Giornalista Perfetto per un Mondo Impresentabile. Enrico Mentana e il Consenso. Lavinia Marchetti.

12 Giugno 2025 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione questo post pubblicato su Facebook da Lavinia Marchetti, che ringraziamo di cuore. Buona lettura e diffusione.

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IL GIORNALISTA PERFETTO PER UN MONDO IMPRESENTABILE: ENRICO MENTANA E IL CONSENSO.
di Lavinia Marchetti
C’è un motivo per cui ho scelto Enrico Mentana come caso di studio. Non perché sia il peggiore, ma perché è il più rappresentativo.
Perché nel suo giornalismo si condensa un’intera sintassi dell’egemonia, per dirla con la scuola di Francoforte.
Mentana è lo specchio brillante, e dunque deformante, di un sistema mediatico che ha smesso di informare per iniziare a costruire consenso.
L’egemonia, oggi, non si annuncia né si proclama: si installa.
Non è una vera e propria censura, ma una selezione. Funziona come una specie di grammatica segreta che ti fa parlare la sua lingua mentre credi di scegliere la tua, la concretizzazione di una pensiero magico in atto. Così il frame diventa destino.
E Mentana, in questo sistema, non è il più servile, ma il più raffinato. Il più rappresentativo.
È lì che risiede il suo potere: nella perfetta simulazione della libertà, nella competenza a selezionare ciò che può esistere nello spazio della parola pubblica.
La domanda è: “lui ne è consapevole?”.
L’intellettuale che dirige opera una specie di sospensione dell’incredulità. Ci crede e non ci crede allo stesso tempo. Il concetto di sospensione dell’incredulità, che nasce in ambito estetico, viene qui trasposto alla politica e al giornalismo: come lo spettatore che decide di credere a una finzione cinematografica per goderne appieno, Mentana sembra stringere un patto ambiguo con la narrazione dominante.
È troppo intelligente per non sapere, ma abbastanza funzionale da accettare, forse anche con sincerità, il gioco della selezione, dell’evocazione, del frame costruito.
È questa ambiguità morale e cognitiva che lo rende il caso perfetto per mostrare la funzione sistemica del giornalismo italiano in tempo di guerra e genocidio.
Il caso Mentana è solo la punta dell’iceberg.
Dietro di lui si muove una macchina più vasta, fatta di testate, redazioni, agenzie stampa, interessi energetici e accordi politici. Eni, Israele, Meloni, i media mainstream: tutto si tiene.
Questo testo è un tentativo di mappare quel potere. Di mostrare, fotogramma per fotogramma, come l’informazione italiana sia diventata un’arma di distrazione e di consenso.
La figura di Mentana, celebrata per decenni come baluardo della “libertà di stampa” in Italia, merita oggi una riflessione radicale.
Perché ciò che si dispiega nel suo discorso pubblico non è semplicemente una linea editoriale: è un modello egemonico, nel senso pieno e gramsciano del termine. Non un’opinione tra le altre, ma il tentativo di costruire consenso attorno a un ordine mondiale dove Israele viene eretto a bastione occidentale, Gaza a zona d’eccezione e i crimini contro il popolo palestinese a effetto collaterale.
L’egemonia che non si vede: Gramsci nell’era della post-verità
Nel Quaderno 13, Gramsci definiva l’egemonia come “direzione intellettuale e morale” che il blocco storico dominante esercita attraverso la cultura e i media, prima ancora che con la forza.
In questa chiave, Mentana non è un semplice giornalista: è un funzionario dell’egemonia, un attore che produce senso, normalizza lo stato delle cose, rende dicibile e accettabile l’inaccettabile.
Non è un caso che nei primi giorni dopo il 7 ottobre 2023, mentre si contavano i morti del rave israeliano, Mentana abbia parlato di “crimine contro l’umanità” con una rapidità e una veemenza mai riservata, nei mesi successivi, ai 37.000 palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani.
La notizia dei “bambini decapitati”, mai confermata, è stata rilanciata da Mentana con toni drammatici: “Non vi mostriamo le immagini perché sono scioccanti”.
Il contenuto visivo, inesistente, veniva così convertito in verità emozionale.
Non c’è bisogno di mostrare ciò che si vuole far credere: basta evocarlo con lo statuto simbolico della tv.
I silenzi come strumento ideologico
La seconda strategia è la selettività narrativa. La strage di Gaza è stata narrata da Mentana come rumore di fondo.
Lo speciale su La7 del primo anniversario dell’attacco di Hamas, intitolato significativamente L’orrore di un anno, ha mostrato tre quarti d’ora di immagini del 7 ottobre senza quasi mai menzionare l’assedio, le distruzioni, i bambini palestinesi sepolti vivi sotto le macerie.
