica manifestazione pubblica prima dei 30 anni) e ripetuta a Medjugorje dopo 2000 anni esatti (nel suo primo e unico messaggio).

    Considerato che le apparizioni di Medjugorje sono iniziate dopo 2000 anni dalla nascita della Madonna, che anche questo particolarissimo messaggi (come peraltro altri segni analoghi…) richiama quanto avvenuto 2000 anni prima, considerato anche che la famosa croce sul monte Križevac è stata costruita in occasione del giubileo del 1933… chi ha orecchi da intendere, intenda.

    • FRANJO ha detto:

      Grazie Mario per ricordarci ogni tanto lo scrigno dell’opera di Maria Valtorta, ricco di innumerevoli gemme. A me piace ricordare la descrizione della potenza di certe conversioni: la romana Aglae, il dotto Giovanni di Endor, che, nel seguire il Maestro, si porta dietro il pesante fardello dei suoi libri, filosofia, poesia, storia, con il consenso di Gesù, che non disprezza: “Ti potranno servire per discutere con i pagani di Dio”.

  • Enrico Nippo ha detto:

    Non si tratta di “fastidio” per il fatto che Dio ami gli uomini, bensì del patologico spirito innovativo (non rinnovatore, ma innovativo e quindi sovversivo) che ha cominciato a sfruculiare gli animi degli addetti ai lavori già da prima del vaticano II e che dal medesimo in poi ha cominciato a corrodere (non in se stessa, naturalmente) la Tradizione cattolica, con buona pace degli entusiasti della “santità” dei papi vaticano-secondisti che in un modo o nell’altro hanno permesso l’impazzare dell’innovazione sovvertitrice (ed i frutti si vedono!).

    Non vi è chi non veda, al riguardo, la micidiale, subdola affermazione di Giovanni XXIII: “Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. E infatti si stanno vedendo i risultati di questa presunta “migliore comprensione”.

    La traduzione della Bibbia in latino – o Vulgata – dall’antica versione greca ed ebraica è opera di san Girolamo (considerato, oltretutto, il Santo patrono dei traduttori), il quale affermava:

    “non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso.“ (Epistola 57).

    La Gloria celeste deve (dovrebbe) avere un riscontro nella vita terrestre, cioè nella “buona volontà” degli uomini, volontà che è buona in quanto aderente alla Volontà di Dio.

    Il cambiamento della traduzione non risponde, come potrebbe sembrare, ad una premura per una più veritiera traduzione del testo greco, bensì ad un insinuante tentativo, peraltro già in fase di avanzata realizzazione, di far trionfare il “nuovo umanesimo”, in cui l’uomo diventa il centro della vita e Dio viene relegato in un cantuccio da cui si limita ad osservare “gli uomini che egli ama”, questi ultimi sicuri dell’amore incondizionato di Dio e quindi liberi di fare ciò che vogliono. Perché tanto Dio li ama così come sono.

    E se Dio ama gli uomini così come sono che bisogno c’è della loro buona volontà?

    Non si dovrà insistere sul caos che regna in seno alla Chiesa ed alla società (cosiddetta) civile, grazie la “nuovo umanesimo” che trova d’altra parte la “collaborazione” dell’azione disindentificante e massificante dei media, dietro ai quali il Potere della censura sta sempre più la sua pressione.

    Stiamo messi male, molto male. Ma che importa? Tanto Dio ama l’uomo così com’è:

    • Micky ha detto:

      Già la Bibbia Diodati del 1607 riferiva la eudokìa a Dio, ma direte che quella è dei Protestanti che son da mettere a rogo. Ma pure la Bibbia cattolica di Antonio Martini, del 1771, approvata dai Papi di allora e successivi, attribuiva a Dio tale parola e traduceva “uomini del buon volere” spiegando in nota che era da intendersi uomini oggetto del buon volere di Dio e spiegava che tale era il senso della Vulgata: hominibus bonae voluntatis, uomini della buona volontà di Dio, precisando però che questo buon volere di Dio è rivolto ai suoi eletti: dunque gli uomini per i quali Dio ha buon volere non sarebbero tutti; ma resta il fatto che pure per la traduzione del Settecento non sono gli uomini quelli a cui attribuire la buona volontà, ma è Dio. Anche la versione Cei, “agli uomini amati dal Signore”, volendo potrebbe essere intesa in questo modo: quegli uomini (non tutti) che Dio ama (anche se l’intenzione Cei è di riferire a tutti tale benevolenza di Dio). Questa soluzione settecentesca di Martini può mettere d’accordo tutti: coloro che vogliono riferire a Dio la parola eudokìa, buona volontà di Dio, e quelli come voi che non possono accettare che Dio possa volere bene a tutti, ma solo ad alcuni: gli uomini che “si meritano” il buon volere di Dio.

      • Enrico Nippo ha detto:

        Che c’entra “quelli come voi”?
        Forse che il buon volere di Dio non bisogna meritarlo?

        Invece …quelli come lei dove vogliono andare a parare?

