Appena trenta giorni dopo il 7 ottobre 2023, Time Magazine ha pubblicato un articolo dal titolo: “Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio? Gli esperti stanno valutando”. In quel periodo, il numero di morti in Gaza cresceva in maniera esponenziale e nei primi giorni di novembre il bilancio parlava di oltre 20.000 morti sotto le macerie. Un anno dopo, novembre del 2024, pochi giorni fa, Papa Francesco in un libro redatto per il Giubileo del 2025 ha indirizzato una richiesta alla comunità internazionale: investigare se quello che sta accadendo a Gaza può essere un genocidio.
Nonostante le indagini degli organi internazionale siano in corso, nell’ultimo anno, a partire dal 7 ottobre 2023 attraverso articoli, analisi, editoriali, e lanci social media su InsideOver abbiamo costruito una banca dati informativa con decine di evidenze dei crimini che Israele ha provocato nella striscia di Gaza. Puoi leggere l’articolo “L’impegno di InsideOver per il conflitto di Gaza” in cui ripercorriamo i momenti più delicati e importanti di un anno di reporting sul tema.
Per rispondere alla domanda di Papa Francesco è necessario partire proprio dalla parola genocidio. La parola genocidio è composta da un prefisso genos che proviene dal greco e significa “razza” o “tribù” e dal suffisso cide che in latino significa uccidere. La parola è stata utilizzata per la prima volta nel 1944 dall’avvocato ebreo polacco Raffaello Lemkin nel suo libro Axis Rule. All’interno del libro, Lemkin ha riassunto la sua concezione di genocidio in “un fenomeno brutale che si sviluppa attraverso un modello coloniale in cui la nazione colpevole sostituisce il modello nazionale della nazione vittima”.
In seguito all’Olocausto, iniziato nella metà degli anni Trenta e terminato nel 1945 con la fine dela seconda guerra mondiale, il termine coniato da Lemkin per descrivere gli avvenimenti che portarono all’uccisione sistematica di 6 milioni di ebrei, il termine genocidio venne individuato e adottato dall’Assemblea delle Nazioni Unite per descrivere “un piano coordinato di diverse azioni, volte alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita di un gruppo nazionale e con l’obiettivo di annientare il gruppo stesso”.
Ne nacque un trattato, approvato e entrato in vigore nel gennaio del 1951 e ratificato nello stesso anno anche da Israele. La carta ha istituito 19 articoli con lo scopo di mettere al bando il genocidio e obbligare gli Stati membri ad implementare l’applicazione delle regole.
Tra gli articoli più importanti, ne evidenziamo uno. L’articolo numero 2, che definisce le azioni di uno Stato che devono essere categorizzate come genocidio:
(a) Uccidere membri di un gruppo;
(b) Causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo;
(c) Sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita volte a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
(d) Imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
(e) Trasferire forzatamente bambini del gruppo in un altro gruppo.
Il trattato stabilisce che, qualora anche solo uno dei punti venga individuato nell’azione di uno Stato, tanto basta per definirlo “colpevole di genocidio”.
Oggi, dopo mesi di reporting, analisi, geolocalizzazioni e indagini internazionali delle più autorevoli organizzazioni indipendenti, sappiamo che Israele ha violato tutti e 5 i punti. Le violazioni inoltre non hanno riguardato un lasso temporale preciso e limitato. Anzi, per i punti a,b,c, d, e le violazioni sono tuttora incessanti e ripetute. In InsideOver abbiamo deciso di rispondere ai punti della carta UN sul genocidio per capire se, davvero, ci possano essere i presupposti per utilizzare la parola genocidio.
(a) Uccidere membri del gruppo
La crisi a Gaza assume contorni sempre più drammatici, con una violenza che colpisce in maniera sproporzionata la popolazione civile e in particolare i bambini. Secondo Defense for Children International – Palestine (DCIP), un bambino palestinese viene ucciso ogni 15 minuti a causa delle operazioni militari israeliane. Questo dato scioccante si aggiunge alle oltre 150.000 vittime tra morti e feriti registrate dal 7 ottobre, numero che rappresenta circa l’8% della popolazione di Gaza. Il 70% delle vittime totali sono donne e bambini, una realtà che sottolinea la vulnerabilità di coloro che dovrebbero essere protetti dalle norme internazionali.
