L’Architettura in Verticale e l’Alienazione dell’Umano. Aurelio Porfiri.

8 Maggio 2024 Pubblicato da 13 Commenti

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo articolo pubblicato dal maestro Aurelio Porfiri sul suo canale, che vi invitiamo a vistare. Buona lettura e condivisione.

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Da pochi giorni sono tornato da Hong Kong, dove ho vissuto per più di un anno. È stata certamente una esperienza molto interessante e posso dire di aver imparato tante cose belle e nuove.

Se mi si chiedesse di proporre una caratteristica che penso rilevante su Hong Kong, penso che dovrei parlare dei grattacieli. Essi in effetti rappresentano il panorama della città, la skyline, nel modo più efficace. Ma dovremmo prenderli ad esempio?

Non c’è dubbio che questa architettura che si slancia verso l’alto ha un fascino molto particolare, la possiamo vedere come un trionfo della tecnologia applicata all’architettura. Il grande architetto americano Frank Lloyd Wright diceva: “Il grattacielo, all’ora del crepuscolo, è una scintillante verticalità, un velo sottilissimo, un sipario luminoso teso contro il cielo oscuro per abbagliare, svagare e stupire. Gli interni illuminati emanano un senso di vita e di prosperità. Di notte, la città non solo appare viva; vive realmente. Ma la sua vita ha la consistenza dell’illusione. Visto di notte, vuoto di reale significato, il mostruoso agglomerato presenta infine casuali bellezze di contorni, e torrenti di luce riflessa e rifratta. Le strade divengono prospettive ritmiche di linee punteggiate di luci”. Certo si può comprendere questo fascino emanato dai grattacieli, e da edifici consimili, ma detto questo non possiamo nascondere il fatto che essi siano anche il simbolo di una grande alienazione dell’umano.

Mi viene in mente la storia della torre di Babele, il racconto che troviamo in Genesi 11, 1-9: “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.  Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”. È un racconto molto significativo: l’orgoglio degli uomini che sembra voler sfidare il cielo porta a non comprendersi più. E in effetti se provate ad abitare in edifici simili, e io l’ho fatto per molti anni, vi rendete conto di una cosa molto particolare: si vive come atomi isolati, senza contatto con gli altri, questi luoghi non sono fatti per unire ma per separare e l’uomo rimane in preda delle sue paure senza aver il conforto della socializzazione che molto allevia la fatica del vivere.

Noi Italiani, di solito viviamo in un condominio. Anche qui si può riconoscere come spesso lo slanciarsi in altezza porta ad uno sfilacciarsi della socializzazione quando in realtà la parola stessa vorrebbe dire “dominio comune”, implicherebbe una complicità che invece è vanificata dagli ambienti rissosi per antonomasia, le riunioni di condominio.

Credo si dovrebbe riflettere se il tipo di architettura che troviamo in tante città moderne abbia veramente elevato l’umano o piuttosto sollevato l’uomo fino al punto di bruciarsi le ali come Icaro.

low angle photography of high rise building
Photo by Martin Kozon on Unsplash

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13 commenti

  • R.S. ha detto:

    L’Ascensione avviene in pienezza: anima e corpo.

    Dopo quaranta giorni trascorsi dal momento dalla resurrezione per Gesù è giunto il tempo di salire al cielo: possiamo immaginare la delicatezza con cui ha preparato il distacco dalla madre.

    Teresa Neumann descrive gli avvenimenti in più visioni.
    La prima è al mattino presto: la madre, gli apostoli e altri uomini e donne sono insieme in una grande casa in città, anche se in stanze diverse. Sono accese le lampade, è l’ora della colazione. Gesù appare all’improvviso, a porte chiuse. Parlano con lui e gli offrono da mangiare.

    Nella seconda visione escono di casa e vanno in direzione della casa di Lazzaro, verso Betania. Non giungono fin là, perché prima svoltano a sinistra, salendo su un’altura. Sono tutti scalzi, Gesù indossa una veste bianca, sfolgorante. Discorre e cammina normalmente, non è librato in aria.

    Nella terza visione il gruppo si trova in cima al monte degli Ulivi. Gesù si rivolge ancora agli apostoli e poi dedica un ultimo sguardo affettuoso alla madre. Solleva le braccia e si alza da terra in direzione dell’oriente. In quel momento il sole stava sorgendo alle sue spalle.
    All’improvviso appaiono due figure luminose in bianche vesti che annunciano parole liete e poi scompaiono.
    Tra i presenti ci sono la Maddalena, Lazzaro, la moglie di Pilato e il milite romano che aveva ferito Gesù al costato.

    Gesù sale al cielo recando ancora sul corpo le piaghe sofferte durante la passione.

