Arrivano i Giorni della Merla, e della Mimma. Benedetta De Vito.

28 Gennaio 2023 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, la nostra Benedetta De Vito offre alla vostra attenzione questo racconto delicato e delizioso su un episodio della sua infanzia. Buona lettura.

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Per me, la Mimma, aveva un occhio e il cuore di riguardo perché anche lei era nata, come me, nel giorno dell’Immacolata concezione. E io, con lei, trascorsi molte e molte ore, al mattino, quando, ebbi una misteriosa quarta malattia, che mi tenne a casa quattro mesi da scuola. Per la Mimma, insegnare era “imparare” ed era verbo transitivo con il complemento oggetto e il verbo al complemento di termine e mozzo nella coda.

“Ti imparo a stirà”, mi diceva ed era come se mettesse me – proprio io, piccola io – al centro dell’azione e lei, spettatrice, dall’alto mi guardasse mentre apprendevo, diciamo così per osmosi da lei, che nulla, però, insegnava. Imparavo, ho imparato. E mi raccontava le storie del paese suo che si chiamava Campoli Appennino ed era in Ciociaria, alto sul Parco nazionale dell’Abruzzo. Un giorno, poiché eravamo proprio a fine gennaio e io tossivo ancora, mi raccontò dei giorni della merla.

E come lei me lo ha raccontato lo riporto. Mi disse, dunque, che la merla, nel senso della graziosa signora del merlo (color grigio polvere lì dove lui è lucido di penne nere) non c’entra un bel nulla e che quei giorni si chiamano così perché è allora che sbocciano, sulle colline aride e invernali, le avanguardie delle primule. E che “merla” altro non è che primula in dialetto, una parola, diciamo così, come una vecchia pantofola ciancicata dall’uso. Mi spiegò anche che, per i paesani, i giorni della merla, pur freddi, freddissimi, erano speranza che la primavera, nel suo bel vestitino color giallo primula, sarebbe presto giunta a rinverdir le erbette, a richiamar le rondini e a far fiorir le rose.

E ora, lasciamo per qualche minuto la Mimma a fare i casi suoi, e in balzo sono in Sabina, che è, per motivi miei, terra per me d’amore. E’ gennaio, fine gennaio, e sono dalle parti di Ginestra, un nome che splende come un fiore d’oro tra le belle, colline sabine dove gli ulivi, in filari, fanno da collane ai colli. Cammino nel gelo che morde e tutt’intorno è color del fango, per terra paciughi di foglie d’autunno, umido il sentiero.

D’un tratto, e chiamo mio marito, il cuore palpita e s’accende: su un terrapieno scosceso, biondeggiano in grazia tante primule che sembrano chiamarmi da lontano per annunciarmi la buona novella, che cioè, sotto la neve, il seme è vivo, la vita rinasce in eterno fluire, E che questo era il segreto che i sabini regalarono ai cugini romani nel Dio Quirino, che ancora oggi si ricorda sul Colle più importante di Roma, il Quirinale, lì dove sedettero prima i Papi, poi i Savoia e ora il Presidente della Repubblica, che è la carica più alta del nostro povero Paese.

Presto, caro lettore, è ora di far di nuovo due bagagli e di seguirmi, se le andrà, in una gita mia di bimba a Campoli Appennino, nel paese chiacchierino della Mimma. Era una domenica di maggio, il cielo dipinto d’azzurro, il sole come un paolo d’oro, e il paesello si animò, curioso, al nostro arrivo. Le case sorridevano alla famiglia romana giunta dalla Capitale. Una casetta d’ombre e di scale ci offrì riparo e riposo. Poi vennero le visite. Primo tra tutti, il fratello della Mimma che era tale e quale a lei solo in forma maschile. Lei era  Mimma Toto e suo fratello era Salvatore Toto e quindi Totò Toto.

Lei, da noi a tener la casa linda, lui (però io non lo avevo veduto mai) veniva a volte e a volte no per tagliare i vestiti su misura del papà, ché Totò era il sarto del paese e come tagliava lui le pezze non ce n’erano mica tanti, come diceva mia madre che, come si sa, di stoffe era maestra e anche di stile. Totò Toto, mentre gli altri chiacchieravano dabbasso, mi portò in alto, in alto e affacciata al balcone che come tutti i balconi che si rispettino aveva vista sul panorama, e mi indicò, laggiù, il Parco nazionale dell’Abruzzo e che non lo vedevo , mi chiese, l’orso bruno? Non c’era l’orso, figuriamoci, ma io lo vidi o forse lo sognai, quell’orso, che ancora oggi è parte del mio sogno di Campoli Appennino.

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1 commento

  • OCCHI APERTI! ha detto:

    Avevo gran bisogno di “riposo”. E non lo prendo mai! ma qui talvolta mi riesce bene, chè parole vestite di grazia e garbo creano una bolla di silenzio in cui spegnere tutto il vano cianfrugliare che ci inghiotte.

    Solo l’orso mi ha acceso una nostalgia grande. Di qualcuno che da poco ci ha lasciati e che mi pare di avere dentro, ben più che se fosse vivo, perchè nel distacco tutto appare più nitido e penetrabile.

    Benedetta, di cuore, grazie.