Viriditas, la Forza della Vita nell’Opera di Ildegarda di Bingen.

12 Marzo 2023 Pubblicato da

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, Il Matto offre alla vostra attenzione queste riflessioni, che traggono spunto da alcuni versi scritti da Ildegarda di Bingen. Buona lettura e meditazione.

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NUTRIAMOCI DI VIRIDITAS

«O viriditas nobilissima,
che hai radici nel sole,
e in candida serenità riluci
nella ruota
che nessuna altezza terrena
contiene,
tu sei circondata dall’amplesso dei divini misteri.
Risplendi come la rossa aurora
E ardi come la fiamma del sole»

Ildegarda di Bingen

 

Nota: l’opera di Jol Thoms riecheggia i versi di Ildegarda:

 

 

«O viriditas nobilissima,
che hai radici nel sole»

 

 

Stavolta cedo la parola per proporre un saggio davvero edificante.

 

* * * * *

 

VIRIDITAS

LA FORZA DELLA VITA

(Riflessioni sulla filosofia di Ildegarda di Bingen)

di Maria Vittoria Picozzi

Nel Liber Divinorum Operum Ildegarda mostra il mondo come opera d’arte di Dio: l’uomo rispecchia la regolarità del cosmo in tutte le sue condizioni. Tutto si riferisce a tutto, tutto è collegato reciprocamente e unito indivisibilmente a Dio.

 

«Tutto, infatti,

tutto ciò che esiste nell’ordine di Dio,

risponde con tutto».

Prima Dio era distante, estraneo; ora invece Ildegarda scopre e svela all’umanità la presenza di Lui nelle piante, nelle pietre, negli elementi e, naturalmente, nell’uomo. La sua visione dell’universo parte, potremmo dire, dalle altezze siderali e si dirama fino a toccare ogni campo della umana esistenza. Ogni cosa per lei è unita da un unico filo, che ne tesse la trama straordinaria, mirabile; tutto è messo in moto da quella “energia suprema”, da quella “forza miracolosa”, che altro non è che la VITA.

La vita in quanto tale è una potenzialità travolgente, un turbine che investe anche la più piccola cosa del creato, il quale, proprio per questo, ha una funzione sempre determinante. Niente è lì per caso, ma l’interdipendenza caratterizza il cosmo in una totale unità e completezza.

Con questo stesso spirito Ildegarda si dedica alle ricerche in campo medico e terapeutico, convinta com’è che le malattie, fisiche o psichiche, da cui l’umanità spesso è afflitta, non sono altro che la conseguenza visibile di una rottura di quel filo meraviglioso, che lega ogni oggetto della creazione e ad ogni cosa trasmette la sua carica vitale.

Lei studia le proprietà puramente materiali delle piante o delle pietre, ad esempio (era una attenta osservatrice), ma non si ferma all’esame esteriore: le interessa piuttosto scoprire i poteri terapeutici nascosti in esse; poteri che lei ritrova anche nella musica e nella parola. Questo è straordinario, se si considera il tempo in cui Ildegarda visse: la musica, ad esempio, era essenzialmente diretta al sacro ed era comunque vista come elemento formale, celebrativo. Il pensiero che l’armonia delle note, attraverso una bella voce o uno strumento dal suono melodioso, potesse avere una funzione terapeutica, infondendo pace, calma interiore e quindi benessere, è di una modernità straordinaria. Ai giorni nostri la musicoterapia si sta diffondendo; è accertato che ha effetti benefici e spesso risolutivi in gravi stati di deficit della salute fisica o di traumi con conseguenze letali e irreversibili, e Ildegarda, nel lontano XII secolo, lo aveva già scoperto; anche nella musica lei aveva già visto la ricerca e il tentativo dell’uomo di recuperare l’armonia eventualmente infranta.

