Il Matto, e Cioran: la Via del Silenzio contro l’Immagine (e le Parole…)

17 Maggio 2021 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il nostro Matto ci ha inviato una riflessione spirituale che di sicuro sarà di spunto a meditazioni e discussioni ricche di contenuti. Buona lettura.

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LA VIA DEL SILENZIO CONTRO L’IMMAGINE

«Molte sono le vie che conducono a Dio: ciascuno percorra fino in fondo quella che ha intrapreso, e rimanga irrevocabilmente orientato nella direzione che ha scelto».

Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci.

 

Posto il chiarificante incipit, traggo dal mio scrigno di pietre preziose un articolo per me indimenticabile: “La via del silenzio contro l’immagine” di E.M. Cioran sul Corriere della Sera del 21 settembre 1989. Ne rimasi profondamente colpito già dalla prima lettura e per molto tempo vi ritornai più e più volte poiché lo sentivo mio: quel che scriveva il filosofo e saggista rumeno trovava in me un assenso totale e confermava l’orientamento spirituale da me assunto già da molti anni addietro, quando la vita terrestre, in ogni sua forma, aveva preso a starmi stretta, spingendomi ad evadere verso l’Alto.

Evadere, dico, da tutto ciò che era (ed è) appesantito dalla vita terrestre, compreso ogni linguaggio catafatico, cioè affermativo, descrivente, definente, inquadrante, schematizzante, dogmatizzante, costituito da straripanti e non di rado circonvoluti e soffocanti intrecci concettuali-discorsivi che, per me, avevano preso a costituire la rete – necessaria, ma fino a un certo punto – nella quale mi sentivo impigliato. Voglio dire che, per me, le parole avevano mutato funzione: da finestre aperte a finestre murate; da latrici di significati a occultatrici dei medesimi; da ponti a barriere.

Imboccai così, decisamente, la Via apofatica, la Via della negazione. Il pensiero cominciò a presentarmisi come una vera e propria impalcatura onirica di parole ed immagini, e perciò come un peso, proprio secondo quanto ne dice l’etimologia: “dal latino PENSUM, che significò la quantità di lana pesata per il compito delle schiave filatrici (ancellae pensiles”).

Quindi il pensiero come fardello, e perciò come ostacolo, ancora secondo l’etimologia, “da OB di faccia, e STACULUM stare: propriamente che sta dinnanzi”. E chi non ha mai sentito il peso di un pensiero e il suo costituirsi come ostacolo? Non fa parte, ciò, del vivere umano? E non è forse il pensiero, col suo instancabile costituirsi in griglia di concetti e parole, la causa delle discordie d’ogni genere che lacerano il mondo? Il conflitto babilonico fra concezioni religiose, politiche, economiche e quant’altro non è forse causato da giganteschi nugoli di pensieri articolati in invadenti sillogismi? E i cosiddetti “accordi fra le parti” non sono patetici tentativi omeopatici di rimediare al veleno delle parole col medesimo veleno? La verità è che il linguaggio non unisce bensì divide, e gli “accordi” si risolvono, nel migliore dei casi, in tregue armate più o meno precarie.

C’è una legge secondo la quale il simile cerca il simile, confermata dal mio incondizionato apprezzamento per questo brano magistrale di Cioran, un tipo niente affatto normale e, se fosse possibile, più matto di me. Ma si sa, tra matti ci s’intende a meraviglia, mentre i sani di mente, dal loro scranno di ferro ben fissato a terra col cemento concettuale-parolaio, strabuzzano gli occhi scandalizzati, e, padroni della verità … si accapigliano fra di loro, ciascuno tenuto ben saldo dalla ferrea cintura di sicurezza del proprio pensiero, della propria fede, cioè del proprio sogno, dacché pensare è sognare e la vita sulla terra una patetica, collettiva agitazione onirica.

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LA VIA DEL SILENZIO CONTRO L’IMMAGINE

Allo spirito che si orienta verso la nudità ripugnano le parvenze che gli ricordano questo mondo dal quale si vuole separato. Prova soltanto esasperazione davanti a ciò che esiste o sembra esistere. Più si distoglierà dalle apparenze e meno avrà bisogno dei segni che le esaltano o dei simulacri che le denunciano, gli uni e gli altri ugualmente nefasti per la ricerca di ciò che importa, di ciò che si sottrae, di quel fondo ultimo che esige, per essere colto, la rovina di ogni immagine, anche spirituale.