Questa operazione non è un errore. È una costruzione. È il volto nuovo della violenza simbolica (Bourdieu): ciò che non viene detto, in un contesto di monopolio del discorso, vale quanto ciò che viene mostrato. L’inquadratura è già gerarchia morale. Il montaggio televisivo è già geopolitica.
Il frame della democrazia ferita
Ancora più significativa è l’introduzione che Mentana fece all’intervista a Netanyahu trasmessa da La7 nell’ottobre 2023: “È giusto ascoltare anche la voce della democrazia ferita”. In quella frase si condensa tutto il potere mitopoietico del discorso giornalistico come apparato.
Israele viene innalzato al rango di soggetto sovrano della ferita, titolare legittimo del dolore, mentre Gaza è dissolta nel fuori campo simbolico, ridotta a rumore morale, priva di parola, di volto, di statuto. È così che opera la sintassi dell’egemonia: costruisce il dolore selezionabile e getta nell’irrappresentabilità l’eccesso dell’ingiustizia. Il frame si fa dispositivo pedagogico, che addestra il pubblico alla compassione selettiva e all’indifferenza strategica. Il risultato è una macchina affettiva di rimozione e normalizzazione che ricorda da vicino ciò che Adorno chiamava “barbarie della cultura”.
Reazioni, critiche e l’effetto di ritorno dell’egemonia
A questa gestione asimmetrica della realtà hanno risposto voci dissidenti. Mario Capanna, su l’Unità, ha parlato di “notizie tendenziosamente antipalestinesi e antiarabe”. Piero Sansonetti ha accusato Mentana di rilanciare bufale e di screditare chiunque ponesse una narrazione alternativa. Il sito Contropiano ha definito la sua trasmissione una “porcata” giornalistica. Ma l’aspetto più interessante è stato il dissenso che è emerso dal suo stesso pubblico. Commenti social, lettere aperte, centinaia di utenti che accusavano Mentana di “parzialità morale”, di “coprire i crimini israeliani”, di “far scomparire Gaza dalla scena del dolore”.
Ciò rivela che l’egemonia non è mai totale: genera crepe, scarti, contro-narrazioni. Eppure, il dispositivo resiste. Quando a Dogliani, nel maggio 2025, Mentana affermò che “quello che accade a Gaza è un crimine di guerra, ma non un genocidio”, mise in scena l’ultimo atto della sua strategia: riconoscere una minima parte della verità per salvare il frame dominante. Il frame in cui Israele è ancora il civilizzato, e i palestinesi ancora i sacrificabili.
La gerarchia morale del diritto: la CPI come banco di prova
Nel maggio 2025, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’arresto di Benjamin Netanyahu per crimini contro l’umanità. Mentana, nel suo editoriale serale, ha commentato: “Una decisione che certamente farà discutere. Ma non dimentichiamoci da dove è partito tutto: dal massacro del 7 ottobre”. È il paradigma perfetto del rovesciamento narrativo: anche quando la giustizia internazionale prende posizione, il frame mediatico restituisce la parola d’ordine che salva l’ordine simbolico. Il frame resta integro, e Gaza rimane invisibile.
Concretizzazione del pensiero magico. La gestione delle parole: eufemismo, riduzione, traslitterazione
Un altro aspetto decisivo è la gestione lessicale del conflitto. Quando Mentana definisce i coloni che hanno aggredito il regista Hamdan Ballal come “settler, persone che vivono una vita di confine armato”, attua una traslitterazione conciliante.
Il termine “coloni” viene tradotto in “abitanti armati”. Il concetto di apartheid viene sostituito da “conflitto”. L’embargo umanitario diventa “assedio militare”. Ogni parola è depotenziata, e con essa la capacità di vedere.
Oltre il caso Mentana, la forma Stato-Informazione
Mentana non è l’origine del problema. È la sua epifania. Il suo giornalismo mostra come, nell’attuale capitalismo cognitivo, il consenso si costruisca non più col manganello, ma con la selezione dei fotogrammi, la scelta dei verbi, la gerarchia dei corpi. Il “buon giornalismo” diventa così forma-Stato: ripete, rafforza, protegge l’ordine simbolico dell’Occidente.
Come ricordava Chomsky, “la propaganda è alla democrazia ciò che la violenza è alle dittature”.
In questo senso, il TG La7 è una delle forme più sofisticate di questa propaganda.
Non perché menta, ma perché sceglie.
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3 commenti

  • Luigi ha detto:

    Un dispendio enorme di parole per descrivere un corrotto che semplicemente è sul libro paga dei poteri forti, tutto qui. E, aggiungo, neanche tanto intelligente.

  • Mimma ha detto:

    Infatti è il più violento e pericoloso di tutti i giornalisti.
    È d’obbligo ignorarlo.

  • Davide Scarano ha detto:

    Ottimo articolo. Aiuta a capire. Che altro dire? Grazie al titolare di questo blog per averlo selezionato.