Anche nella musica vedeva il rispecchiarsi dell’ordine dell’universo, anzi, come lei stessa affermava, nella musica è possibile ascoltare «l’eco delle armonie celesti». Per la prima volta Ildegarda intuisce la organicità del mondo naturale e comprende perciò che si ammala chi, per qualche ragione, “rompe” con l’organismo: si inceppa qualcosa, qualcosa non funziona più come dovrebbe. Due sole opere di medicina furono composte in occidente nel XII secolo e sono tutte e due di Ildegarda, una donna che costituiva, nel suo tempo, uno scrigno vivente di esperienze e sapere inimmaginabile per ciò che riguarda l’osservazione e la conoscenza delle scienze naturali e della medicina. Quel poco che, fino a qualche tempo fa, si sapeva di lei ce la presentava solo come una mistica, intenta a visioni soprannaturali, perduta nella contemplazione di verità di fede, che, attraverso la sua voce, venivano rivelate e trasmesse all’umanità comune. Si è sempre trascurata invece e, a mio avviso, non senza motivo, la sua grande attività di ricerca scientifica, la sua curiositas, nel senso più profondo del termine, verso quei segreti che, secondo lei, la natura celava e che costituivano un immenso tesoro; il frutto dell’amore del Creatore che ogni più piccola cosa aveva predisposto, perché servisse all’esaltazione ed al benessere di quello, che costituiva il suo gioiello, l’opera più preziosa: l’uomo.

La lettura delle opere di Ildegarda perciò ci svela possibilità insospettate del mondo naturale; dal punto di vista medico, alimentare, terapeutico in genere. Così che potremmo anche pensare che la viriditas, di cui lei tanto spesso parla, oltre ad essere quel fluido prodigioso che attraversa, innervandole, tutte le creature e il cosmo stesso, è proprio il potere nascosto in tutto ciò che, appunto, “verdeggia”. Ciò che è verde è vivo, palpitante, attraverso le sue fibre e le radici, anche profonde, passa la vita, e la vita genera frutti di ogni specie, che arricchiscono la bellezza del creato e, a loro volta, si preparano a produrre ancora, in un processo continuo, infinito ed esaltante: il processo vitale, che non si arresta mai e che, per uno straordinario prodigio, è capace di generare vita anche dalla morte. Proprio questa capacità generativa deve aver affascinato tanto Ildegarda, la vergine votata totalmente a Dio fin dalla più tenera età; esclusa dal mondo degli esseri viventi, in una clausura, che teoricamente, erigendo un solido muro tra le recluse e il mondo esterno, avrebbe dovuto renderle privo di interesse ogni processo naturale, impedendogliene la conoscenza. In realtà, forse, quell’averla strappata dal mondo, gliene ingigantì il fascino e l’amore straordinario. Intuì le grandi potenzialità della donna, l’unica, appunto, dotata della capacità di generare la vita e a lei affidò il compito, a quei tempi impensabile, di mediare, di essere il tramite sapiente, amorevole, tra la Divinità e il cosmo. In lei, frutto d’amore e per l’amore, Ildegarda riconosce la capacità di tessere la tela sottilissima, che accoglie nella sua trama l’opera del Creatore.

Il mondo di Ildegarda è un mondo vivo, un mondo protagonista, mai oggetto, da cui lei, a piene mani, afferra le numerosissime immagini simboliche e le figure, di cui non svela mai subito l’identità, catturando perciò con il senso di mistero che le circonda; poi, dopo la ‘cattura’, è sempre lei che sembra spingerci a scoprire i segreti, a scrutare le potenzialità enormi che questo mondo nasconde. Alla base di tutto la profetessa renana sa che c’è quel filo miracoloso, quell’energia vitale, che lega noi, esseri viventi, all’intero mondo naturale; non dobbiamo mai dimenticarlo: tra natura ed esseri umani c’è un rapporto continuo ed è dunque nei prodotti della natura che l’uomo deve cercare ciò che fa bene al suo equilibrio, alla sua salute. Senza mai perdere di vista il fatto che tutto ciò che esiste nell’universo è stato fatto per lui. E oggi, proprio quando i progressi scientifici ci mettono continuamente di fronte a scoperte straordinarie, chissà per quale arcano mistero, la “medicina dolce” di stampo ildegardiano sta suscitando grande attenzione. Forse l’umanità si sente sola e smarrita; il sapere, spezzettato in innumerevoli discipline, “specializzazioni”, non la rassicura, perché avverte, in modo palpabile, che gli scienziati, frantumando il corpo e facendone oggetto di studi approfonditi, hanno perso, lungo la strada, la sua anima. Macchine avanzatissime, ma anonime, distanti, sezionano le singole parti del suo fragile essere materiale, ma non riescono più a ricomporre il tutto; e le parti così frantumate sono sole, si perdono, non trovano più il filo che le univa tutte, in un immenso abbraccio. La viriditas va perdendosi in mille rivoli inutili, in rami secchi, senza vita e l’umanità sente di essere sola, non più parte di una originaria superiore organicità, frutto dell’armonia cosmica.