Privilegio maledetto dell’uomo esteriore, l’immagine, per quanto pura sia, conserva una traccia di materialità, un qualcosa di rugoso, e, poiché rinvia fatalmente al mondo, essa comporta per ciò stesso un elemento di incertezza e di perturbamento. Soltanto attraverso una vittoria su di essa ci si potrà avviare verso l’essere nudo, verso quella sicurezza senza legami che si chiama liberazione. Liberarsi, in verità, equivale a spogliare l’immagine, a svestirsi di tutti i simboli di quaggiù.

Ci si affranca dall’immagine soltanto se, con uno stesso movimento, ci si affranca dalla parola. Ogni parola equivale a una lordura, ogni parola è un attentato alla purezza. “Nessuna parola può sperare altro che la propria sconfitta”, proclama Gregorio Palamàs nella Difesa dei santi esicasti. Al fondo che sta al di là delle apparenze, non si accede se non in virtù del silenzio, quel silenzio che Serafim di Sarov diceva che rende l’uomo simile agli angeli.

Fatto degno di nota: non c’è silenzio frivolo, silenzio superficiale. Ogni forma di silenzio è essenziale. Quando lo si assapora, si percepisce automaticamente una sorta di supremazia, una strana sovranità. È possibile che ciò che si designa come interiorità non sia nient’altro che un’attesa muta. Perciò nessuna “vita vera” o, semplicemente, nessuna vita spirituale che non implichi la morte dell’immagine e della parola, la distruzione, nel più profondo dell’essere, di questo mondo e di tutti i mondi. L’esperienza mistica, al suo limite estremo, si identifica con la beatitudine di un supremo rifiuto.

Perseguire, cercare l’immagine dimostra che si è rimasti al di qua dell’assoluto e che si è inadatti alla visione pura. Ciò si capisce, dato che questa visione non è tanto senza oggetto quanto al di là di ogni oggetto. Si potrebbe anzi dire che ciò che essa ci permette di vedere è l’assenza senza confini di tutto ciò che può essere visto, la nudità come tale, il vuoto come pienezza o, meglio, quell’“abisso della sovraessenza” celebrato da Ruysbroek.

Fra tutti coloro che cercano, soltanto il mistico ha trovato, ma, prezzo di un favore così eccezionale, non potrà mai dire che cosa, benché egli abbia la certezza che conferisce unicamente il sapere incomunicabile (il vero sapere insomma). La strada sulla quale egli vi inviterà a seguirlo sbocca su una vacuità senza uguali ma, ed è questa la meraviglia, una vacuità che vi colma, poiché si sostituisce a tutti gli universi aboliti. Ciò di cui si tratta in questo caso è un’impresa, la più radicale che sia stata tentata, per ancorarsi a qualcosa di più puro dell’essere o dell’assenza di essere, qualcosa di superiore a tutto, perfino all’assoluto.

Il sapere attinto alle apparenze è un falso sapere o, se si preferisce, un non sapere. Per il mistico, la conoscenza nel senso vero, nel senso intimo della parola, si riduce a una ignoranza illuminata, a una ignoranza “trans luminosa”. Color che vivono nella pratica di questa ignoranza e della luce divina percepiscono se stessi, dice ancora Ruysbroek, come una “solitudine devastata”.

Partendo da questa solitudine si comprenderà facilmente l’urgenza del deserto, spazio propizio alla fuga verso l’assenza di immagini, verso una spogliazione inaudita, verso l’unità nuda, verso la Deità piuttosto che verso Dio. “La Deità e Dio” afferma Meister Eckhart, “sono altrettanto separati quanto il cielo e a terra. Il cielo è a migliaia di leghe più in alto. Così la Deità in rapporto a Dio. Dio diviene e passa”.

Limitarsi a Dio significa, come ha notato un commentatore, “restare ai margini dell’eternità”, rendersi inadatti a penetrare nell’eternità stessa, alla quale si giunge soltanto elevandosi alla Deità.