    Il messaggio è molto semplice: non state a guardare il cielo. Agite come vi è stato detto. Gesù verrà allo stesso modo in cui l’avete visto salire in cielo. La terra l’ha perso, ma la terra lo riaccoglierà. E’ una promessa.
    Allora tornarono in città, nella luce del mattino, con la missione ricevuta di evangelizzare le genti nel nome di Cristo fino agli estremi confini della terra. “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”.

  • Enrico Nippo ha detto:

    “Grattacielo”: una parola che potrebbe avere un significato anche mistico: un elevarsi sempre più in alto, verso il Trascendente.

    Quel “grattare” fa pensare delle mani dalle unghie affilate che vogliono strappare la volta celeste affinché possa vedersi cosa c’è oltre.

    E chissà che il motivo inconscio sia proprio questo, e che sopravanza di molto quello dell’esigenza logistica.

    L’afflato verso l’Alto è insopprimibile anche nell’uomo ipermoderno, che però ne è inconsapevole.

    • Balqis ha detto:

      Caro Nippo Matto, vedere nei grattacieli un significato mistico testimonia il suo personalissimo, originale ed interessante misticismo, che si nutre di occidente ed oriente cercandone una possibile intersezione nella prassi quotidiana.
      La realtà dei grattaceli, però, è molto più prosaica e consiste nel ricavare il massimo profitto dal minimo capitale di partenza: compro un terreno a 10, ricavo 100 appartamenti e ne vendo ciascuno a 10.
      Per questo motivo l’opera di un artista concettuale, nei tanto vituperati anni ’70, consistette nel fare una colletta per comprare un lotto di terreno a Manhattan per coltivarlo a grano, fotografando tutta la storia, che aveva coinvolto molte persone, compresi alcuni passanti ai quali venivano forniti dei dossier sui prezzi dei terreni e sui profitti degli speculatori.
      Questa moltiplicazione di piani e profitti sovrapposti è stata resa possibile dall’avanzamento della tecnologia dei materiali e dell’acciaio in particolare (che permette al grattacielo di oscillare e di non spezzarsi). Ne deriva quell’orgoglio ingegneristico che ha portato a considerare il grattacielo un simbolo fallico, dando per scontato che l’ingegno umano sia caratteristica tipicamente maschile.
      Pur se analogamente ascrivibile alla categoria delle sfide (del superamento di acquisizioni precedenti), è diverso il caso delle cattedrali gotiche, dove risulta difficile escludere che i geniali inventori dell’arco rampante, che consente di “scaricare” le spinte dovute al peso della pietra (intuizione alla quale i pur avanzatissimi costruttori di acquedotti romani non erano arrivati), non fossero personalmente coinvolti nella stessa mistica “scalata al cielo” dei fruitori di quegli spazi sacri.
      Cosa voglio dire? Forse che non ci può essere slancio mistico senza intenzionalità.

  • stilumcuriale emerito ha detto:

    Caro maestro, lei crede proprio che quando in tempi moderni si iniziò a costruire grattacieli i tecnici pensassero tutte le fantastiche ragioni di cui scrive lei? Non ha mai pensato che ci sono ragioni molto più pratiche e per certi versi più umane per costruire in altezza?. Immagini quanti appartamenti ci sono nei grattacieli di Hong Kong, moltiplichi quel numero per 150 o 200 e otterrà il numero di metri quadri di terreno che sarebbero stati invasi di villette isolate anzichè essere adibiti ad altri usi più convenienti all’uomo . Il fatto che nei condomini non si socializzi non dipende certo dalla loro altezza. Non si socializza nemmeno tra vicini in villette adiacenti o in condominietti di 8 appartamenti.
    La coscienza e il cuore umano non hanno niente a che fare con i mattoni, il cemento armato e l’altezza dei palazzi. Ci mancherebbe!

    • Davide Scarano ha detto:

      Mi dispiace contraddirla caro Emerito ma ciascun umano, chi più, chi meno, sente l’influenza dell’ambiente che lo circonda. La Bellezza, che è anche armonia, infonde pace e fiducia nel prossimo, e, al contrario, il buio, specie in una città sconosciuta, aumenta la paura dell’altro. In Italia è noto il caso delle Vele di Scampia: quando una struttura diviene “troppo grande” allora emergono sentimenti di anomia e di rifiuto verso la comunità.
      Per il Sig. Nippo, credo che nei grattacieli l’Uomo intenda celebrare soprattutto il proprio orgoglio e la propria potenza economica, basti pensare agli Stati che partecipano alla gara per l’edificio più alto: ricordo Stati Uniti, Monarchie fondate sul petrolio ed, appunto, estremo oriente. Credo che la differenza tra lo “ieri” -penso ad esempio alle torri di Bologna e di San Gimignano- e l’oggi, sia nella “ebbrezza tecnologica” che pervade l’uomo contemporaneo, la quale, a mio parere, è figlia dell’erosione dei limiti sociali, giuridici, psicologici, economici ed estetici.