Allora ecco il fascino ritrovato dell’opera di Ildegarda, che, al contrario, instancabilmente, cerca l’equilibrio perduto e con tutto l’amore rivolge l’attenzione non solo alla fisicità dell’uomo, ma anche ai suoi stati d’animo, nella convinzione che la psiche e la corporeità siano strettamente unite e dipendenti (e Freud è ancora tanto lontano). Indimenticabili sono le pagine che la studiosa dedica alla malinconia, da lei considerata, appunto, conseguenza dell’inaridimento della viriditas, della linfa vitale. È come se ad un tratto nell’uomo venisse meno il verdeggiare, inteso in senso dinamico, di movimento, di produzione e richiamo alla vita per tutti gli esseri viventi e la natura in genere. Ildegarda stessa dice: «Tutti i fenomeni sono in rapporto con l’anima, che è nel corpo come un vento di cui non si vede né si sente il soffio, aerea…» e, quando questo vento non soffia più, la vita si ferma in una immobilità di morte. La malinconia prende il sopravvento con il suo funesto fardello di vuoto. E Ildegarda vuole capire, vuole penetrare anche in questo mistero, che tanto fa soffrire l’umanità in ogni tempo. Vuole sapere che cosa ruba l’anima, la linfa vitale, agli esseri umani; vuole scoprire perché, all’improvviso, il fuoco, che dà senso alla vita, si spegne.

Nel Medio Evo veniva accentuato solo l’aspetto negativo di quella condizione definita melancholìa, da melaina cholè o atra bilis dei Romani, la famigerata bile nera ritenuta responsabile di gravi malattie; questa era legata in modo indissolubile all’immagine di Chronos, il dio greco del tempo, che rappresentava l’irresistibile scorrere della vita degli esseri umani, delle cose e dell’universo. Un’immagine dunque collegata con l’impossibilità per tutte le cose di scampare alla morte e alla loro definitiva dissoluzione. Ficino invece, più tardi, pur considerando anche lui Saturno come una stella infausta, sentirà il bisogno di ricorrere al concetto neoplatonico di melancholia generosa e di trovare nella vita contemplativa un modo per divenire ‘padrone di sé’.

L’uomo non più dunque una creatura semplicemente appartenente a Dio e da Lui inserita nella sua opera di creazione, secondo imprescindibili ed ineluttabili progetti, secondo un antropocentrismo assegnato a divinis, ma non ‘responsabile’. Lo studioso intende in questo modo penetrare e cercare la soluzione ad un problema antico, quello che, fin da tempi remoti, aveva individuato un rapporto stretto tra malinconia, acedia e disperazione, ma anche ‘eccellenza’. Ildegarda, che si considerava una malinconica, ma che era fortemente ancorata alla dottrina ippocratica degli umori ed alla scuola salernitana, dal canto suo, ha un approccio al problema molto più pragmatico, appena mitigato da fascinose influenze arabe ed ermetiche. Ma anche lei, prima di Ficino, intuisce il male del malinconico, che consiste proprio nella consapevolezza e percezione di una radicale instabilità, di una condizione intermedia oscillante tra forza creativa e debolezza, di una coscienza che si muove sull’orlo di un precipizio. Del resto questo, ci pare, è proprio il ritratto della Sibilla renana. Anche lei, come appunto, più avanti, Ficino, nel desiderio accorato di trovare dei rimedi a questo fenomeno, considerato ai suoi tempi, nell’ambito della medicina, come un disturbo patologico, una malattia dagli effetti spesso terribili, si preoccupa di redigere una lunga lista di precetti e di consigli dietetici. Alcuni rimedi derivavano il loro potere dalle piante e dalle pietre forse proprio perchè, affondando le radici nella terra o provenendo dalle profondità di essa, erano ritenute capaci di opporsi alle forze più occulte e oscure del mondo e potevano così aiutare chi ne era colpito a ‘risalire’. Ma è anche probabile che i rimedi pratici non fossero indirizzati ad altro scopo che quello di distogliere l’attenzione del malato dal ‘vero’ problema e che invece l’intento primario fosse di impedire, in qualche modo, che quello che doveva essere un isolamento, un allontanamento dalla vita attiva, per un percorso di ascesi, si pervertisse in autodistruzione, in odio della vita.