Ispirandosi sempre alla stessa “solitudine devastata”, come non evocare quella oratio ignita, quella “preghiera di fuoco” della quale, secondo un Padre dei primi secoli, siamo capaci solo quando siamo talmente impregnati da una luce dall’alto che è impossibile servirsi ancora del linguaggio umano?

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13 commenti

  • Milli ha detto:

    Che dire, per essere uno che odiava le parole, ha scritto un articolo ben lungo!
    A differenza di questi esimi commentatori, sono molto più ignorante, tuttavia mi permetto di commentare ugualmente, se non altro perché sono una donna pratica.
    Prima di tutto, come cristiana mi ha irritato parecchio:”Limitarsi a Dio significa, come ha notato un commentatore, “restare ai margini dell’eternità”, rendersi inadatti a penetrare nell’eternità stessa, alla quale si giunge soltanto elevandosi alla Deità.”.
    Pensava di diventare lui stesso Dio? Che misero.
    In più mi sembra che il pensiero abbia bisogno di parole e che anzi, l’attuale impoverimento del linguaggio vada di pari passo con l’impoverimento del pensiero, per cui l’aspirazione alla non parola, all’estasi muta mi sembra l’aspirazione a diventare un vegetale. Sicuramente anche i pomodori nel mio orto contemplano in questo modo la luce di Dio.
    Attento a non diventare un cactus, quando fa i suoi giretti nel deserto.
    Saluti

    • Il Matto ha detto:

      Carissima Milli,
      è sempre un piacere (dico su serio) incontrarla in
      questo Giardino dei Commenti.

      Occorre tenere presente che è la condizione indigente dell’essere umano che lo costringe ad essere contraddittorio, in questo caso ad usare parole per rinnegare le parole, e, più in generale, parlare del silenzio.

      La prego però di notare che Cioran dice “elevandosi alla Deità” e non di diventare Dio: ci si eleva a ciò che è Altro da noi e che, se lo meritiamo, può deificarci, ossia farci diventare per grazia ciò che Lui è per natura.

      Riguardo alla pratica (la pratica, non il parlare) del Silenzio, ciò che io chiamo il Raccoglimento Silenzioso, posso assicurarle che, dopo miglia e miglia di deserto (non solo un “giretto”), comincia a intravedersi (mi esprimo simbolicamente) il verde lussureggiante di un’oasi.

      E’ soltanto un miraggio? Booh! Intanto io continuo ad avanzare nel deserto … poi si vedrà … si tratta di un’avventura … e l’avventura comporta il rischio … e, come si dice, “chi non risica non rosica” …

      Una caro saluto.

      • Milli ha detto:

        Non sono convinta che Cioran la intendesse in questo modo, ma non è importante, ciò che importa è che lo pensi lei, per il suo cammino spirituale.
        Quando pratica il silenzio riesce a zittire la mente totalmente o comunque dialoga, per esempio, uno a caso, con Dio? Ha mai sentito una risposta? Un sussurro lieve?
        Un caro saluto anche a lei.

  • Il Matto ha detto:

    Grazie molte anche a Mario e Luca Antonio.

    I versi di Michelangelo sono strepitosi e provocano in me la medesima, completa adesione come lo scritto di Cioran.

    Chiaro che il “deserto permanente” finché uno sta su questa terra non è percorribile e quindi occorre, almeno così sembra a me, barcamenarsi nel mondo della dualità, e ciò, per l’uomo religioso, attraverso la fede e la ragione, e, anche , le “opere e immagini, che ci vengono a ispirare l’unica parola che salva”, fra le quali comprenderei i Simboli quale linguaggio immediato che il Cielo rivolge all’Anima.

    Tuttavia, la buona abitudine di andarsene ogni giorno nel deserto per un’oretta può permettere (dopo molti anni) di giungere a sentirsi sostenuti, abbastanza nettamente, dalla “presenza sconosciuta” di cui ci dice Michelangelo, e che trascende la dimensione del duale.

    Chiaro che il deserto modifica radicalmente la vista e fa vedere il mondo come soltanto un matto lo può vedere.

