Un futuro verde livido. Benedetta De Vito.

17 Giugno 2023 Pubblicato da 1 Commento

 

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, la nostra Benedetta De Vito offre alla vostra attenzione queste considerazioni sul futuro che ci vorrebbero imbastire e che dobbiamo fare di tutto perché non ci venga scodellato. Buona lettura e diffusione.

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In un giorno stabilito della settimana, il bel cielo che Dio ci dona mi vede, con mio marito, sfrecciare sul mio bolide (si fa per dire) lungo una delle ampie vie consolari, in particolare quella che conduce a Preneste, antica città, bellissima, dove ho però ricordi tristi. Siamo lì, tra un semaforo e l’altro, mentre di qua e di là si diramano le vie secondarie e tutte trafficatissime quando, a un ampio incrocio, troviamo un blocco causato da uno scheletro nero di una macchina arrostita. Il puzzo  mi arriva forte nelle narici  e il fumo nero svolazza, sordido, denso, infernale, ghermendo l’aria trasparente che prova invano a fuggir via. Abbasso il finestrino: “Che cosa è successo?”, domando e il pizzardone con i baffi. “Na maghina elettrica ha preso foco”.

Filiamo via, la meta ci chiama, ma mi resta il ricordo di quella povera vettura abbrustolita simile a pane vecchio messo, annacquato a tornar fresco in forno, e lì dimenticato per colpa delle troppe cure quotidiane. La scenetta mi  è tornata in mente quando ho sentito dire da qualcuno che il governo nostro, nella persona di Maloni (dai, che sono quei musi lunghi, consentitemi di giocare un poco con i nomi!) ha incontrato un certo signore che, si racconta, sia il mago delle macchine elettriche e che porta un nome ben nascosto dal sogghigno del diavoliano e del quale vi regalo, appunto, la traduzione “Hell on Mosk” e se si considera che Mosca è la terza Roma, ebbene, non c’è margine per stender tra due rami l’amaca, e farsi un pisolino, piuttosto ci obbliga a star ben vigili, senza prender sonniferi. Il motivo, il seguente: il nostro eroe (la memoria mia vola a una foto che lo vedeva vestito alla diavola durante una festa privata di dubbio gusto) desidera produrre le auto elettriche che bruciano così, in morte improvvisa (anche le macchine elettriche sono vittime dei postumi del vax, poverine…), senza dar preavviso, proprio qui nel Belpaese, l’Italia che ebbe la gloriosa Fiat, con le sue macchine-mito come la Topolino o la Cinquecento.

Ora, taratataratà, ci pensa il proprietario del cinguettio (che in inglese, per chi non lo sapesse e io l’ho scoperto grazie a una scrittrice del mio cuore Lucy Maud Montgomery, ha un lieve senso di presa in giro…) a produrre le sue macchinine a scoppio nel vero senso della parola. E siccome il diavolo vuol far ben capire a questi tomi, tutti quanti, di non essere amico di nessuno, e figuriamoci se amico loro, per lo sbarco italiano del signore di Tesla (Tiè!) ha regalato una prima visione di quanto accadrà: a Treviso in un box è scoppiata una Renault elettrica e non era in carica! Box distrutto e inagibile la casa vicina. Inoltre tutto il quartiere è rimasto al buio. Ma che bel futuro “green” (cioè grim, ovvero tristo) ci aspetta! Vabbè, sarà domani. Per oggi vi lascio con un ricordo mio che non ho inserito nel mio “Cuoresardo” ma che ho letto, con gran gusto della platea durante la presentazione nella libreria Panisperna 220 dello scorso maggio. Peccato per chi non c’era (scherzo…).

Eccolo, pronti ai posti e via, con un ilare saluto: “Tutti noi, piccoli de Vito, occupavamo nella Peugeot amaranto  di mio padre il cantuccio riservatoci anche nella vita di casa. Tra il puzzo di acrilico e di plastica, si celebrava, dunque, lo spettacolo simbolico della gerarchia famigliare. Seduti accanto ai finestrini, come reucci sul trono, uno per parte: i gemelli. Adriano, che era venuto fuori per secondo, con la dignità di cartapesta del principe ereditario e primogenito, affacciava su quello di destra. Il sinistro, notoriamente  parte del diavolo, spettava a Gianluca che, neanche a farlo apposta, era mancino. Spalla contro spalla dei gemelli, i fratelli mediani. Sabina, in qualità di femmina, e non aggiungo altro, sedeva a sinistra, accanto a Gianluca; Marco cadetto ma non troppo, vicino  ad Adriano. In mezzo, appollaiata sul poggia-gomiti (inutile come certe sorprese che si trovano ancora oggi nelle uova di Pasqua) sedevo io.

Un giorno d’estate, mentre percorrevamo l’orientale sarda per raggiungere la messa delle undici di San Teodoro, un fumo nero, denso come petrolio, proveniente dal cofano davanti, prese a danzarci  in faccia. Spavaldo, si attorcigliava, ghignava il suo inferno e sveniva nell’aria fresca.

“Non è nulla”, disse mio padre. E continuò a guidare, incurante delle tante mani che si levavano tra i passanti, snobbando i loro occhi rotondi, le bocche a pozzo nero. Dall’alto del mio ridicolo trono, sicura del fatto di mio padre, guardavo con superiorità lo sgomento e l’affanno di tanti sconosciuti. Che caspita volevano tutti quanti, mica viaggiavamo su un elefante rosa… D’un tratto, la frenata. Rimbalzai contro il tettuccio, una capriola nel vuoto e poi atterrai  tra le braccia di mia madre. Mi ritrovai faccia a faccia con un cancamini spazzacamino con la faccia cotta alla brace, e tanti sentierini intagliati nel sughero. Guardava dentro l’abitacolo con certi occhiacci da Mangiafuoco e: “Ajò, dicca, li vuol farre arrosto?”. In un baleno, tutti fuori.  Senza più ordine e gerarchie.

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