Capaci di Tutto. Lo Stato Menzognero, di Piero Laporta.

23 Maggio 2023 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il generale Piero Laporta offre alla vostra attenzione, nel ricordo della strage di Capaci, queste considerazioni sull’attentato. Buona lettura condivisione.

§§§

 

 

Capaci di Tutto. Lo Stato menzognero

di Piero Laporta

Lo Stato ha iniziato a mentire sistematicamente dopo Piazza Fontana e soprattutto dopo via Mario Fani, quando coprì il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, gabellandolo come un’operazione compiuta da una banda di BR senza alcuna intromissione esterna. Falso.

Lo stesso Stato italiano ammette d’aver mentito per la strage di via D’Amelio, dopo l’attentato del 19 VII 1992 a Palermo, per uccidere il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta.

Svelate le menzogne su via d’Amelio, anche su Capaci i conti non tornano. Poco prima della ratifica del trattato di Maastricht, l’Italia vittima della speculazione assistette agli attentati contro i simboli della lotta alla mafia. Vari depistaggi riuscirono a nascondere la verità. Giovanni Brusca è stato nel frattempo scarcerato.

Per inquadrare il 1992 e quanto esso comporta per l’Italia, si riaprano anche le indagini su Capaci. Lo suggerisce – dopo la sentenza di Caltanissetta che smonta il falso di Stato su via D’Amelio – una logica elementare: l’attentato a Borsellino è conseguenza di quello a Falcone. Lo Stato operò quindi in via D’Amelio perché prima operò a Capaci. Certo furono pezzi sporchi dello Stato, ma né piccoli né secondari per coprire via D’Amelio – come avevano fatto per via Fani – e tuttora per coprire Capaci.

Questo Stato infetto ha operato prima, durante e dopo l’attentato di Capaci. Prima per propiziarlo; durante per assicurarne il successo; dopo per cancellare le tracce. L’attentato di via D’Amelio è quanto consegue a Capaci, infettato a sua volta dalle menzogne di Stato.

Curioso che si voglia dare a intendere che le menzogne di Stato si siano addensate solo per Paolo Borsellino. Si riaprano le indagini su Capaci, dunque. D’altronde lo suggerisce anche una rilettura tecnica dell’attentato.

Taluni assicurano che la speculazione contro l’Italia del 1992 – 60.000 miliardi di oro di Bankitalia per acquistare Lire – ebbe due picchi in corrispondenza di Capaci e via D’Amelio. Basterebbero le carte della Banca d’Italia per sincerarsi se quella connessione è vera? Per comprendere se la speculazione fu causa o effetto? Distinzione di non poco conto, dopo tutto.

Il tribunale di Caltanissetta certifica verità deviate per via D’Amelio da parte di importanti pezzi dello Stato. Costoro non poterono agire senza protezioni più alte, senza una trattativa tra Stato e Mafia, col conseguente do ut des, do ut facias, dalle reciproche proposte Stato-Mafia, impossibili da rifiutare per l’uno e per l’altra.

Una novità? Lino Jannuzzi, vero giornalista, fu coperto di querele, avendo sostenuto dal primo istante l’inattendibilità di Vincenzo Scarantino – drogato e schizofrenico – quale autista della 500 Fiat esplosa in via D’Amelio.

«Possibile che Cosa Nostra affidasse a un simile individuo il compito di trasportare la macchina con l’esplosivo?» disse giustamente Jannuzzi. Pioggia di querele eccellenti le cui motivazioni meritano approfondimenti, così come la stampa connivente. Chi firmò i pezzi contro Jannuzzi? Chi firmò gli atti giudiziari contro Jannuzzi?

Si indaghino soprattutto i patrimoni di costoro, dei loro eredi, di quanti comunque potrebbero averne beneficiato. Tre poliziotti sono sotto processo: avrebbero imbeccato Scarantino. Solo tre poliziotti? E basta? Suvvia, è arrivato il tempo di chiarire il ruolo di tutti su Scarantino.

Occorre capire come il depistaggio avvenne, chi lo ordinò, a quale disegno rispose, quali illeciti guadagni determinò. Si dimentica un dettaglio altrimenti banale: un delitto di tale portata non avrebbe senso se non procurasse un guadagno adeguato. La favola dei mafiosi impegnati nelle vendette va bene per le fiction televisive. Risparmiatecela. Se la magistratura non è in grado di indagare su sé stessa, si nomini una commissione parlamentare con ampi poteri requirenti. Torniamo a Capaci.

attentato preparato malissimo

Per la preparazione dell’attentato al giudice Giovanni Falcone, i mafiosi fecero numerose prove di velocità, al fine di stabilire come e quando dare l’impulso radiocomandato, presumendo che Giovanni Falcone viaggiasse a 160-170 chilometri orari. Commisero così il primo errore. La Croma blindata non raggiungeva e manteneva tali velocità. Non di meno i mafiosi posero un rottame di frigorifero sul margine della carreggiata a 30 metri dall’esplosivo, per dare l’impulso elettronico quando l’auto di Falcone vi si fosse allineata, tenendo conto della velocità di reazione di Giovanni Brusca.