  • Luca Antonio ha detto:

    Caro Matto,Lei scrive cose molto stimolanti, grazie, ma mi occorre dire alcune cose :
    – lo scritto di Cioran e’ intrigante ma e’ scritto da uno – lo adoro ho letto quasi tutti i suoi libri- che ha fatto della parola il suo modo di esistere. Tuttavia si e’ riscattato, aderendo al medesino scritto, ammalandosi di Alzaimer.
    – il mondo, piaccia o no, e’ duale, alto/basso, destra/sinistra, avanti/dietro, dritto/roverscio, vita/non vita, essere/non essere, 1/0 del sistema binario dei computer che dominano la nostra vita;
    – e’ vero tuttavia che l’istinto ci porta ricercare l’unita’ iniziale, il pleroma originario da cui siamo scaturiti, l’unita’ con Dio prima della cacciata – cacciata che e’ in effetti e’ autoesclusione, in quanto discernimento, la pretesa di dirimere da soli il dualismo supremo,
    il bene e il male –
    ma questo, a parer mio, non puo’ essere fatto attraverso un deserto permanente.
    Ci ha separati da Dio l’IO , ci puo’ ricondurre a Lui solo il Noi .
    Un libro molto famoso negli anni scorsi e stato L’errore di Cartesio di Damasio, che si chiude con un’unica certezza : l’IO e’ il frutto del linguaggio ( pag 330 edizioni Adelphi), ora lo stesso linguaggio che forma l’io- che ci isola dagli altri- e’ anche quello che ci rimette in contatto con gli altri – attraverso oltretutto quel mistero che Noam Chomski chiama grammatica universale e che fa dire a Godel prima di lui , parafraso, che gli risulta incomprensibile come gli uomini riescano a comunicare tra loro.
    Qualcuno li ha chiamati campi morfogenetici, altri hanno fatto altre ipotesi ma quello che risulta anche dai fenomeni della fisica quantistica – vedi il caso dell’enteglement – e che si’ ,
    siamo gettati nel mondo, soli, ma non siamo un’isola e possiamo trovare ” il nostro fine ” solo uscendo da noi stessi, ma non cercando, come nel finale del nome della rosa di Eco, ..un vasto deserto….in cui non esiste ne’ opera ne’ immagine , ma per mezzo , come ha detto Adriana, di opere e immagini, che ci vengono a ispirare l’unica parola che salva , in modo bidirezionale con l’assoluto, Amore.
    Grazie.

    • MARIO ha detto:

      Io no so dove vado, né come né perché,
      ma quello che mi accompagna sicuramente è un altro.
      Io cammino abbagliato da questa presenza sconosciuta.
      [Michelangelo Buonarroti]

  • MARIO ha detto:

    Raccontano che un padre del deserto, per non turbare il silenzio con il ticchettìo della tastiera,
    ne cercò disperatamente una munita di silenziatore, e la trovò alfine su Amazon,
    ma visto che costava un occhio della testa, e probabilmente anche due,
    col rischio di perdere assieme agli occhi anche la somiglianza con la Divinità,
    fece la più grande scoperta della storia: i tappi nelle orecchie.

    • Adriana 1 ha detto:

      Mario,
      il suo intervento mi ricorda quelli di Erissimaco nel “Convito” di Platone. Vedeva nel regolare riempimento e svuotamento del corpo umano la manifestazione dell’amore nonchè quella dell’affetto tra due esseri umani.

  • Il Matto ha detto:

    Ringrazio ARRENDERSI ALL’EVIDENZA e ALESSANDRO O per gli opportuni contributi.

  • Adriana 1 ha detto:

    Ah, Matto,
    vuoi aprire le porte che si aprono silenziosamente sull’Olam…
    Quante cose da dire ( ma con parole): meglio allora ridurle al minimo.
    Il ” trasumanar” non si può descrivere ” per verba”, ma sarebbe una Divinità ben crudele e molto simile a un buco nero o all’antimateria quella che volesse privarmi della Visione
    ( di cui le migliori immagini terrene sono un aggancio) e della musica ( che è scala per l’ascesi). E’ sperabile di udire- lassù nell’Olam e quaggiù nel profondo del nostro cuore- l’Armonia delle sfere celesti e la perfezione di tutte le Forme dell’Iperuranio.

