L’Incredibile Peso dei Gruppi di Pressione Israeliani negli USA e in Europa. Strategic Culture, Affari Italiani.
15 Febbraio 2025
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione due elementi interessanti a capire come funzionano e agiscono i gruppi di pressione filo-israeliani negli Stati Uniti e in Europa.
Il primo è questo articolo di Strategic Culture:
A causa di cosa esiste Israele? Come e da dove viene l’aiuto americano e chi fa pressione per ottenerlo?
Uno studio condotto dal Council on Foreign Relations ha appurato che, tra il 1946 e il 2023, Israele ha ricevuto dagli Usa assistenza finanziaria e – soprattutto – militare per un ammontare di circa 310 miliardi di dollari, e beneficerà, ai sensi di un apposito memorandum d’intesa, di versamenti pari a 4 miliardi di dollari all’anno quantomeno fino al 2028.
Dati sbalorditivi, attestanti un flusso di finanziamenti diretti dagli Stati Uniti verso Israele quantificabile in circa 3 miliardi di dollari all’anno, equivalenti a oltre 500 dollari per ogni cittadino israeliano e al 20% circa dei sussidi esteri erogati complessivamente da Washington. Il tutto nonostante Israele rappresenti una potenza economica affermata, dotata di un reddito pro capite paragonabile a quello dell’Italia, della Spagna e della Corea del Sud.
La maggior parte delle sovvenzioni – circa 3,3 miliardi di dollari all’anno – vengono erogate nell’ambito del programma Foreign Military Financing (Fmf) e sono vincolate all’acquisto di armi e attrezzature militari di fabbricazione statunitense, oltre che, anche se in misura più limitata, israeliana – un privilegio negato a tutti gli altri destinatari dei sussidi Usa. Il sostegno statunitense copre il 15% circa del bilancio della difesa israeliana, e comprende ulteriori 500 milioni di dollari destinati al finanziamento di programmi militari congiunti relativi a cruciali sistemi in dotazione a Tel Aviv, come David’s Sling, Arrow-2 e Iron Dome. Il quale è stato sviluppato esclusivamente da Israele, ma impiega intercettori Tamir prodotti dalla statunitense Raytheon.
L’assistenza militare degli Stati Uniti all’estero è disciplinata da una serie di normative piuttosto stringenti, tra cui la cosiddetta Legge Lehay che proibisce di fornire armi, munizioni, equipaggiamento militare e addestramento a Stati o gruppi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
Eppure, come ha spiegato Josh Paul, ex funzionario del Dipartimento di Stato dimessosi in segno di protesta contro la politica mediorientale di Washington, la Legge Leahy viene sistematicamente sospesa quanto si tratta di fornire sostegno militare a Israele.
Tra il 7 ottobre e il 25 dicembre, Tsahal ha ricevuto ufficialmente dagli Stati Uniti oltre 10.000 tonnellate di attrezzature militari (veicoli corazzati, armi, munizioni, equipaggiamenti, ecc.) trasportate da 244 aerei e 20 navi, a cui vanno sommati ulteriori 2,8 miliardi di dollari di forniture belliche acquistati da Tel Aviv.
Uno studio pubblicato nell’ottobre del 2024 dalla Brown University ha appurato che, nei dodici mesi precedenti, Israele aveva beneficiato di sostegno militare statunitense per ameno 17,9 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti 4,86 miliardi richiesti dal finanziamento delle operazioni belliche condotte dalla marina e dall’aeronautica Usa – come Prosperity Guardian, volta a contrastare le operazioni degli Houthi yemeniti nelle acque del Mar Rosso – a sostegno di Israele.
A livello “ufficioso”, ammontano a oltre un centinaio i contratti inerenti la vendita di armi, munizioni e attrezzature militari a Israele autorizzati nei prime cinque mesi di combattimenti dall’amministrazione Biden senza divulgazione pubblica. Si tratta, osserva il «Washington Post», di «un massiccio trasferimento di potenza di fuoco, espletato in un momento in cui alti funzionari statunitensi accusano i loro omologhi israeliani di non raccogliere i loro appelli a limitare le vittime civili, consentire il transito di materiale umanitario verso Gaza e astenersi dalla retorica che chiede lo sfollamento permanente dei palestinesi». Subito dopo i fatti del 7 ottobre, per di più, Washington aveva immediatamente mobilitato ben due portaerei a sostegno di Israele, per rafforzarne la deterrenza e coprirgli i fianchi mentre Tsahal si preparava a sferrare l’Operazione Iron Swords. Nel marzo 2024, mentre a livello pubblico gli Stati Uniti criticavano la decisione israeliana di penetrare presso la città di Rafah e si astenevano per la prima volta dall’inizio del conflitto dal porre il veto in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare una risoluzione critica nei confronti di Israele, l’amministrazione Biden autorizzava il trasferimento allo Stato ebraico di 25 caccia F-35, oltre 1.800 bombe Mk-84 da 2.000 libbre e 500 Mk-82 da 500 libbre. Il Congresso si è addirittura spinto a minacciare sanzioni nei confronti di funzionari di vertice della Corte Penale Internazionale qualora l’organismo avesse spiccato mandati di cattura nei confronti del premier Netanyahu, del ministro della Difesa Gallant e del Capo di Stato Maggiore di Tsahal Halevi.
