Il Matto. Un Koan Cristiano: Non Sono più Io che Vivo, ma Cristo che Vive in Me…

30 Novembre 2022 Pubblicato da Lascia il tuo commento

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, il nostro Matto buddista ci introduce nel mondo affascinante dei koan, con una provocazione bellissima, usando una meravigliosa e potente espressione-affermazione di San Paolo. Buona lettura e discussione…

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UN KŌAN CRISTIANO

 

 

«Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me»

 

* * * * *

Nel Buddhismo Zen il kōan è un’affermazione o domanda paradossale per intendere o rispondere alla quale le limitate possibilità della logica e del ragionamento sono inutili. Il kōan (che nulla ha a che vedere con l’indovinello) richiede l’esperienza diretta, cioè ilmisurarsi corpo a corpo con esso. Il “parliamone” o lo “scriverne” hanno un’utilità indicativa che resta al di qua del superamento del kōan, o, meglio, della mente che con esso si cimenta.

 

Famoso kōan:

 

«Puoi produrre il suono di due mani che battono una contro l’altra. Ma qual è il suono di una mano sola?».

 

Scrive fascinosamente il monaco Hakuin Ekaku nell’Oradegama (La teiera lavorata a sbalzo):

 

«Se intraprendete lo studio di un kōan e vi ci dedicate senza interrompervi, scompariranno i vostri pensieri e svaniranno i bisogni dell’io. Un abisso privo di fondo vi si aprirà davanti e nessun appiglio sarà a portata della vostra mano e su nessun appoggio si potrà posare il vostro piede. La morte vi è di fronte mentre il vostro cuore è incendiato. Allora, improvvisamente sarete una sola cosa con il kōan e il corpo-mente si separerà. … Ciò è vedere la propria natura».

“Un abisso privo di fondo … nessun appiglio … nessun appoggio”: si possono comprendere lo sconcerto, il timore e la ritrosia di coloro che, invece, sentono di non poter fare a meno di un fondo, di un appiglio, di un appoggio, insomma di un costrutto mentale che occupi la mente.

Dice: «il corpo-mente si separerà». Da cosa? Dal suo abitudinario percepirsi quale agglomerato egoico di carne e pensiero, i due muri che precludono la vista della Luce, appunto il «vedere la propria natura», ossia il proprio essere, la propria identità essenziale incondizionata dal corpo e dal pensiero.

 

Insomma, il kōan e lì per scuotere dal suo torpore la mente logico-razionalistica, la mente dell’“aut aut”, cioè la mente duale, oggettivante,  relativa, e provocare ad essa una sorta di corto circuito che libera l’intuizione della Realtà assoluta grazie ad un irruzione della Luce, che si trova oltre ogni struttura psichica.

 

Al riguardo, vi sono due termini: jiriki: “capacità personale”, “auto-potere”, cioè l’impiego delle proprie forze; e tariki:  “forza dell’altro”, «altra potenza», cioè l’idea che l’individuo, essere corrotto dalla nascita, non possa con le sue sole forze raggiungere il Risveglio se non vi è una forza altra che venga in suo aiuto a sostenerlo e illuminarlo.

 

«Passerete da una dimensione di Jiriki – il potere del sé, l’aspetto attivo – in cui si ricava la forza dalla potenza personale, ad una dimensione di Tariki – il potere dell’altro, l’aspetto passivo –, in cui potrete contare su una forza superiore, rimettendovi alle potenze del cielo e alle forze della natura. Jiriki e Tariki sono due termini che non vanno contrapposti, poiché le pratiche di Jiriki hanno la potenzialità di risvegliarvi alle forze superiori di Tariki». (Hydeko Yamashita, Dan Sha Ri Riordina la tua vita).

 

Insomma:

 

«Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo che tutto dipende da Dio». (Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali).

 

«Gli dei aiutano quelli che si aiutano da soli» (Esopo, Ercole e il carrettiere).

 

Tanto per essere koanici: il “così O così” diventa “così E così”, ovvero non “testa O croce” bensì “testa E croce”, con ciò ecco insorgere la ragione e la logica; sennonché non c’è soltanto il porsi sulla rassicurante piattaforma della testa o della croce, bensì anche il porsi in equilibrio sul bordo della medaglia posta in verticale, anche queste restando solo parole senza l’esperienza diretta del kōan, accompagnata da una rigorosa disciplina del Raccoglimento Silente che “indirizza” verso l’Assoluto, dato che il Silenzio è l’Assoluto. Niuna parola o suono, perciò niuna conoscenza, potrebbero darsi senza il Silenzio. Il Silenzio è (l’) assoluto, le parole e i suoni sono il relativo.