Gianni Carchia, voce straordinariamente sensibile dei nostri tempi, ha proposto una soluzione nuova all’angoscia che accompagna sempre la malinconia; «la malinconia – egli dice – è il sentimento di una mancanza, la nostalgia di una pienezza originaria, ciò che solo può far mettere le ali allo spirito … è nel dolore che si innesca il processo dell’anima …» E qui ritroviamo la stessa Ildegarda, che aveva sempre presente la terribile perdita determinata dalla caduta dell’uomo, ma, al tempo stesso, non si chiudeva in inutili rimpianti e cercava nella vita, nelle risorse umane e naturali, il modo per riappropriarsi di quelle altezze perdute e accedere al soprannaturale.

Continua, oggi, Carchia la sua riflessione sul tema affermando: «… affinché il sentimento della perdita non si smarrisca nell’autocompianto … bisogna che l’autoaccusa si sciolga nel perdono, anzitutto in quanto perdono di sé … non già il rimpianto muto o la negazione della perdita, ma l’accettazione e la coscienza di questa perdita … il perdono è qui, dunque, quel movimento della sublimazione che, riconoscendo mortale, effimera e caduca la vita, vede ed estrae la vita dalla morte». Parole bellissime, che inducono ad una riflessione profonda, che danno una valenza diversa e più positiva di una condizione esistenziale dell’uomo tanto drammatica. Infatti egli, continuando, espone così il suo pensiero: «Questa trasfigurazione estetico-morale, nella quale si tolgono il rimorso e la dimensione della colpa, è quella per la quale la malinconia si determina essenzialmente come nostalgia … Come nostalgia, la malinconia-accettazione e memoria della caducità è una paradossale identità di desiderio e rimpianto. Malinconia è la stessa autocoscienza dell’irreversibilità …è desiderio e accettazione, trasfigurazione della vita nel suo carattere più singolarmente umano, nella coscienza della finitudine …è una sorta di compito infinito dello spirito: trattenere l’inarrestabile, desiderio di salvezza per i fenomeni … desiderio infinito della caducità, tentativo sempre vano e sempre ripreso da capo di conservare l’irreversibile, non già negandolo, ma in immagine, come memoria».

Ildegarda osserva la malinconia da due punti di vista: quello ‘tragico’ dell’esistenza umana da Adamo in poi e quello, come si è già notato, più fisiologico, della predisposizione acuta di uomini e donne, che hanno una determinata complessione umorale. Per lei comunque i temperamenti melanconici sono quelli che più intensamente sperimentano la condizione tragica dell’uomo caduto. E Carchia appunto afferma: «C’è nel concetto di malinconia un carattere di soglia …c’è una grande difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra medicina e filosofia, data l’indistinzione tra corpo e spirito … non si sceglie la malinconia … in nessun caso come in questo, il carattere dell’uomo è, in senso eracliteo, il suo destino». È vero, la malinconia non si sceglie; essa, come una seconda pelle, riveste uomini e donne particolari; si riconoscono tra i tanti; camminano sempre come sull’orlo di un precipizio: potrebbero precipitare, sì, ma anche lanciarsi verso l’alto, volare, verso visioni a cui ad altri non è dato accedere. È qui dunque, senza dubbio, che noi ritroviamo Ildegarda; nelle sue continue oscillazioni tra malattia e recupero, timore e salda determinazione, lei si pone al fianco di quei melanconici ai quali Dio ha dato una grazia eccezionale, sapienza o profezia, rendendoli, come dice Peter Dronke, insieme squilibrati e fuori dal comune. Grande malinconica anche lei, ma anche lei pervasa dallo stesso desiderio-accettazione e dal bisogno di trasfigurare il reale, la vita, non negandola, ma sublimandola; non condannando il finito, ma curandolo amorevolmente, nel tentativo incessante di salvarlo.