Segno inequivocabile del “collaborazionismo” degli Stati Uniti, nonostante il trattamento oltraggioso riservato da Netanyahu sia al segretario di Stato Antony Blinken che allo stesso presidente Biden. I loro richiami alla moderazione, alla protezione dei civili della Striscia di Gaza e alla necessità di agevolare la creazione di uno Stato palestinese sono stati sistematicamente respinti con tono sprezzante dal primo ministro israeliano, al punto da indurre Khaled Elgindy del Middle East Institute a sostenere che «umiliare Biden è diventato un rito quotidiano per Netanyahu».
La preservazione del sostegno politico, militare e finanziario statunitense nei confronti di Israele a dispetto dell’impudenza di Tel Aviv, osserva il politologo John Mearsheimer, dà la misura della capacità di condizionamento raggiunta dalla Israel Lobby, che «dal 7 ottobre ha giocato duro con politici e personaggi pubblici usciti allo scoperto con rilievi critici nei confronti di Israele; lo si vede anche nei campus universitari, dove i lobbisti stanno facendo di tutto per disciplinare e punire chiunque osi criticare Israele». In un monumentale lavoro condotto nel 2007 assieme al collega Stephen Walt e focalizzato proprio sul peso soverchiante assunto dalla Israel Lobby (La Israel Lobby e la politica estera americana), lo stesso Mearsheimer rilevava che «oggi, l’intimo abbraccio con cui l’America cinge Israele, e specialmente lo zelo nel sostenere lo Stato ebraico, a prescindere dalle politiche che esso mette in atto, non sta rendendo gli americani né più sicuri né più prosperi. Al contrario, il sostegno incondizionato a Israele sta minando le relazioni con gli alleati, semina dubbi sul buonsenso e la concezione morale dell’America, contribuisce ad alimentare una generazione di estremisti anti-americani e complica gli sforzi con cui gli Stati Uniti cercano di destreggiarsi in una regione tanto instabile quanto vitale. Insomma, la “relazione speciale” tra gli Stati Uniti e Israele, ampiamente incondizionata, non è più difendibile sulla base di argomenti strategici».
Il verdetto emesso da Mearsheimer e Walt nel 2007 ha mantenuto tutta la sua scintillante attualità, alla luce della graduale saldatura – cementata dalla convergenza di interessi – tra Israel Lobby, circoli neoconservatori e “complesso militar-industriale” venutasi a creare nel corso degli anni successivi. Stesso discorso vale per la valutazione formulata da «Haaretz» nel 2002, secondo cui il perfetto allineamento delle politiche statunitensi alle direttive del governo di Tel Aviv – in specie per quanto concerne l’attacco all’Iraq – lasciava supporre che un numero assai rilevante di politici e funzionari di Washington stesse «camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani». Personaggi spesso dotati di doppia cittadinanza statunitense e israeliana, che occupano rilevanti incarichi di governo e figurano negli organigrammi di think-tank enormemente influenti come il Project for a New American Century, e/o tra gli artefici di documenti strategici come quello intitolato Clean break: a new strategy for securing the Realm, assurto a pietra angolare del Likud. Il rapporto suggeriva a Israele di potenziare le capacità di condizionamento del processo decisionale del governo degli Stati Uniti, così da porre Tel Aviv nelle condizioni di attuare «un taglio netto, abbandonando la politica che partiva da un senso di debolezza e permetteva ritirate strategiche, ristabilendo invece il principio di azioni preventive anziché meramente reattive e cessando di incassare colpi senza rispondere».
