Caliari: Quanto è Bello e Buono che i Fratelli Vivano Insieme. Meditazione per il Natale.

21 Dicembre 2021 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Gian Pietro Caliari ci offre questa riflessione sul tempo di Avvento in preparazione al Santo Natale. Lo ringraziamo di cuore, augurando a lui e a tutti i lettori giorni sereni, e migliori. Buona lettura. 

§§§

Domenica 19 dicembre 2021

Santuario della Madonna della Neve

Giornata delle Famiglie in preparazione del Santo Natale

(Salmo 132 e Luca 2, 1-11)

 

Deus ut homines deos faceret factus homo

 

            Care Mamme e cari Papà,

            Carissimi amici, socii et comites,

            “Ecco quanto è molto buono e bello e quanto è gioioso che i fratelli vivano insieme!”

            Così abbiamo pregato, con le parole del Salmo 132, per iniziare questo nostro incontro

 

הִנֵּ֣ה מַה־טּ֭וֹב וּמַה־נָּעִ֑ים hinné ma-tov uma-na’in, recita il testo originale ebraico e solo così, almeno sentendolo, ne possiamo capire tutta la grandezza e l’importanza.

 

Hinné ma-tov, infatti, è ciò che l’Eterno constata al termine dell’intera creazione, come leggiamo al versetto 31 del primo libro di Genesi: וַיַּ֤רְא אֱלֹהִים֙ אֶת־כָּל־אֲשֶׁ֣ר עָשָׂ֔ה וְהִנֵּה־ט֖וֹב מְאֹ֑ד וַֽיְהִי־עֶ֥רֶב Va-yàr elohim et-kol-aher asah hinné ma-tov: “E vide Dio quanto aveva fatto ed era cosa molto buona e bella” (Genesi 1, 31).

 

“Ecco quanto è molto buono e bello e quanto è gioioso che i fratelli vivano insieme!”

 

Così anche pregavano, con questo stesso Salmo, gli ebrei che “salivano al monte di Sion”, vale a dire a Gerusalemme, in occasione dei tre grandi pellegrinaggi annuali, prescritti dalla Legge Mosaica.

 

Cosi pregavano e anche noi preghiamo, per ricordarci la preziosità e la fecondità del nostro essere insieme.

 

Sì! Perché questo nostro essere e vivere insieme è buono, è bello, è gioioso!

 

è הִנֵּ֣ה מַה־טּ֭וֹב וּמַה־נָּעִ֑ים hinné ma-tov uma-na’in perché proviene dalla stessa gioiosa Bontà e Bellezza di Colui che ha creato ogni cosa visibile e invisibile e l’ha dichiarata hinné ma-tov: cosa molto buona e bella!

 

La preziosità della fraternità è paragonata nel Salmo a quella dell’olio prezioso e profumato che è usato – secondo la Legge di Dio stesso – per consacrare Aronne, il primo dei sacerdoti dell’Antica Legge, e dopo di lui tutti gli altri sacerdoti e re d’Israele.

 

Leggiamo, infatti, nel libro dell’Esodo:

 

“Il Signore parlò a Mosè e disse: Procùrati balsami pregiati: mirra vergine per il peso di cinquecento sicli, cinnamòmo odorifero, la metà, cioè duecentocinquanta sicli, canna odorifera, duecentocinquanta, cassia, cinquecento sicli, e un hin d’olio d’oliva. Ne farai l’olio per l’unzione sacra, un unguento composto secondo l’arte del profumiere: sarà l’olio per l’unzione sacra” (Esodo 30, 22-25).

 

Ma quanto costerà mai – possiamo chiederci – questo prezioso unguento che l’Eterno chiede a Mosè di preparare?

 

Quale somma sarà necessaria per trasformare un hin di olio di oliva, vale a dire una piccola anfora di poco più di sei litri, in un prezioso balsamo destinato all’unzione sacra?

 

In una modesta anfora di olio, Dio ordina a Mosè di aggiungere – come abbiamo ascoltato – un totale di 1.500 shekel di erbe preziose e aromatiche: l’equivalente di 8 chili di mirra vergine;  di 4 chili di cinnamòmo profumato, di 4 chili di canna aromatica, e infine di 8 chili di cassia.

 

Un totale di 24 chili di erbe aromatiche per soli sei litri d’olio!

 

Ai tempi in cui il testo mosaico venne scritto uno shekel, un siclo, equivaleva a circa 14,46 grammi d’argento.