Centosettanta chilometri all’ora sono 47 metri al secondo. L’auto di Falcone copriva gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi.

L’ipotesi di velocità di 170 chilometri all’ora era quindi sbagliata per tre motivi.

Uno lo abbiamo già detto: quel modello di Croma (blindata per di più) non era in grado di mantenere la velocità di 170 chilometri orari.

Il secondo motivo è che Falcone non oltrepassava mai i 120 chilometri quando viaggiava con la moglie, ce lo assicura il suo autista, l’agente Giuseppe Costanza, l’unico sopravvissuto nell’auto che trasportava il giudice.

Infine Brusca, certamente poco a suo agio con la fisica, trascurò che la velocità era una variabile del tutto incontrollabile da parte dei malviventi e quel frigo ai margini della carreggiata non dava alcuna certezza.

Eppure, come abbiamo detto, Falcone all’appuntamento con la morte giunse puntuale. Perché?

La nostra tesi: “Sulla striscia minata dai mafiosi (intasando di esplosivo un cunicolo sotto la sede stradale) avrebbe dovuto esserci Falcone con la sua auto al momento dell’esplosione. Essa invece – per un ritardo di 0,3-0,5 secondi – impattò sul muro di detriti, sollevato dalla esplosione.

Che cosa determinò il ritardo spiega perché non può essere stato Giovanni Brusca a dare l’impulso elettronico che ha determinato l’esplosione.”

appuntamento con la morte, in ritardo

Il convoglio di Falcone era di tre auto, la sua e due di scorta, una avanti, l’altra dietro, a distanza serrata. La prima auto, finita sull’esplosione, fu proiettata a 60 metri di distanza; gli occupanti morirono sul colpo.

L’auto di Falcone urtò il muro sollevato dall’esplosione; muro compatto nel primo istante, per poi ricadere e sgretolarsi dopo non più di due o tre secondi.

L’auto di Falcone impattò sul muro esplosivo e l’autista sopravvisse poiché non guidava. Egli era infatti seduto dietro, a 50-70 centimetri dal giudice. Nella terza auto sopravvissero tutti.

Falcone guidava l’auto, ricordiamolo. Secondo la testimonianza del suo autista, dovendo dare alla moglie le chiavi di casa, poste nello stesso mazzo di chiavi della Croma, scambiò in corsa la chiave di accensione, 300 metri prima del punto di scoppio.

L’auto andò a motore spento, in folle, passando da 120 chilometri all’ora (33 metri al secondo) a non più di 90 chilometri all’ora (25 metri al secondo). Falcone pertanto non coprì gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi – come avevano invece previsto i mafiosi – impiegando invece da 1 a 1,2 secondi.

Quando Brusca schiacciò il pulsante, l’auto di Falcone distava quindi 17-20 metri all’esplosione.

In quel momento la prima auto di scorta era a meno di dieci metri dall’esplosione. Se l’esplosione fosse avvenuta quando Falcone si trovava a 17-20 metri, chiunque si intenda di esplosivi sa che quella distanza gli avrebbe consentito la salvezza, malconcio ma salvo. Lo prova il suo autista, lo ripetiamo, il quale si salvò perché era seduto dietro, a 50-70 centimetri di distanza dal giudice. Falcone si sarebbe salvato e la prima auto di scorta avrebbe impattato sul muro esplosivo. Allo stesso modo si salvò l’equipaggio della terza auto.

L’ulteriore ritardo (da 120 km/h a 90 km7h), causato dallo scambio di chiavi, portò quindi sull’esplosione la prima auto di scorta invece dell’auto di Falcone che impattò sul muro di detriti causato dall’esplosione.

non è Brusca a dare l’impulso esplosivo

Secondo gli atti processuali, Brusca premette invano più volte il telecomando. L’esplosione fu pertanto poi innescata da qualcuno e qualcos’altro.

Il telecomando di Brusca non era collegato al circuito esplosivo. Non c’è altra spiegazione tecnica. Tale ricostruzione è avvalorata da un altro dato di fatto. Il giorno precedente, il 22 Maggio, intorno alle ore 12.32 furono notati un furgone Fiat Ducato bianco e alcune persone che eseguivano lavori sul luogo dello scoppio. Furono deviate le automobili di passaggio, furono usati i birilli catarifrangenti per indirizzare il traffico. Gli accertamenti successivi svelarono che nessuna ditta era accreditata per aprire un cantiere stradale in quel punto. Pertanto, ci fu sicuramente, il giorno prima dell’attentato, un intervento non istituzionale che non ha altra spiegazione che nel compimento del medesimo attentato.