Attacchi devastanti come quello a Beit Lahiya di pochi giorni fa, che ha causato in un solo giorno 93 morti, dimostrano il costo umano delle operazioni militari in una delle aree più densamente popolate al mondo. Gaza vive sotto assedio, senza possibilità di fuga, mentre l’accesso a cure mediche, cibo e acqua è gravemente compromesso.
(b) Provocare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;
Le immagini satellitari pubblicate da NDTV rivelano la portata della distruzione fisica di Gaza. Migliaia di edifici ridotti in macerie. Secondo un’agenzia delle Nazioni Unite, ci vorranno almeno 15 anni per rimuovere le rovine e avviare una ricostruzione adeguata. Un secondo report UN afferma che allo stato attuale e sotto i continui blocchi di Israele, la ricostruzione di Gaza potrebbe durare oltre 350 anni. Inoltre, oltre l’80% dell’intero territorio di Gaza è stato danneggiato o distrutto dall’aggressione israeliana. La devastazione fisica è accompagnata da un grave trauma psicologico, con l’80% dei bambini che soffre di depressione. Un dato che testimonia la difficoltà di crescere in un ambiente segnato dalla violenza e dalla paura costante.
I blocchi imposti da Israele, da oltre 15 anni, hanno aggravato ulteriormente la situazione, limitando l’accesso a risorse essenziali e impedendo la ricostruzione delle infrastrutture. Non solo le scuole e gli ospedali sono stati distrutti, ma l’intero sistema economico e sociale è stato reso a zero, rendendo la vita quotidiana un inferno.
Negli ultimi anni la comunità internazionale, pur riconoscendo la gravità della crisi, non è mai riuscita a intervenire in modo adeguato, lasciando Gaza intrappolata in un ciclo di sofferenza senza fine. Anzi, diversi Stati occidentali, negli anni e tutt’ora, favoriscono e appoggiano le azioni di Israele fornendo assistenza militare e politica. In un contesto di isolamento e di violenza incessante, la speranza di un futuro migliore sembra sempre più lontana.
(c) Sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica in tutto o in parte;
Nel 2022, Israele ha impedito a migliaia di palestinesi di lasciare Gaza per ricevere trattamenti medici, creando una grave crisi sanitaria con un numero crescente di persone che non riescono ad accedere a cure salvavita. Oltre alla crisi sanitaria, la scarsità d’acqua è una delle problematiche più gravi, con le famiglie che sopravvivono con appena tre litri d’acqua a settimana, insufficienti per le necessità quotidiane di base. In questo articolo InsideOver ha geolocalizzato il bombardamento, da parte di Israele, di una delle principali aziende che producevano depuratori di acqua in Gaza. Azione che ha avuto un impatto devastante su migliaia di persone. Ricordiamo che il 97% dell’acqua presente in Gaza non è potabile.
La crisi alimentare è tra i primi fattori di morte per i palestinesi intrappolati nella Striscia. Fin dal 7 ottobre 2023, oltre l’83% degli aiuti umanitari non è riuscito a raggiungere la popolazione di Gaza, lasciando milioni di persone in condizioni di fame e malnutrizione, soprattutto tra i bambini. Uno studio della Brown University ha stimato che i morti per fame in Gaza, in un anno di guerra, sarebbero oltre 60 mila.
Parallelamente, la detenzione di minori e uomini palestinesi è una costante violazione dei diritti umani, con oltre 700 bambini arrestati ogni anno senza accuse né un processo giusto, sottoposti a condizioni di detenzione inumane e torture psicologiche.
(d) Imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
Da quando l’aggressione militare israeliana è iniziata il 7 ottobre 2023, tutte le donne nella Striscia di Gaza hanno dovuto affrontare molteplici gravi violazioni dei loro diritti di civili. Lo racconta in un report Il centro palestinese per i diritti umani (PCHR).
Questo rapporto fa luce sulle misure israeliane volte a prevenire le nascite. Il documento si concentra sopratutto sulla mancanza di protezione dagli attacchi militari israeliani, ai servizi sanitari scadenti, all’accesso limitato a cibo adeguato e alle terribili condizioni di vita che aumentano i rischi di aborto durante la gravidanza.
Negli ultimi anni le violenze di Israele hanno fatto impennare il numero di aborti tra le donne incinte e i nati morti.