 

Moltiplicando per 1.500, arriviamo a 21.690 grammi che – solo considerando il valore attuale dell’argento che è di 0,60 Euro al grammo – ci da la somma di  circa 13.000 Euro.

 

All’enormità del costo per solo sei litri di olio, l’Eterno non manca di aggiungere un’ultima e decisiva istruzione.

 

Mosè dovrà preparare quest’olio prezioso: רוֹקֵ֑חַ מַעֲשֵׂ֣ה ma-‘ă-śêh rō-w-qê-aḥ secondo l’arte del profumiere.

 

E, in che cosa consiste – potremmo ancora chiederci – la ‘ă-śêh rō-w-qê-aḥ  l’arte del profumiere?

 

Un profumiere é capace di differenziare e riconoscere circa 5.000 aromi diversi, ma tutto ciò non basta.

 

Il vero profumiere, infatti, deve essere in grado di combinare gli aromi in maniera armoniosa, affinché il risultato finale sia una gradevole fragranza.

 

Un profumo, infatti, non una semplice mescolanza di aromi, ma deve possedere armonia aromatica.

 

Sì, in verità! Assai complessa è questa ricetta aromatica e abilissimo ne deve essere il profumiere!

 

Ma quanto più complessa e ardua è la ricetta della vera fraternità?

 

Quanto è più esigente e impegnativa la nostra ambizione di essere amici, socii et comites?

 

Sì, dobbiamo ammetterlo! Il Dio di Abramo, d’Isacco e  di Giacobbe ha indicato a Mosè una ricetta così costosa, che può apparire uno spreco, ma che ben riflette la generosità gratuita di Colui che dal niente ha fatto ogni cosa!

 

Sì, ben lo sappiamo che il vivere insieme, il camminare insieme, il crescere insieme come amici, socii et comites è un dono costoso, è un cammino arduo, è una ricerca e uno sforzo esigente e impegnativo.

 

Sì! è una grazia! Ma è una grazia a caro prezzo!

 

Eppure, ben lo sappiamo! è hinné ma-tov: cosa molto buona e bella!

 

La fraternità, tuttavia, per il salmista sembra superare la stessa dignità sacerdotale conferita con quel preziosissimo unguento.

 

Infatti – come abbiamo letto e pregato – nella fraternità quell’olio profumato deborda dal capo di Aronne, per scendere sulla  sua barba e da questa fino all’orlo estremo della sua veste.

 

La fecondità della fraternità è, poi, paragonata alla rugiada, che scende dal più alto dei monti, al confine settentrionale d’Israele.

 

Dalla superba vetta dell’Hermon, a 2.760 metri d’altezza, la rugiada scende sulle aride terre della Palestina così che – come annuncia il Profeta Isaia – “Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e fiorirà come la rosa; si coprirà di fiori, festeggerà con gioia e canti d’esultanza; le sarà data la gloria del Libano, la magnificenza del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio” (Isaia 35, 1-3).

 

Sì! Prezioso e fecondo è questo nostro essere e camminare insieme, che ci fa dire che siamo amici, socii et comites!

 

Sì! Prezioso è questo nostro essere e camminare insieme, per vincere l’individualismo radicale di una società – che ci circonda e in cui viviamo – ma che ha tragicamente smarrito il senso ultimo e le ragioni stesse del vivere insieme!

 

Sì! Fecondo è il nostro essere e camminare insieme, per cercare quelle ragioni del vivere, del credere, dello sperare e dell’amare, in un mondo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche chiama: “Nichilismo”.

 

 

Viviamo, in verità, in un globalismo nichilista dove ““si va costituendo una dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” (Joseph Ratzinger, Missa pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005).

 

Viviamo in una storia dove manca il fine vero del vivere; dove è assente ogni risposta al perché del vivere; e dove anche i valori supremi perdono ogni valore, a favore del quotidiano e dilagante chiacchiericcio di sempre nuovi e sempre più aggressivi maestri del nulla.

 

Viviamo in un tempo contrassegnato dal secco deserto della razionalità; in quella tragedia – che già è sotto i nostri occhi – e dove totalitarie ideologie del pensiero liquido e globalista hanno come solo fine e obbiettivo di considerare “l’uomo come una semplice materia grezza, che deve essere manipolata da autorizzati maestri, totalmente asserviti solamente ai loro istinti naturali” (Clive Staples Lewis, The Abolition of Man, Oxford, 1944, p. 21).