Che cosa e come successe? Qualcuno manipolò il circuito elettrico di Brusca, di scarsa o nulla affidabilità, come abbiamo visto. L’esplosione fu determinata o da un altro impulso esplosivo inviato da un altro gruppo meglio attrezzato, oppure da due antenne che si «guardarono», una sul circuito dell’esplosivo, l’altra sull’auto di Falcone.

La seconda ipotesi appare più verosimile poiché, grazie al doppio ritardo (da 120 km/h a 90 km7h) sappiamo che l’esplosione avvenne come se Falcone viaggiasse a 120 km/h.

In altre parole, il lavoro fu fatto da un vero specialista. Costui, consapevole della forte sensibilità dei detonatori elettrici, realizzò un doppio circuito: uno di sicurezza, chiuso via radio un istante prima che Falcone sopraggiungesse, ma non poterono prevedere che, scambiando le chiavi, imponesse un ritardo ulteriore al convoglio. Il secondo circuito, attivato dal primo, innescò l’antenna sull’esplosivo quando ricevette l’impulso gemello dall’antenna sull’auto di Falcone.

Lo scambio di chiavi, imprevedibile, ripetiamolo, determinò un ritardo, nonostante le due antenne si siano connesse fatalmente. Così la prima auto, avendo rallentato, fu sul fornello esplosivo e Falcone, in ritardo ma non abbastanza, impattò sull’esplosione dopo una frazione di secondo.

conclusione

A Capaci in Sicilia, come a via Fani a Roma, una mano molto professionale intervenne a far apparire dei cialtroni improvvisatori, al più assassini senza scrupoli, quali sicari dalla raffinata preparazione. È significativo che la cecità colpisca tanto i fiancheggiatori di Capaci come quelli di via Mario Fani. E’ significativo che l’area politica di riferimento sia la medesima. Coincidenze.

Cristo Vince nonostante lo Stato menzognero, protettore di mafia e BR.

Gen. D.g.(ris.) Piero Laporta

www.pierolaporta.it

§§§

Aiutate Stilum Curiae

IBAN

IT79N0200805319000400690898

BIC/SWIFT

UNCRITM1E35

§§§

Condividi i miei articoli:

Libri Marco Tosatti

Tag: ,

Categoria:

5 commenti

  • Dino Brighenti ha detto:

    Cattolici SI ma castrati NO
    Riprendiamoci la CHIESA DI CRISTO
    in una mano la CORONA
    nell’altra …..

  • Mara ha detto:

    “Chi tace e piega la testa, muore tutte le volte che lo fa” (giudice Giovanni Falcone). Questo è vero in ogni ambito del vivere civile. Grazie, signor Giudice, per avermelo insegnato. Riposi in pace.

  • Davide Scarano ha detto:

    Per i non tecnici: potrebbe spiegare meglio l’ipotesi per cui le due antenne si “guardano”? Ciò è figlio del caso -ipotesi credo improbabile- oppure Qualcuno è riuscito a controllare la radio dell’auto di Falcone e quindi ad innescare l’esplosivo?
    Grazie.

    • piero lapirta ha detto:

      Un trasmettitore sull’,auto di Falco e e un ricevitore sull’esplosivo. La radio dell’auto non c’entra

  • Roberto ha detto:

    Certamente le ricostruzioni degli attentati che hanno deviato e mortificato la democrazia e la vita civile della nostra Nazione, sono intriganti ed attendibili. Purtroppo l’Italia è, da sempre, sotto strettissima sorveglianza di forti poteri stranieri che, a loro volta, si appoggiano a corposi pezzi delle nostre istituzioni. Ne nasce un intrigo non dico indecifrabile ( è fin troppo chiaro) ma di certo complesso. Vogliamo ricordare la Gladio di Cossiga e la meno nota Gladio rossa? Vogliamo ricordare che il più grosso partito comunista d’ occidente dava più fastidio ai Russi che agli Americani? Immaginiamo il fastidio ” plurimo” della lungimirante politica di Aldo Moro di voler condurre questa forza politica nel terreno della democrazia? Di normalizzazione in normalizzazione, di spartizione in spartizione, di appalto in appalto ( per favore non fatemi parlare …) si è arrivati alla nostra “finta” democrazia dove si cerca di votate il meno possibile e dove, chiunque esca dal confronto elettorale, adotta le medesime identiche politiche. C’è un grande senso di sconforto per questa nostra Patria ridotta ad uno zimbello di poteri esterni e di pagliacci ( che non fanno ridere) al loro servizio. Preghiamo e speriamo nell’intervento divino.