 

«Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me»

Senza cimentarsi con esso “corpo a corpo” (come fece Francesco di Assisi con il Vangelo assumendolo alla lettera) non è possibile sciogliere questo kōan, e meno ancora darne una soddisfacente spiegazione teologica che, infine, non può “spiegare” niente. Anzi la trappola sta proprio nell’averlo “capito” e “speigato”. La domanda a cui non si può rispondere impiegando la logica e la ragione, è:

CHI dice ciò?

La domanda mette in risalto il limite del principio di non contraddizione, di cui si pretende l’infallibilità esclusiva, ignorando che il “così O così” può darsi nel relativo e non certo nell’Assoluto, cioè nel Silenzio che contempla tanto il “così O così” quanto il “così E così”.

 

Perciò, CHI è che parla?

– se è Cristo non è più Paolo,

– se è ancora Paolo non è ancora Cristo,

Paolo dice che ad essere vivo non è più lui ma Cristo.

Quindi CHI dice “non son più io” non è Paolo ma Cristo.

Ma  come fa un io che non è più  a dire “non sono più io”?

Come fa a dire “è Cristo che vive in me”, se il me non vive più?

Insomma, secondo il principio di non contraddizione, o sparisce Paolo o sparisce Cristo. Né vale tirare in ballo l’“alter Christus” perché se è “alter” non è Cristo in Sé.

Occorrrerebbe entrare nell’esperienza di Paolo/Cristo, dal di fuori essendo impossibile “capire” e quindi restando il credere. Sennonché credere ad un kōan è inutile.

Paolo/Cristo/: non-due E non-uno: anche questa, però, resta una nozione mentale e per di più impossibile da ammettere secondo il principio di non contraddizione.

Non è da escludere che le Beatitudini della povertà di spirito e della purezza di cuore siano, per dir così, il risultato del “corpo a corpo” con il kōan evangelico, cioè il  “vedere la propria natura” che è divina (per grazia), ove il vedere, che è un contemplare, trascolora nell’assimilazione (omoiosis theo) grazie al connubio Jiriki/Tariki.

Povertà = Purezza = Vuoto.

 

Beati i poveri = puri = vuoti di spirito,  perché di essi è il Regno dei cieli.

Beati i puri = poveri = vuoti di cuore, perché vedranno Dio.

 

Non troppo soprendente convergenza:

 

«Gli uomini hanno paura di abbandonare le loro menti, perché temono di precipitare nel vuoto senza potersi arrestare. Non sanno che il vuoto non è veramente vuoto, perché è il regno della Via autentica». (Huang-po, IX secolo).

 

Di cui si trova conferma in Giovanni della croce, Commento alla strofa 9 del Cantico Spituale:

 

«L’anima è come un vaso vuoto in attesa di essere riempito, come un affamato che desidera il cibo, come un infermo che sospira per la salute e come chi sta sospeso in aria e privo di un sostegno a cui appoggiarsi».

Si noti quel «chi sta sospeso in aria e privo di un sostegno a cui appoggiarsi» di Giovanni, che converge sul «nessun appiglio sarà a portata della vostra mano e su nessun appoggio si potrà posare il vostro piede» di Hakuin.

Prima di concludere, si propone un brano riguardante il filosofo giapponese Nishida Kitaro (1870-1945), autore di Uno studio sul bene, lasciandone la riflessione comparativa con quanto sopra a chi ha avuto la pazienza di giungere sin  qui.

 

«Nishida ribadisce “l’immersione nel fondo della coscienza stessa” e passa progressivamente dall’io dominatore che giudica il mondo fenomenico all’io ridimensionato dalla scoperta delle operazioni e dei limiti del linguaggio; dall’io disilluso circa la sua soggettività al vero io consapevole di sé come luogo di autoconsapevolezza della realtà. Per questo, come osserva Ueda Shizuteru, “in giapponese, egli dice ‘watashi ni’ (qualcosa è cosciente a me o in me) e non ‘watashi ga’ (io, come soggetto, sono cosciente)». Proprio perché “qualcosa è cosciente a me” o “in me”, l’io diventa specchio e lo specchio si configura non solo come una superficie che restituisce il medesimo diversamente declinato ma come luogo che va attraversato. Per compiere tale attraversamento fino in fondo non una sola soglia ma più soglie vanno attraversate: occorre portare il pensiero sul limite tra un universale e l’altro». (Letizia Coccia in gianfrancobertagni.it).

Da notare l’assonanza paolina:

«E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio (perciò vuoti grazie a Jiriki) la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria (di soglia in soglia), secondo l’azione dello Spirito del Signore (Tariki)».

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