 

Viviamo, già, in mondo distopico e dispotico, dove i valori e la morale della maggioranza sono dettati, imposti e controllati da una piccola minoranza che vieta agli individui ogni capacità razionale e di autodeterminazione.

 

In un mondo in cui – come scriveva l’autore delle Cronache di Narnia – è in atto il folle progetto ideato da chi vuole semplicemente ma realisticamente: l’abolizione dell’uomo!

 

L’uomo isolato, considerato una nomade indifferenziata, senza radici culturali e nazionali, senza identità personale né sessuale né famigliare: solo un oggetto trai i tanti, individuabile tramite un QR Code, come una merce in uno scaffale!

 

L’uomo, un sicuro e pericoloso nemico per il Pianeta Terra di cui è un mero parassita, e un criminale e potenziale pericolo per i suoi simili, da tenere a debita distanza, non per ragioni sanitarie ma per esigenze antropologiche.

 

L’uomo, privato della sua identità e possibilmente, provvisto di museruola per non disturbare i Padroni del Caos, che col favore delle tenebre impongono un nuovo totalitarismo sanitario, dove la salute non è più benessere, ma mera sopravvivenza.

 

L’uomo, atterrito, denudato della sua originale e divina dignità, dei suoi inviolabili e inalienabili diritti, che pur di sopravvivere costi quel che costi, che per salvare la mera vita e che pur di salvare la pelle, rinuncia al tutto di se stesso e si consegna mani e piedi  a quella che il filosofo francese Etienne De la Boétie, già chiamava nel 1533, la servitude volontaire: la schiavitù volontaria (cfr. Discours de la servitude volontaire, Paris, 1995).

 

Carissimi amici,

 

come scriveva George Orwell – viviamo “In a time of universal deceit, telling the truth is a revolutionary act”.

 

Sì, viviamo in un tempo “d’inganno universale, dove dire la verità è già un atto rivoluzionario”  (Animal Farm, London, 1945, p. 178).

 

A tutto ciò, a queste sfide che ci attendono noi rispondiamo con una semplice e radicale verità, con un coraggioso, eroico, supremo, e non inutile atto rivoluzionario: “Ecco quanto è molto buono e bello e quanto è gioioso che i fratelli vivano insieme!” .

“Ecco, com’è buono e giocondo che i fratelli vivano nell’unità! – scriveva sant’Agostino d’Ippona –  È soave quanto la carità che spinge i fratelli a convivere formando una unità. […] Da questa armonia, infatti, sono stati destati quei fratelli che maturarono il desiderio di vivere nell’unità. Questo verso fu per loro come una tromba: squillò per il mondo ed ecco riunirsi gente prima sparpagliata” (Ennaratio in Psalmos 132, 1).

 

Questa fraternità, tuttavia, non è un sogno indefinito né un’utopia populista né un accomodamento al pensiero dominante e anestetizzante di un “Fratelli tutti”, dell’indistinto senza ragione, senza fede e senza radicati e supremi valori.

 

Per noi tutti questa vera fraternità è e deve sempre essere una reale e concreta esperienza: quella di essere radicalmente amici, socii et comites.

 

E se essa è buona e produce frutti è perché essa non è il mero risultato di un impegno e di uno sforzo puramente umano.

 

Come ci ha ricordato il salmo solo salendo verso Gerusalemme, là dove abita la Shekinàh dell’Onnipotente, la sua Gloria e la sua stessa Presenza:

 

“Là il Signore dona benedizione e la vita per sempre!”

 

La vera fraternità, infatti, può essere solo il riflesso dell’unità, della bontà e della bellezza di Dio stesso, da cui solo può discendere ogni dono perfetto.

 

Ce lo ricorda con chiarezza nella sua lettera alle prime comunità cristiane, l’Apostolo san Giacomo:

 

“Non lasciatevi ingannare, fratelli miei carissimi; ogni buona donazione e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre dei lumi, presso il quale non vi è mutamento né ombra di rivolgimento“ (Giacomo 1, 16-17).

 

הִנֵּ֣ה מַה־טּ֭וֹב וּמַה־נָּעִ֑ים hinné ma-tov uma-na’in: O come è molto buono e bello e gioioso!

 

Come un vero dono, allora, accogliamo oggi fra noi Tommaso, Andrea e Andrea, i loro carissimi genitori e le loro famiglie.

