Capaci di Tutto. Lo Stato Menzognero. Versione Aggiornata. Laporta.

25 Maggio 2023 Pubblicato da 1 Commento

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, il generale Piero Laporta offre alla vostra attenzione, con qualche aggiornamento l’articolo pubblicato qualche giorno fa in memoria della strage di Capaci. Buona lettura e condivisione.

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Capaci di Tutto. Lo Stato menzognero

di Piero Laporta

 

Caro Direttore ti ripropongo il pezzo, lievemente modificato, rispetto a quello di ieri, anche per chiarire alcuni quesiti postimi in privato dai lettori di SC.

 

Lo Stato mente sistematicamente da Portella della Ginestra in poi e soprattutto dopo via Mario Fani, dove coprì il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, gabellandolo come un’operazione compiuta da una banda di BR senza alcuna intromissione esterna. Falso, come a Capaci, falso. Le bugie lasciano tuttavia tracce indelebili.

 

LO STATO MENZOGNERO SU VIA D’AMELIO

Lo Stato italiano ammette d’aver mentito per la strage di via D’Amelio, per l’attentato del 19 VII 1992 a Palermo contro il magistrato Paolo Borsellino. Anche su Capaci i conti non tornano. Vari depistaggi nascondono la verità. Giovanni Brusca è stato nel frattempo scarcerato.

Si riaprano le indagini anche su Capaci. Lo suggerisce – dopo la sentenza di Caltanissetta che smonta il falso di Stato su via D’Amelio – una logica elementare: l’attentato a Borsellino è conseguenza di quello a Falcone. Lo Stato infetto operò quindi in via D’Amelio perché prima operò a Capaci. Certo furono pezzi sporchi dello Stato, ma né piccoli né secondari, neppure a basso livello, a coprire via D’Amelio – come avevano fatto per via Fani – e tuttora per Capaci.

Questo Stato infetto opera prima, durante e dopo l’attentato di Capaci. Prima per propiziarlo; durante per assicurarne il successo; dopo per cancellare le tracce. L’attentato di via D’Amelio è quanto consegue a Capaci, infettato a sua volta dalle menzogne di Stato. Costoro non poterono agire senza protezioni più alte, senza una trattativa tra Stato e Mafia, col conseguente do ut des, do ut facias, delle reciproche proposte Stato-Mafia, impossibili da rifiutare per l’uno e per l’altra.

Curioso si voglia dare a intendere che le menzogne di Stato s’addensino solo per Borsellino. Si riaprano le indagini su Capaci. D’altronde lo suggerisce anche una rilettura tecnica dell’attentato.

Una novità? Lino Jannuzzi, vero giornalista, fu coperto di querele, avendo sostenuto dal primo istante l’inattendibilità di Vincenzo Scarantino – drogato e schizofrenico – quale autista della 500 Fiat portata piena di esplosivo in via D’Amelio.

«Possibile che Cosa Nostra affidasse a un simile individuo il compito di trasportare la macchina con l’esplosivo?» chiese giustamente Jannuzzi. Pioggia di querele eccellenti le cui motivazioni meritano approfondimenti, così come la stampa connivente. Chi firmò i pezzi contro Jannuzzi? Chi firmò gli articoli e gli atti giudiziari contro Jannuzzi?

S’indaghino soprattutto i patrimoni di costoro, dei loro eredi, di quanti comunque potrebbero averne beneficiato. Tre poliziotti sono sotto processo: avrebbero imbeccato Scarantino. Solo tre poliziotti? E basta? Suvvia, è arrivato il tempo di chiarire il ruolo di tutti su Scarantino.

Occorre capire come il depistaggio avvenne, chi lo ordinò, a quale disegno rispose, quali guadagni determinò. La favola dei mafiosi impegnati nelle vendette va bene per le fiction televisive. Se la magistratura non è in grado di indagare su sé stessa, si nomini una commissione parlamentare con ampi poteri requirenti. Torniamo a Capaci.

 

ATTENTATO PREPARATO MALISSIMO

Come per via Fani, così per Capaci il racconto dei criminali, presunti protagonisti, denuncia impreparazione e pressapochismo. I mafiosi raccontano di numerose prove di velocità, per stabilire come e quando Giovanni Brusca doveva dare l’impulso radiocomandato, presumendo che il giudice Falcone viaggiasse a 160-170 chilometri orari. Commisero così il primo errore.