  • Micky ha detto:

    Tante parole, per arrivare infine a dire che gli esegeti riferiscono la eudokìa a Dio e dunque che la Cei ha sostanzialmrnte ragione. Sia la Bibbia di Gerusalemme che la TOB (che ha messo d’accordo cattolici, protestanti e ortodossi) danno a quella frase il senso di “uomini (oggetto) della benevolenza (di Dio). O quegli esimi studiosi sono tutti dei biechi complottardi, o un motivo ci sarà per ritenere che la eudokìa sia di Dio. La formula “uomini che sono oggetto della benevolenza divina” si trova nei testi di Qumran. Invece che “amati” potevano con un altro aggettivo, per esempio “benvoluti” La Bibbia di Gerusalemme traduce “uomini oggetto del suo compiacimento”, la TOB “beneamati”. Comunque, possibile che vi dia così fastidio il fatto che Dio possa amare gli uomini?

    • stilumcuriale emerito ha detto:

      A me da molto fastidio che ci siano persone che ritengono di poter stabilire quali siano e quali non siano gli attributi di Dio.
      Nella Bibbia ci sono ben 4737 versetti nei quali compare “Dio”, iniziando da Gen 1,1 incui si dice :- In principio Dio creò il cielo e la terra.– per finire con Ap 22,19 che dice:– e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro.– passando per Esdra 5,12 :– Ma poiché i nostri padri hanno provocato all’ira il Dio del cielo, egli li ha messi nelle mani di Nabucodònosor re di Babilonia, il Caldeo, che distrusse questo tempio e deportò a Babilonia il popolo.– e a Lc2,25:-Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele–.
      Good afternoon everybody.

    • : ha detto:

      A prescindere dalla corretta traduzione dall’originale, secondo me le due formulazioni sono equivalenti.

      “Buona volontà”, non è intesa in modo corrente, come solerzia, impegno. In questo caso anche coloro che promuovono leggi tipo scalfarotto-zan mostrano buona volontà, nel distruggere quel poco che resta della possibilità di coltivare e seguire i valori morali. “Buona volontà”, invece, nel senso di volontà di fare e seguire cose buone, cioè di fare la volontà di Dio. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Non c’è dubbio che Dio ami chi fa la sua volontà.

      Ma allora, se sono equivalenti, perché cambiare? Un’orazione è venerabile per ciò che esprime, ma anche perché c’è la consapevolezza, da parte di chi la recita, che quelle parole che lui pronuncia una dopo l’altra sono le stesse che uomini santi più degni di lui hanno pronunciato nel corso dei secoli, a garanzia della “santità”, se così ci si può esprimere, di quelle stesse parole. Una variazione nel modo di pregare, nelle stesse parole della preghiera, all’umile fedele, che è costretto ad usarle fuori della sua abitudine, crea uno scompenso, e certamente nel momento di pronunciarle viene distratto dalla novità facendolo uscire dalla concentrazione che poneva nel recitarla con sentimento religioso: A che pro? Si ha l’impressione che chi promuove tutte queste novità nei testi delle preghiere non prova quegli “scompensi”, in quanto non ha l’abitudine di recitarle, o le recita soltanto con le labbra.

      P.S. – A proposito: la nuova versione è così maschilista da recitare: «… agli uomini, amati dal Signore»? E le donne?

  • stilumcuriale emerito ha detto:

    Dopo aver letto l’articolo mi sono posto una serie di domande che giro agli amici stilumcuriali.
    Applicando il cosiddetto metodo “dell’albero” questo è stato il mio ragionamento.
    Iniziando a dividere gli esseri umani in atei e non atei, diciamo subito che agli atei il problema del gloria non interessa.
    Rimangono i non atei, ma se dividiamo anche questi in cristiani e non cristiani diciamo che ai non cristiani il problema del gloria non interessa.
    Rimangono i cristiani, ma se dividiamo anche loro in cattolici e non cattolici diciamo che ai non cattolici il problema del gloria non interessa.
    Rimangono i cattolici, ma se dividiamo anche questi in praticanti e non praticanti diciamo che ai non praticanti il problema del gloria non interessa.
    Rimangono quindi soltanto i cattolici praticanti e forse non tutti nemmeno quelli. In ogni caso un numero esiguo rispetto all’intera umanità.
    A questo punto arriva la domanda. Si rende conto la Chiesa docente che sta inutilmente perdendo tempo e sprecando risorse su problemi secondari e di esigua rilevanza pratica, rispetto a quelli che dovrebbero essere i suoi compiti primari? L’evangelizzazione dei popoli a partire dagli atei e via via agli appartenenti ad altre religioni e ai cristiani non cattolici per finire ai cattolici non praticanti non dovrebbe essere al primo posto negli impegni non solo della gerarchia ma di tutto il “popolo di Dio”?

  • Anna Astolfi ha detto:

    Sto leggendo questo articolo e mi sono imbattuta in un refuso. Nella traslitterazione dall’ alfabeto greco a quello latino del ‘ Gloria’ bizantino c’è un refuso. ‘son’ al posto di ‘soi’. Ve l’ho segnalo immediatamente, ancor prima di portare a termine la lettura.
    Anna