Come evidenzia il documento, secondo il Ministero della Salute a Gaza e il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione nel territorio palestinese occupato (oPt), ci sono circa 50.000 donne incinte in rifugi di fortuna e senza accesso a cibo adeguato, acqua sicura e assistenza sanitaria.
Ogni giorno in Gaza partoriscono 180 donne, in un territoro in cui la sanità è collassata al 90%.
Un esempio che ci racconta il come Israele abbia agito per interrompere nuove nascite nella striscia di Gaza lo troviamo nel racconto di Ruwaida Waleed al-Nazli. L’esperienza personale è presa dal rapporto “Misure israeliane destinate a prevenire le nascite all’interno della Striscia di Gaza” del Palestinian Center for Human Rights
“Dopo essere stata esposta al fosforo bianco sparato dall’IDF a al-Wehdah a Gaza, ho sofferto di grave soffocamento. Ero incinta di 8 mesi. Sono fuggita alla scuola di preparazione al parto a al-Remal e dopo due settimane sono andata in una clinica per controllare lo stato di salute del mio bambino. Il dottore mi ha detto che il bambino non si muoveva, era morto. Ero scioccata e all’inizio non volevo crederci perché sapevo di essere incinta di 9 mesi. Potevo sentire il bambino muoversi ogni giorno.
Ho fatto un altro controllo con un altro medico lo stesso giorno. Mi ha confermato quello che aveva detto il primo medico: “hai perso il tuo bambino”. Mi ha chiesto se fossi stata esposta al fosforo bianco e ho detto di sì. Mi ha detto che, con ogni probabilità, era la ragione dietro il mio aborto spontaneo, poiché molte donne come me hanno perso i loro bambini per lo stesso motivo. C’era una donna accanto a me che aveva perso il suo bambino nelle stesse circostanze”.
(e) Trasferire forzatamente bambini del gruppo a un altro gruppo.
Secondo un report dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, l’esercito israeliano ha trasferito forzatamente bambini palestinesi fuori dalla Striscia di Gaza. Ancora oggi il destino di questi bambini rimane sconosciuto.
Molti genitori hanno perso i contatti con i loro figli. Le organizzazioni internazionali hanno chiesto a Israele di rivelare la posizione di questi bambini.
Con la guerra in Gaza che è entrata nel suo secondo anno, la potenza di fuoco di Israele non sembra diminuire. Un recente rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato a settembre 2024, ha rilevato che le azioni di Israele a Gaza sono coerenti con pratiche genocidarie.
L’International Crime Courte si è pronunciata a gennaio 2024 dopo che il 29 dicembre 2023 la Repubblica del Sudafrica aveva depositato presso la Cancelleria della Corte un ricorso di procedimento contro lo Stato di Israele in merito a presunte violazioni nella Striscia di Gaza. Il ricorso del Sudafrica ha riguardato gli obblighi previsti dalla Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. A gennaio del 2024 la stessa Corte ha evidenziato che Israele ha violato e continua a violare i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio, in particolare gli obblighi previsti dall’articolo I, II e agli articoli III (a), III (b), III (c), III (d), III (e), IV, V e VI.
Nonostante ad oggi le investigazioni per le accuse di genocidio rispetto alle operazioni di Israele nella Striscia di Gaza siano ancora in fase di dibettimento, sappiamo che le evidenze che legano Israele all’utilizzo di metodi genocidiari sono reali, corpose, evidenti e inconfutabili.
Questa crisi non è solo una tragedia per Gaza, ma un banco di prova per i principi di giustizia, dignità umana e responsabilità collettiva che il mondo afferma di sostenere. Quando Israele nel 1949 ha fatto ingresso nelle Nazioni Unite, due anni prima della ratifica della carta UN sul genocidio, sapeva che per essere accusati di genocidio bastava violare solo un punto dell’articolo II. Oggi sappiamo che ne ha violati almeno 5.
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Ma uno dei tanti, troppi elementi che mancano nella riflessione di Liliana Segre è quello che sta succedendo nei Territori Occupati, in maniera illegale, hanno decretato le Nazioni Unite, da Israele, e dove lo Stato israeliano appoggia e aiuta i “coloni” nelle violenze quotidiane contro i palestinesi, imponendo fra l’altro due legislazioni, una delle quali consente ingiustizie come quelle denunciate da questo articolo de L’Indipendente, che ringraziamo.