Il principale destinatario del Clean break era il neo-insediato premier Benjamin Netanyahu, che in qualità di ex ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite formatosi presso il Massachusetts Institute of Technology conosceva come pochissimi altri suoi compatrioti i nervi scoperti da sollecitare per “manipolare” la politica estera statunitense a favore dello Stato ebraico. Secondo quanto avrebbe rivelato in privato da Donald Trump in riferimento alla autorizzazione che dietro il pungolo israeliano aveva concesso nel gennaio 2020 per procedere all’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad, Netanyahu era «disposto a combattere l’Iran fino all’ultimo soldato americano». A undici mesi di distanza dall’eliminazione del vertice dei Pasdaran, Netanyahu si sarebbe addirittura spinto ad esercitare pressioni sullo stesso Trump per convincerlo ad avvalersi per l’ultima volta – prima di cedere il potere a Joe Biden – delle prerogative presidenziali per aggredire militarmente l’Iran. Lo si ricava dalle rivelazioni dell’allora segretario alla Difesa Mark Esper, secondo cui l’operazione non scattò per effetto dell’intervento del generale Mark Milley, che in qualità di Capo dello Stato Maggiore congiunto dichiarò al presidente uscente che «se procedi, scatenerai una fottuta guerra».
Nel giugno 2024, mentre la riprovazione internazionale nei confronti della condotta israeliana nella Striscia di Gaza e del sostegno totale accordato da Washington a Tel Aviv raggiungeva il culmine, il Congresso statunitense invitava Netanyahu a tenere un discorso dinnanzi alle Camere congiunte. Il primo ministro ha espresso «emozione per il privilegio di presentare di fronte ai rappresentanti del popolo americano e del mondo intero la verità in merito alla nostra giusta guerra contro coloro che vogliono eliminarci».
La consapevolezza che lo spostamento della società israeliana verso posizioni sempre più radicali avrebbe gradualmente ma inesorabilmente allontanato la Diaspora statunitense – tendenzialmente liberal e universalista – dallo Stato ebraico, ha rilevato l’ex diplomatico israeliano Alon Pinkas, ha indotto Netanyahu a sviluppare la cosiddetta “teoria della sostituzione”. Una concezione implicante lo spostamento dell’asse del supporto statunitense a Israele dalla comunità ebraica interna agli Usa a quella dei cristiano-sionisti: «trattandosi di una questione di numeri, gli evangelici rappresentano gli alleati preferiti».
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Il secondo è questo articolo di Affari Italiani:
Guerra in Medio Oriente, ecco come le lobby israeliane influenzano l’Europa
Il faro acceso da Report sulle lobby israeliane che influenzano il Parlamento europeo e quelle scomode verità nascoste sotto il sole che gettano luci sinistre e inquietanti sull’Unione. Analisi
Le lobby israeliane in Europa operano con una potenza di fuoco impressionante, orchestrando narrazioni, influenze politiche e mediatiche capaci di plasmare il dibattito pubblico. A livello istituzionale, le connessioni stabilite si dipanano attraverso una rete capillare di organizzazioni che, sotto l’apparente missione di “dialogo” e “cooperazione”, promuovono con zelo e indefessa dedizione le istanze del governo israeliano, influenzando in modo pervasivo le politiche europee.
Un esempio emblematico di questa strategia è il caso dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), la cui definizione di antisemitismo è stata adottata in molte nazioni europee, oltre che negli USA. Una definizione controversa poiché include anche critiche legittime verso Israele: il rischio che possa essere utilizzata come strumento di controllo per silenziare il dissenso è ben più che una possibilità. Non è un caso che la confusione deliberata, costruita ad arte, tra antisemitismo e opposizione alle politiche israeliane negli ultimi 15 mesi abbia prodotto un clima di censura pesante, con un costo altissimo per la libertà di espressione.
Nel panorama mediatico, il controllo è altrettanto incisivo. Inchieste e reportage critici verso Israele vengono sistematicamente ostracizzati, e i giornalisti che osano raccontare realtà scomode sono spesso tacciati di pregiudizi ideologici. Questo condizionamento si estende alla produzione culturale e accademica, dove dibattiti e iniziative su Gaza o sulla Palestina vengono boicottati o cancellati, come dimostra il recente caso dell’evento organizzato da Amnesty International a Venezia. La pressione esercitata per la sua cancellazione da parte dell’Ateneo Veneto, già richiamata nel mio precedente articolo (link), è un esempio lampante di come queste dinamiche operino nel cuore dell’Europa.
Un aspetto cruciale che merita attenzione è quanto emerso dalla recente trasmissione Report, che ha sollevato il velo sugli intrecci tra le lobby israeliane e il giro di denaro spaventoso che coinvolge gli interessi economici e finanziari tra Europa e Israele. Durante la trasmissione, è stato dimostrato come i finanziamenti europei destinati a scopi civili vengano invece utilizzati da Israele per scopi militari e offensivi. Questa inchiesta ha dato nuova forza a temi che avevo già trattato nei miei ultimi articoli (link), nei quali avevo evidenziato l’opacità degli accordi economici tra l’Europa e Israele, spesso alimentati con risorse provenienti dal gettito fiscale dei cittadini europei.