Ildegarda, come è stato osservato, è stata sempre annoverata tra i mistici, eppure lei non ha mai perso di vista il mondo materiale, il sensibile, come cosa meravigliosa proprio in quanto voluta e creata da Dio e da Lui dotata di quella straordinaria linfa, che tutto muove, tutto fa vivere; quella viriditas appunto, che, ribadiamo, per lei è la vita e la vita è il miracolo più grande. Non aveva compiuto studi regolari Ildegarda, ma, attraverso l’osservazione amorevole e stupita dei segreti della natura, era riuscita a penetrare il mistero della vita ed a comprendere che, dopo aver trascorso secoli ad interrogarci sull’origine, era venuto il momento di volgere lo sguardo più in basso, verso quell’universo mondo che palpita intorno e insieme all’umanità tutta; e con ciò svelare il mistero della vita e il bisogno che questa ha di essere alimentata, protetta, esaltata in ogni sua manifestazione. E questa è la sapienza: lei così semplice, così piccola, paupercola feminea forma, aveva capito che tutte le più elaborate teorie scientifiche e filosofiche, che tutti gli studi e le Summae, opera dell’uomo, non erano che grandi, preziose cornici di un’unica opera d’arte, la Vita. Quella vita che scorre come viriditas, come anima mundi, nel più piccolo filo d’erba e nell’essere vivente più apparentemente insignificante, che tale non è, proprio perché la possiede. Per questo ci piace chiudere queste riflessioni su Ildegarda con un riferimento alla donna, lo scrigno della vita, e, per lei, la personificazione dell’Amore, la splendida figura femminile che, nell’opera della profetessa si autodefinisce in questo modo:

«Sono l’energia suprema e fiammeggiante che trasmette fuoco a ogni vivente scintilla … sono la lucente vita dell’essenza divina; scorro splendente sui campi, brillo sulle acque, brucio nel sole, nella luna e nelle stelle … Insieme al vento ravvivo tutte le cose con energia invisibile e onnipresente … Forza che penetra fino alle più alte altezze e in  tutte le profondità, che lega insieme e fa maturare tutte le cose … da lei le nubi ricevono il loro movimento, l’aria il suo volo, le pietre la loro consistenza, per lei l’acqua zampilla in ruscelli e per causa sua la terra fa nascere le piante …».

Qualcosa dunque di profondamente femminile, una forza diffusiva di disponibilità infinita.

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UN’INDUBBIA OMOLOGIA

 

Ki in lingua giapponese o Chi chiamata dai cinesi è l’Energia che si manifesta in ogni cosa vivente e non vivente. Nella lingua italiana viene comunemente tradotta come “Energia vitale”, nella lingua indiana è conosciuta come Prana. Ogni cosa vivente ha la sua energia che, aggregandosi alle molecole dà origine a quella che comunemente intendiamo per vita: c’è il Ki delle piante, il Ki degli animali e il Ki dell’uomo. Anche ciò che “non è vivente” ha la sua energia che ne tiene insieme le molecole e le fa manifestare: c’è il Ki del sole, il Ki della terra, il Ki del cielo, dell’acqua, della pietra, dell’aria ecc. Il Ki pulsa anche ad altri livelli, che la nostra razionalità ha collocato in un mondo a parte: sono le illusioni, i pensieri, i sogni. Secondo gli alchimisti e gli antichi saggi cinesi l’Energia Vitale, o Ki, è in realtà, la struttura stessa della persona e la conoscenza del Ki è la conoscenza dell’energia che vibra dentro ognuno di noi. Una buona vibrazione energetica in armonia cellulare corrisponde ad una corretta circolazione del Ki che crea un moto armonioso in ogni parte del corpo, viceversa una vibrazione energetica con una disarmonia cellulare crea cattiva circolazione, ristagno e squilibrio del flusso del Ki dando origine a quel cattivo funzionamento chiamato “malattia”. (amoreiki.it).