«Mio figlio è in carcere da due anni e mezzo» dice Hanan all’Indipendente, la foto di un giovane sorridente sulla trentina impressa nella gigantografia che tiene stretta. Vuole raccontare Hanan, negli occhi si legge la paura per quel figlio che non sente ormai da più di un anno. «La situazione in prigione è molto brutta adesso» dice. «Non sappiamo più niente, perché non abbiamo più possibilità di comunicare con loro, in nessun modo. Nessuna istituzione, croce rossa o associazione dei diritti umani, nessun avvocato li può raggiungere per dirci come stanno. Siamo molto preoccupate per i nostri figli.» E aggiunge. «Spero che la mia voce raggiunga il mondo intero, e che qualcuno ci aiuti».
Sono circa un’ottantina le donne, le madri, le sorelle che si sono riunite a Nablus, lunedì 25 novembre, in solidarietà con le quasi cento donne detenute, contro il genocidio in corso a Gaza e per chiedere la liberazione dei loro familiari, nelle carceri israeliane da mesi o anni ma di cui dal 7 ottobre non hanno più notizie. “Vogliamo vivere in un paese ibero! Fuori le forze di occupazione! Bruciano Gaza con le bombe al fosforo, e domani tocca a noi” gridano in coro. E ancora “Noi non ci stancheremo, loro sono gli occupanti e i criminali. Uccidono i bambini della Palestina, uomini e donne insorgono contro questo”. Si ritrovano in una delle piazze principali della città, fanno cori, interventi, i cartelli con le immagini dei loro cari imprigionati stretti tra le mani. Chiedono la fine del genocidio e della guerra a Gaza, ricordano i morti, le violenze, e le 94 donne che soffrono nelle prigioni israeliane insieme ai 12mila uomini ad oggi rinchiusi.
Sono tante, troppe le storie. Tanta la paura e la forza di quelle famiglie che nonostante i rischi di arresto e detenzione continuano a scendere in piazza, a volte settimanalmente, per chiedere la liberazione dei loro cari e pretendere notizie. Come a Tulkarem, dove ogni martedì decine di persone si ritrovano fuori alla sede della croce rossa internazionale nella speranza che la loro voce venga ascoltata anche al di fuori del paese. Una banda di ragazzini armati di tamburi e strumenti musicali dà il ritmo ai cori, mentre famigliari e rappresentati delle associazioni dei diritti umani locali e in sostegno ai prigionieri politici si passano il microfono. “Con l’anima e con il sangue, difenderemo i nostri prigionieri! Alza la tua voce per coloro che hanno sacrificato la loro libertà” gridano insieme.
«Le condizioni nelle carceri dal 7 ottobre sono completamente diverse. Il numero di prigionieri è più che raddoppiato», dice Ibrahim Nemer, uno dei rappresentanti del Palestinian Prisoners Club di Tulkarem all’Indipendente. «Ci sono più di 12.00 prigionieri politici nelle carceri ora, mentre prima del 7 di ottobre erano 5000. Anche il numero delle detenzioni amministrative è aumentato enormemente. Ci sono quasi 3400 persone in detenzione amministrativa, mentre prima erano 1200». Comunque tantissimi, aggiunge sottovoce. La detenzione amministrativa prevede che una persona sospettata sia arrestata e tenuta in prigione potenzialmente a tempo indefinito, senza che le siano comunicate le ragioni dell’arresto e senza che le autorità israeliane abbiano l’obbligo di presentare prove a suo carico. Quindi senza nessuna possibilità di difesa.
«Mio figlio Samir è in prigione da otto mesi in detenzione amministrativa» testimonia una donna, la foto del giovane tra le braccia. «Ogni volta che finisce il periodo di detenzione glielo rinnovano. L’amministrazione israeliana rifiuta il permesso all’avvocato e a chiunque altro di visitarlo. Abbiamo notizie sue solo grazie ai prigionieri della stessa prigione che liberano». Si stringe lo scialle, forse per il freddo intenso, forse per la tristezza. «Mio figlio è malato, e non ha nessuna cura. Non gli danno le medicine. Non mandano le persone a curarsi». «Non ci sono più le condizioni umane di vita nelle prigioni. Ogni cosa che il movimento dei prigionieri aveva conquistato, è stata tolta» continua Ibrahim. «TV, libri, non ci sono più visite per i parenti. Non danno abbastanza cibo, né acqua… La maggior parte dei prigionieri ha perso decine di chili.» I prigionieri sono costretti a tenere gli stessi vestiti per settimane, e nonostante il freddo non gli danno le coperte necessarie. Perfino lo shampoo ed il sapone non vengono forniti.