  • arrendersi all'evidenza ha detto:

    Il matto è matto e quindi non si può che dargli ragione.
    Personalmente ho gran stima dell’evasione dal mondo.
    Il mondo è luogo da catafatici con la pretesa di inanellare conoscenze logiche. Purtroppo lo sport più praticato al mondo dei potentati ostili a Dio-Verità è la menzogna.
    C’è un passo del vangelo (Gv 17) in cui in dieci versetti Gesù usa la parola “mondo” una dozzina di volte. Nel mondo ci dobbiamo stare senza essere “suoi”: al più lo attraversiamo da esuli di un altro regno.
    Allora ben venga la Via apofatica, ma stando attenti a non confonderne l’ispirazione e l’Ispiratore: tacere la ciancia mondana non è tacere la Rivelazione di Dio.
    Contemplare il mistero merita il silenzio , ma non richiede l’assenza di conoscenza o di comprensione.
    Chi ama lo sa: amare può essere fatto anche di lunghi silenzi ma di sguardi ed abbracci intensissimi, Viceversa si può parlare d’amore, senza l’amato.
    Quindi mi arrendo alla non distinzione tra Dio e Deità, altrimenti troppo cervellotica e bisognosa di catafatico sforzo, impossibile al matto come al loico con le parvenze che ripugnano all’evaso dal mondo.
    L’anima che anela a contemplare il volto di Dio non sa che farsene del falso sapere del mondo, il suo non sapere (anche vaccinale) è fatto per lo più di un dare ad intendere, propagandando ciò che serve al potere.
    In Dio invece è un dire amore, per servire l’amato.
    Il Dio eckartiano è indefinibile come “possesso della ragione umana”, ma si palesa nel dare la pace al cuore, orientando le facoltà dell’uomo a Dio rivelatosi in Cristo, distolte al mondo le velleità d’autosufficienza e consapevoli del ruolo della Grazia.
    L’eternità dell’anima riempita della grazia è una realtà materna aperta al sì alla vita divina, in cui Dio prende carne. La preghiera infuocata non a casa è la più alta vetta di un cantore di Maria, i nome di Gesù.
    Cantando con il linguaggio umano, per scuotere gli umani dalla schiavitù del mondo. Liberos! disse lui, proprio perchè capaci di silenzio stando presso Dio.

  • ALESSANDRO O ha detto:

    A tal proposito non posso che ricordare il Confucio taoista quando diceva: “Non dirlo, non dirlo! O farai vivere la morte!”. Caro Matto, mi trova perfettamente d’accordo. Quello che mi sento tuttavia di sostenere dopo tanto tempo passato a recitare il perfettissimo Rosario come se meditassi dei koan, è che la parola non è del tutto inutile: è, come la realtà, utile e inutile al tempo stesso. Come rilevavo in un altro post, la dualità sussiste solo nel pensiero: in base a questa dualità si arriva al paradosso di affermare che la realtà “esiste” e “non esiste” nello stesso tempo. Allora, come dicevo, la parola è utile e inutile nello stesso tempo. La si impiega malamente se si ha per obiettivo la costruzione di forme di pensiero alle quali poi necessariamente ci si vincola, senza pensare che, giusto o sbagliato che sia, un pensiero è comunque un laccio. La forma sublime della parola, quando essa è veramente utile, è quando si esprimono ad esempio i famosi koan: allora il pensiero si contorce talmente nel cercare di comprendere, cioè verbalizzare, qualcosa di incomprensibile perché non appartiene al piano delle parole, che alla fine è costretto ad autosopprimersi. Vi lascio, a differenza delle volte scorse, con un “koan” famosissimo tutto nostro, di noi cristiani (viene dagli apoftegmi dei padri del deserto), perché sennò mi dicono che sono rimasto buddhista, ed anche per convincere il Matto che esiste tuttavia un modo “sapiente” di utilizzare la parola: “Quando dissero al padre: ‘In che modo il Padre e il Figlio sono due ed uno contemporaneamente?’ il padre rispose: “Come la vista nei due occhi”. Un caro saluto a lei dott. Tosatti e al sempre opportuno Matto