La Croma blindata raggiungeva ma non manteneva tali velocità. Per dirla meglio, la Croma più potente ebbe un motore turbo a iniezione elettronica, da 150 cavalli, 4 cilindri e 16 valvole. La versione blindata raggiungeva i 180 chilometri orari, ma a pieno carico le sue prestazioni si riducevano alquanto.

Non di meno i mafiosi posero un rottame di frigorifero sul margine della carreggiata a 30 metri dall’esplosivo, per dare l’impulso elettronico quando l’auto di Falcone vi si fosse allineata, tenendo conto della velocità di reazione di Brusca.

Centosettanta chilometri all’ora sono 47 metri al secondo. L’auto di Falcone avrebbe coperto pertanto gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi, secondo le coppole.

L’ipotesi di velocità di 170 chilometri all’ora era tuttavia sbagliata per tre motivi.

Uno lo abbiamo già detto: la Croma blindata sarebbe stata al limite delle sue prestazioni.

Il secondo motivo – ancora più importante – è che Falcone non oltrepassava mai i 120 chilometri quando viaggiava con la moglie, che non gradiva la velocità elevata. Lo testimonia il suo autista, l’agente Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto nell’auto che trasportava il giudice. Chiunque sia sposato sa che certi divieti sono tassativi.

Infine Brusca, poco a suo agio con la fisica, trascurò che la velocità era una variabile del tutto incontrollabile da parte dei malviventi e quel frigo ai margini della carreggiata non dava alcuna certezza.

Eppure, come abbiamo detto, Falcone all’appuntamento con la morte giunse puntuale, sebbene con un po’ di ritardo. Proprio tale ritardo, vedremo di 0,3 secondi, spiega che cosa è accaduto.

L’esplosivo funziona per questi attentati se la vittima è investita in pieno. Un attentato analogo fu quello all’ammiraglio Carrero Blanco, delfino di Francisco Franco, che il 20 Dicembre 1973 fu colpito dall’esplosione di 100 chilogrammi di dinamite, collocati sotto in un tombino stradale, sul quale transitò l’auto dell’ammiraglio. L’esplosione scaraventò l’auto a 30 metri di altezza e tutti i suoi occupanti morirono. I terroristi baschi erano stati addestrati dal servizio segreto militare sovietico, il GRU. Per Giovanni Falcone fu ordito un disegno analogo.

La nostra tesi: «Sulla striscia minata dai mafiosi (intasando di esplosivo un cunicolo sotto la sede stradale) avrebbe dovuto esserci Falcone con la sua auto al momento dell’esplosione. Essa invece – per un ritardo di 0,3-0,5 secondi – impattò sul muro di detriti, sollevato dall’esplosione.

I fatti riscontrabili negli atti giudiziari spiegano perché non fu Giovanni Brusca (sebbene ne fosse convinto) a determinare l’esplosione».

 

INCONTRO ALLA MORTE, MA IN RITARDO

Falcone viaggiò con tre auto, la sua e due di scorta, una davanti, l’altra dietro, a distanza serrata. La prima – come accadde all’auto di Carrero Blanco – finì sull’esplosione e fu proiettata a 60 metri di distanza; gli occupanti morirono sul colpo.

L’auto di Falcone urtò il muro di detriti sollevato dall’esplosione. Sopravvisse in un primo momento con la moglie e l’autista seduto dietro di lui. In ospedale decedettero il giudice e la moglie.

L’autista sopravvisse poiché non guidava ed era seduto dietro, a 50-70 centimetri dal giudice. Nella terza auto sopravvissero tutti.

Falcone guidava l’auto, ripetiamolo. Secondo la testimonianza del suo autista, il giudice, autista spericolato, dovendo dare alla moglie le chiavi di casa, poste nello stesso mazzo di chiavi della Croma, scambiò in corsa la chiave di accensione, 300 metri prima del punto di scoppio.

L’auto andò a motore spento, in folle, passando da 120 chilometri all’ora (33 metri al secondo) a non più di 80-90 chilometri all’ora (25 metri al secondo). Falcone pertanto non coprì gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi – come avevano invece previsto i mafiosi – occorrendo invece da 1 a 1,2 secondi.