«E’ tortura. Non ci sono altri modi di chiamarla». La vendetta dello stato di Israele nelle sue galere non si ferma da 13 mesi. «La maggior parte dei prigionieri ha la scabbia. Prima andavano all’aria, fuori dalle celle, due ore al giorno, adesso nessuna ora di aria è concessa nelle maggior parte delle carceri. Ovviamente, questo è contrario ai diritti umani… e a qualsiasi dichiarazione sui diritti dei prigionieri.» E poi c’è la tematica di come vengono classificati: la Cisgiordania è di fatto occupata dall’esercito israeliano dal 1967. Questo farebbe dei suoi detenuti dei prigionieri di guerra, o prigionieri politici. «Invece Israele non riconosce questo status, ma li considera prigionieri comuni, delinquenti. Se li considerasse prigionieri politici, o prigionieri di guerra, li dovrebbe trattare diversamente in accordo con il diritto internazionale».
«I militari invadono sempre le celle dove sono detenuti coi cani, li picchiano. Molti prigionieri sono stati uccisi in prigione, il numero è aumentato molto dal 7 di ottobre, molti sono i morti a causa delle torture e per l’assenza di cure mediche. Non ci sono le condizioni fondamentali per la vita… così che i prigionieri devono solo pensare a come sopravvivere…» Secondo il Palestinian Prisoner’s Society, sono almeno quaranta i detenuti morti in custodia israeliana dal 7 di ottobre. Ma potrebbero essere molti di più. Almeno 25 i corpi che non sono ancora stati restituiti alle famiglie.
«Siamo tornati al sistema-prigione di centinaia di anni fa. Sappiamo che molte persone a livello internazionale sono con noi, ma questo non è abbastanza. Perché tutti i governi stanno supportando Israele con armi, soldi, e anche con i soldati. Bisogna mettere più pressione sui governi per far cessare gli aiuti e il supporto a Israele e liberare tutti i prigionieri politici detenuti».
Ha due figli in prigione, Ibrahim, e un fratello. Un figlio con una sentenza di un anno; uno di tre anni. E il fratello con una condanna a 21 anni di carcere.
«Noi siamo come tutti, yani, come tutte le famiglie palestinesi… ma le difficili condizioni che i prigionieri stanno soffrendo, fanno preoccupare le famiglie sulla vita stessa dei loro cari in carcere. Il problema non è solo che sono detenuti e il tempo che bisogna aspettare affinché vengano rilasciati, ma oggi ogni giorno temiamo per le loro vite».
[di Moira Armagi]
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In ultimo, questo post, molto emotivo e violento nei toni, di Giuseppe Salamone su Instagram:
“Ciò a cui stiamo assistendo potrebbe essere uno dei crimini internazionali più gravi”.
Queste sono le parole del Segretario Generale dell’ONU Guterres. Sarebbe bene che chi disquisisce sui giornali puntando il ditino e arrogandosi la presunzione di dare lezioni aprisse le orecchie e soprattutto il cuore.
Ha continuato così: “La situazione a Gaza è spaventosa e apocalittica. La catastrofe di Gaza non è altro che un crollo totale della nostra umanità comune. Molti perdono gli arti e subiscono operazioni chirurgiche persino senza anestesia.
A Gaza c’è il numero più alto di bambini amputati pro capite in qualsiasi parte del mondo, molti dei quali hanno perso arti e sono sottoposti a interventi chirurgici senza nemmeno anestesia”.
E qui non solo abbiamo un governo totalmente complice, ma mentre vediamo tutta questa disumanità dobbiamo anche sopportare “professori” da giornali e da talk-show che ci dicono che israele si sta difendendo o politici come Salvini che difendono criminali di guerra come Netanyahu.
Vergognatevi.
Dovrà arrivare il giorno del giudizio anche per voi!
§§§
IBAN: IT79N0 200805319000400690898
BIC/SWIFT: UNCRITM1E35
ATTENZIONE:
L’IBAN INDICATO NELLA FOTO A DESTRA E’ OBSOLETO.