      • Fey ha detto:

        Perfetta sintesi dell’argomento!

      • stilumcuriale emerito ha detto:

        Purtroppo quando si parla dello sviluppo edilizio e dei suoi innegabili risvolti estetici, non sempre eccellenti, ed umani, talvolta rivoltanti, non si tiene conto dello sviluppo demografico che lo ha causato e sostenuto. Cento anni fa la popolazione mondiale era valutata intorno ai due miliardi e mezzo di persone; oggi siamo nell’ordine di grandezza degli otto miliardi. Dove la possiamo mettere tutta questa gente?
        Non la possiamo lasciare per strada ma non possiamo nemmeno dare ad ogni famiglia una abitazione costituita da una casetta singola di un piano e un po’ di spazio intorno. Quella dei palazzi multipiano che si sviluppano più in altezza che in superficie mi sembra l’unica soluzione possibile, anche se a molti non piace.
        I paragoni con l’antichità e i richiami biblici in questo caso mi sembrano veramente fuori luogo. Ottimo avere sempre la mente a Dio, ma i piedi per terra su certe questioni ci vogliono. Saluti.

      • stilumcuriale emerito ha detto:

        Non capisco perchè i tennisti possano gareggiare su chi vince più set, i ciclisti su chi vince più gare, gli sciatori su chi impiega meno tempo a fare una discesa, ma i tecnici non possano gareggiare su chi progetta e costruisce l’edificio più alto e magari antisismico. Valli a capì sti uomini.

        • Davide Scarano ha detto:

          La Tecnica non è mai solo tecnica..potremmo dire che è “un abito a cui viene chiesto sempre più spesso di adattarsi”. Ovviamente non sarò io a impedire ai miliardari arabi, asiatici o statunitensi di sfidarsi “a chi lo fa più lungo”. Osservo però che, grazie a Dio, in Italia siamo portatori di una civiltà e di una storia che non necessita delle dimensioni per impressionare, meglio per essere apprezzata.
          Quanto alla necessità di vivere in metropoli e/o in grattacieli, credo che sia comunque possibile trovare soluzioni alternative, probabilmente più lontane, spesso più economiche.

          • Balqis ha detto:

            Prevalentemente i grattacieli ospitano uffici.

          • stilumcuriale emerito ha detto:

            Che siano uffici o abitazioni non cambia nulla del problema degli spazi. Se un palazzo che occupa una superfice pari a 1000 mq ed è alto 30 piani venisse distribuito in un piano solo occuperebbe 30.000 mq di terreno altrimenti coltivabile, edificabile , utilizzabile per parchi pubblici, piazzali, parcheggi ecc.
            Suvvia, non fate finta di non capire!

      • Balqis ha detto:

        Riagganciandomi al mio commento precedente: non va dimenticato che anche le torri bolognesi erano frutto delle tecniche più avanzate dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda le fondazioni a pali, profonde fino a 10 metri, e l’uso della muratura “a sacco”, che si va alleggerendo in altezza diramandosi in due muri, la cui intercapedine è riempita di argilla.
        Né va dimenticato che, anche se oggi ci appaiono come espressione di una società più a misura d’uomo, le torri bolognesi, costruite all’epoca della lotta per le investiture filo-imperiali e filo-papali, venivano pur sempre utilizzate come strumento di offesa e/o di difesa e come simbolo di potere dalle diverse famiglie dominanti.

      • Balqis ha detto:

        Le Vele di Scampia e simili, sono figlie dell’Unité d’abitation progettate da Le Corbusier a Marsiglia a partire dall’idea di realizzare un edificio-città che contenesse anche negozi e servizi, creando quel senso di comunità che nella metropoli era andata perduta: una sorta di paese nella città.
        Come sappiamo non ha funzionato, e non solo perché il modello è stato utilizzato come soluzione al problema della casa, perdendo per strada l’idea di creare una comunità. Non ha funzionato perché l’idea di creare una comunità a partire da un’architettura si è rivelata illusoria.
        Il processo che ha portato alla costruzione dei centri storici italiani è stato inverso: è venuta prima la comunità e poi le architetture: gente spaventata che, col venir meno della sicurezza garantita dall’impero romano, lasciava il contado per rifugiarsi sulle sommità di colli, che poi avrebbe cinto di mura difensive (prima semplici palizzate di legno, poi costruzioni in muratura). Le comunità, dapprima unite dalla paura, si sono divenute tali costruendo collettivamente il proprio ambiente di vita. Anche laddove si era rifugiata presso il castello di un feudatario, in un mondo dominato dalla religione, la comunità ha espresso se stessa con la costruzione della cattedrale.

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