Quando Brusca schiacciò inutilmente il pulsante, la prima auto di scorta era a meno di dieci metri dall’esplosione. Falcone si trovava quindi a 17-20 metri. Chiunque si intenda di esplosivi sa che quella distanza gli avrebbe consentito la salvezza, malconcio ma salvo. Lo prova il suo autista, lo ripetiamo, il quale si salvò perché era seduto dietro, a 50-70 centimetri di distanza dal giudice. Falcone si sarebbe salvato e la prima auto di scorta avrebbe impattato sul muro esplosivo.

L’ulteriore ritardo (da 120 km/h a 90 km7h), causato dallo scambio di chiavi, portò quindi sull’esplosione la prima auto di scorta invece dell’auto di Falcone che impattò sul muro di detriti causato dall’esplosione. Si salvò l’equipaggio della terza auto.

 

BRUSCA NON DÀ L’IMPULSO ESPLOSIVO

Secondo gli atti processuali, Brusca premette invano più volte il telecomando che quindi era scollegato dall’esplosivo. L’esplosione fu pertanto poi innescata da qualcuno e qualcos’altro.

Non c’è altra spiegazione tecnica: il telecomando di Brusca non era collegato al circuito esplosivo. Tale ricostruzione è asseverata da un altro dato di fatto. Il giorno precedente, il 22 Maggio, intorno alle ore 12.32 furono notati un furgone Fiat Ducato bianco e alcune persone che eseguivano lavori sul luogo dello scoppio. Furono deviate le automobili di passaggio, furono usati i birilli catarifrangenti per indirizzare il traffico. Gli accertamenti successivi svelarono che nessuna ditta era accreditata per aprire un cantiere stradale in quel punto. Ci fu pertanto il giorno prima dell’attentato un intervento non istituzionale che non ha altra spiegazione che nel compimento del medesimo attentato, manomettendo il circuito esplosivo approntato dalle coppole.

Che cosa e come successe? L’esplosione fu determinata da un altro impulso esplosivo inviato da un altro gruppo meglio attrezzato, oppure da due antenne che si «guardarono», un mini trasmettitore sull’auto di Falcone, attivato sulla base della velocità di 120 km/h col ricevitore sull’esplosivo che chiuse il circuito elettrico dei detonatori.

La seconda ipotesi appare più verosimile poiché, grazie al doppio ritardo (da 120 km/h a 90 km/h) sappiamo che l’esplosione avvenne come se Falcone viaggiasse a 120 km/h ma nessuno dei sicari poté prevedere il brusco rallentamento, dovuto proprio al cambio in corsa delle chiavi.

Il lavoro fu quindi fatto da un vero specialista, consapevole dell’elevata sensibilità dei detonatori elettrici, soggetti a microcorrenti dovute ai campi magnetici effimeri, suscettibili quindi di brillare fuori tempo.

Lo scambio di chiavi, imprevedibile, ripetiamolo, determinò un ritardo, finché le due antenne non si connessero effettivamente. Così la prima auto, avendo rallentato, fu sul fornello esplosivo e Falcone, in ritardo ma non abbastanza, impattò sul muro esplosivo dopo una frazione di secondo.

 

CONCLUSIONE

A Capaci in Sicilia, come a via Fani a Roma, una mano molto professionale intervenne a far apparire dei cialtroni improvvisatori, al più assassini senza scrupoli, quali sicari dalla raffinata preparazione. La mano di Capaci è analoga a quella fatale all’ammiraglio Carrero Blanco nel 1973. Colpisce che la cecità affligga tanto i fiancheggiatori di Stato a Capaci come a via Mario Fani. Coincidenze, sì, coincidenze, come sempre.

Cristo Vince nonostante lo Stato menzognero, protettore di mafia e BR.

 

Gen. D.g.(ris.) Piero Laporta

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1 commento

  • paola caporali ha detto:

    Signor Generale, nel manifestraLe la mia più profonda stima, mi permetto di chiedere qualche delucidazione. Sto leggendo, con interesse misto a sgomento, il suo scritto, “Raffiche di bugie a via Fani:. All’epoca dei fatti, ero una bambina; nondimeno, ho un ricordo doloroso del tutto, perché collegato a tristi vicende familiari (la mia adorata nonna fu sepolta il 9 maggio).
    Dunque: non c’erano passanti, in via Fani? Nessuno notò un uomo in divisa Alitalia steso per terra? Avevano chiuso la strada? Questo, non lo ricordo e gradirei, se possibile, capire meglio.
    Grazie
    Paola Caporali. Arezzo

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