 

La scaturigine dei particolari Ki sopra descritti è ovviamente la medesima, cioè lo Shin Ki 神気: Spirito divino/Dio. L’ideogramma神è detto Shin con lettura cinese, Kami con lettura giapponese.

 

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8 commenti

  • Astore ha detto:

    Le opere scientifiche di Santa Ildegarda, se non sono visioni, vanno lette col metodo scientifico, perché l’intento di Ildegarda è quello di fare scienza.
    Se invece sono frutto di visioni, vanno interpretate attraverso la teologia, o, almeno, anche attraverso di essa.
    Riguardo al prana e ai metodi di meditazione orientale, dico solo di fare molta, attenzione e ancora di più…

  • luca antonio ha detto:

    Molto bello.
    Singolare e notevole il fatto che il veggente Gustavo Rol identificasse e visualizzasse la sua capacita’ di leggere i pensieri altrui e l’unione con il tutto con il colore verde, in una intervista afferma che tutto comincio’ con la focalizzazione del pensiero sul colore verde, colore che a suo dire gli apri’ le porte delle sue capacita’.

  • Brasi ha detto:

    Ho conosciuto S. Ildegarda un po’ di mesi fa grazie a Don Minutella che ne ha parlato una mattina, da allora mi sono messo a cercare libri in biblioteca e non ho smesso di consultare i consigli della Santa tanto che la spesa ormai la faccio in base a quelli. Mi sono messo in contatto con dei medici Ildegardani bravissimi, cattolici devoti, come tanti di noi hanno messo in pericolo il proprio lavoro e potete immaginare perché💉. Consiglio vivamente di seguire le cure di S. Ildegarda, aiutano veramente. A questo link una testimonianza dal minuto 10:00 https://youtu.be/2L3TXDtHMIU

  • Mimma ha detto:

    Bellissimo post.
    Non si può certo negare che il Matto è proteso alla ricerca della Verità!
    Proprio questo me lo rende simpatico.
    Ildegarda è immensa : nelle sue Visioni il microcosmo viene spiegato come proiezione del macrocosmo.
    Ogni parte del corpo umano e ogni azione dell’uomo sono in corrispondente sintonia con tutto il creato: con i venti, con le stagioni, con le stelle, con il mare e con i fiumi.
    La terra e l’uomo hanno cicli simili e si influenzano a vicenda.
    Vi spiega perche alcuni uomini perdono i capelli e altri no; perché l’ombelico dirige i flussi delle viscere e vi consiglia di non mangiare molto né poco.
    Ciò che più mi ha colpito è però, nell’interessante articolo, l’osservazione di Carchia sulle origini della malinconia, come nostalgia di una pienezza perduta…, e fella necessità di perdonare e perdonarsi per non restare vittime fell’acefia o della disperazione.
    Ho sempre pensato che l’anima mantenga vivo il ricordo del Creatore, che essa ha visto nell’attimo in cui é stata creata, perfetta, prima di ” essere precipitata”, per cosi dire nel grumo di cellule che si svilupperanno in essere umano e di ” sporcarsi ” con il peccato originale.
    Da questo ricordo forse deriva all’umanità l’anelito al divino, al bello, al vero, alla giustizia; il desiderio di perfezione e il dolore di non poterla mai raggiungere.
    Ma noi abbiamo Gesù, Fonte d’Acqua viva, Consolazione perfetta, Ristoro sicuro.
    ” La salvezza viene dai Giudei ” ci ha detto oggi.
    Ci basta.
    Grazie, Matto!

  • Enrico Nippo ha detto:

    Bellissimo! 😄