Ma c’è di più: benché il lobbismo sia prassi consolidata e non vietata, la lobby israeliana non si limita alla difesa di Israele. Interviene anche nella costruzione di un immaginario che tende a sovrapporre la sua identità con quella ebraico mondiale, una narrativa che non solo ignora la complessità della diaspora, ma che, di fatto, strumentalizza l’Olocausto per finalità politiche contemporanee, come il documentato e inattaccabile libro di Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, ha insegnato bene a tutti noi che lo abbiamo letto e studiato. Questa appropriazione esclusiva del dolore collettivo deforma il dialogo e impone un’egemonia culturale difficile da contrastare.
La domanda cruciale è: fino a che punto l’Europa è disposta a spingersi e accettare simili interferenze? E poi, in che misura è ancora libera di agire o di scegliere? Gli evidenti doppi standard a cui assistiamo, uniti all’opaca complicità verso una Nazione indagata per genocidio dalla Corte di Giustizia Internazionale, e per i cui massimi esponenti la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto, farebbero pensare che è legata a doppia mandata.
Per capire quanto basta ricordare una dichiarazione fatta il 22 ottobre 2022 da Ursula von der Leyen, a proposito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, nella quale definiva atti di terrorismo e crimini di guerra gli “attacchi mirati alle infrastrutture civili con il chiaro obiettivo di impedire a uomini, donne e bambini l’accesso all’acqua, all’elettricità, al riscaldamento, mentre l’inverno stava arrivando”. Sempre di Ursula von der Leyen, un anno dopo, esprimendo la posizione della Commissione europea dopo il 7 ottobre 2023, dichiarava: “Israele ha il diritto di difendersi in linea con le leggi internazionali. Hamas è un’organizzazione terroristica e i palestinesi sono anche loro vittime di questo terrorismo. L’Europa sta dalla parte di Israele in questo momento buio”.
Negli ultimi cinque anni, grazie al piccolo e potente esercito di lobbisti radicato a Bruxelles, che include un nutrito elenco di nostri esponenti politici – come è emerso dalla trasmissione Report di ieri sera -, le relazioni di Israele con le Istituzioni europee sono ormai simili a quelle che legano le lobby americane al Senato e al Governo americano. Non c’è foglia che si muova che la Lobby non voglia. Basta seguire le varie carriere politiche dei vari esponenti, e non solo, per capirlo.
Le lobby israeliane operano con l’obiettivo chiaro di preservare lo status quo, rendendo ogni critica “inaffrontabile”. Ma è proprio in questo scenario che l’Europa deve riaffermare i suoi principi di libertà, pluralismo e diritto internazionale, sempre che ne abbia ancora la possibilità. Una società democratica non può cedere ai ricatti morali e politici che minacciano di soffocare ogni voce indipendente. La strada per rompere questo meccanismo passa attraverso il coraggio dell’informazione libera e la resistenza civile alle narrazioni preconfezionate. Le connivenze politiche e il consenso mediatico non sono un destino inevitabile: sono una scelta. E come tutte le scelte, possono e devono essere messe in discussione.
Se le “emozioni lobbistiche” sono quelle che ci vengono vendute come giustificazioni politiche e morali, la realtà che emerge dal velo delle narrazioni orchestrate è ben più inquietante. Alla fine, la vera emozione dovrebbe essere la nostra capacità di discernere, di resistere a chi tenta di manipolare la verità, e difendere, con la forza delle idee, quella libertà che oggi sembra essere la merce più rara. La vera emozione dovrebbe essere quella di una società che riscopre il coraggio di pensare con la propria testa, imponendo alla politica di sfidare la logica delle lobby riportando al centro della discussione non più i loro interessi, ma il rispetto per la libertà e la verità. Tu chiamale se vuoi, emozioni lobbistiche, ma non confondiamole con il diritto di essere liberi. Perché se il faro acceso su queste lobby ci mostra solo il buio, sarà compito nostro accendere una luce che non si possa spegnere.
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QUELLO GIUSTO E’:
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Tag: EUROPA, israele, lobby, usa
Categoria: Generale
Purtroppo i politicanti, sia dello zio sam che europastri, con rimborso a pie’ di lista , formano il golem dei sionisti. Vie e’ anche concorso attivo e passivo di larga parte della popolazione d’ occidente che gode di privilegi economici, direttamente proporzionali al grado di partecipazione al fine ultimo. Tali privilegi sono attentamente codificati attraverso l’elargizione di stipendi, prebende di rinforzo e in stretta relazione con l’obbedienza al disegno generale. Senza questo nocciolo duro, i sionisti non avrebbero il buon gioco che e’ sotto gli occhi di tutti.