QUELLO GIUSTO E’:
Yaalon, ex ministro della difesa israeliano ha sdoganato la parola “genocidio” a proposito della condotta del Governo Netaniahu. Lo scrive persino “Repubblica”.
qualunque definizione umana, anche quella che potrebbe sembrare la peggiore in assoluto , quella che riempie la bocca di velenosa soddisfazione per “avergliela cantata chiara”, è riduttiva e insufficiente, di fronte all’azione diretta e senza umani limiti del demonio in persona, direttamente vomitato dall’inferno, l’hostis humani generis omicida fin dal principio, e se potesse, anche deicida.
il sito e’ inutilizzabile…quando ci spostiamo?
ma no, sui miei schermi appare tutto normale…sia pc che cell. ha provato su browser diversi? comunque c’è un webmaster che ci sta mettendo le mani.
Solgenijtsin in “Arcipelago Gulag” afferma che il comunismo, che potrei definire “il più perfetto dei totalitarismi”, ha ucciso nell’ex Unione Sovietica qualcosa come 60 – 70 milioni di persone. Se guardiamo ai numeri, alla pervasività dell’ideologia ed insieme alla esportabilità della stessa -penso sia agli Stati dell’est europa nel secondo dopoguerra oltrechè alla peculiarietà della tragedia cambogiana- credo che si possa affermare che esso è stato la peggiore tragedia del XX secolo, eppure a pochi piace ricordarlo. Perchè? Perchè evidentemente molti ritengono più opportuno offrire risposte che cercare la verità senza pregiudizi. Detto questo risulta particolarmente pericoloso trasformare la Storia, meglio una particolare lettura della stessa in diritto cogente. Anche questa è una via per svolgere processi alle opinioni ovvero per restringere ancor di più il recinto di libertà di cui, ad oggi, ancora godiamo.
il comunismo è stato la peggiore tragedia del XX secolo, eppure a pochi piace ricordarlo. Perchè? La risposta e’ contenuta nel libro “due secoli insieme” dello stesso autore citato sopra: perche’ i promotori del comunismo non erano russi, odiavano i russi, odiavano i cristiani…chi erano?
Ora abbiamo anche… “esperti in genocidi”!…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/
L’articolo sul corriere rafforza la convinzione sul doppiopesismo dei ” fratelli maggiori “.
Suggerisco a tutti la lettura di un libro interessantissimo:
“L’industria dell’olocausto” scritto da un professore della Columbia University di religione ebraica e di nome Norman Finkelstein.
Potrei consigliare anche la lettura di un altro libro: “L’invenzione del popolo ebraico” di Shlomo Sand, ebreo e professore all’Università di Tel Aviv.
E chi se lo fosse perso: “Pasque di sangue” scritto da Ariel Toaff.
Non tutti gli ebrei sono disonesti e malvagi! Ce ne sono anche di ONESTI e rispettabili.
Liliana Segre, con tutto il rispetto, è un altro personaggio da demitizzare.
Come è “amorevole” quel Dio degli eserciti accolto dal Cristianesimo: “Uccidi chiunque abbia una religione diversa dalla tua!” (Deut. 17,2-7)… e via genocidando.
Accolto con opportune modifiche.
43] Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico;
[44] ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori,
[45] perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
(Mt5, 43-45)
O si accoglie o si modifica: non c’è alternativa.
Se si modifica vuol dir che non si accoglie.
Per Adriana. Con una battuta: “Accolto si e no”. Se il “Dio degli eserciti” è rimasto, la venuta del Cristo ha cambiato, rectius, ha fondato il cristianesimo, che certo riconosce anche quel versetto del Deuteronomio il quale però sta insieme con altri in cui “il fondatore” ha chiesto di perdonare “settanta volte sette”.
A Stilum e a Davide,
per quanto concerne le frasi che delineerebbero l’atteggiamento di Gesù riportato nei Vangeli si può dire che – al minimo- sono alquanto contradditorie, visto che implicano anche la volontà di non mutare di una iota quanto stabilito dalla Legge e dai Profeti. Si pensi al suo ordine di vendere borsa e mantello per comprare spade e l’immediato: “Basta” appena gli dicono che ne hanno comprato una (ciascuno): il che può esser logicamente tradotto con: “E’ sufficiente”, piuttosto che con un assurdo: “Non le voglio più vedere. Buttatela via.”…ecc…ecc… Tutto questione di interpretazione.