 

Vi accogliamo di cuore in questa così dispendiosa esperienza, che è ancor più preziosa dell’olio preparato da Mosè per ungere Aronne!

 

Vi accogliamo, di cuore, in questa esigente esperienza che richiede ancor maggior perizia di quella dell’arte del profumiere.

 

Vi accogliamo, di tutto cuore, in questa feconda esperienza che  – come ci ricordava il profeta Isaia – eguaglia e persino supera la fecondità della rugiada dell’Hermon, che fa fiorire il deserto e la terra arida, che trasforma la solitudine in gioia, che inonda la terra di canti d’esultanza; che ha la stesa gloria del Libano, del Carmelo e di Saron e che, infine, è semplice, ma puro e potente riflesso della gloria e della  magnificenza del nostro Dio.

 

Vi accogliamo in questo umile ma sicuro ed entusiasmante cammino         che noi semplicemente chiamiamo: diventare ed essere amici, socii et comites; vivere e crescere da amici, da socii et comites!

 

E se questa nostra impresa, vi potrà sembrare un progetto impossibile, irrealizzabile, utopico – perché distante, dissonante, e persino in opposizione al pensiero dominante, ai nuovi precetti totalitari del mainstream, del politicamente corretto e moralmente corrotto, delle èlites globalizzate e globalizzanti, a noi tutti e a voi, ricordiamo le parole che Seneca rivolgeva al suo discepolo Lucillo:

 

“Multa non quia difficilia sunt non audemus, sed quia non audemus difficilia sunt”:

 

“Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che le cose sono difficili” (Lucio Anneo Seneca Epistulae morales ad Lucilium, Liber XVII, 104: 261, 1).

 

Carissimi Tommaso, Andrea e Andrea, a voi e alle Vostre famiglie: benvenuti e benvenuti di cuore!

* * *

            Carissimi amici,

 

il nostro sguardo si volge oggi verso quel grande Mistero che è il Natale del Signore: la sua nascita nel mondo avviene nell’umiltà di un’anonima grotta di Betlemme, adibita a stalla, e il suo corpo d’infante è deposto in una mangiatoia, perché come annota il Vangelo di Luca – che abbiamo appena ascoltato – “non vi era posto per loro nella stanza comune”.

 

In questi ultimi decenni, sono scorsi fiumi d’inchiostro e oceani di parole per inneggiare a un pauperismo zuccheroso di una teologia da quattro soldi, che legge questo fondamentale testo dell’Evangelista Luca, come fosse il contro-canto del celebre inno della Terza Internazionale Socialista.

 

A ben altra lettura, in realtà, il testo lucano si presta nella sua sintetica narrazione ricca di contrasti e significati reconditi in quella che i Padri della Chiesa hanno chiaramente inteso come il manifestarsi del mysterium Pietatis Dei, il mistero della pietà di Dio, in contrapposizione al mysterium iniquitatis hominis, il mistero dell’iniquità dell’uomo.

 

Il testo di San Luca presenta subito una chiara antinomia fra Augusto e Gesù, fra l’Impero Romano e le sue pretese messianiche per l’umanità e il vero Messia che nasce a Betlemme, fra gli ordini di un Cesare romano e la lieta novella di un Bimbo, che giace in una mangiatoia.

 

“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio”.

 

Salito al potere nel 27 a. C., Ottaviano ricevette tre anni dopo dal Senato il titolo greco di σεβαστός, sebastòs, vale a dire di “adorabile”, nel senso che si può adorare: augustus in latino.

 

Nel 12 a. C., poi, lo stesso Ottaviano Augusto è proclamato dal Senato di Roma “sacerdos summus et pontifex maximus”, sommo sacerdote e pontefice massimo.

 

Nell’epigrafe di Priene del 9 a. C. possiamo leggere di lui: “La provvidenza, che divinamente dispone la nostra vita, ha colmato quest’uomo, Ottaviano Augusto, per la salvezza degli uomini, di tali doni da mandarlo a noi e alle generazioni future come nostro σωτήρ, come nostro salvatore […] A partire dalla sua nascita deve cominciare un nuovo computo del tempo” (cfr. A. Stoger, Das Evangelium nach Lukas, Dusseldorf, 1963, p. 74).

 

 

 

 

 

 

Proprio perché σωτήρ, salvatore per definizione, gli ordini imperiali nel gergo burocratico dell’Impero erano chiamati εὐαγγέλιον, eu-anghéllion, vale a dire buona notizia, e poco importa – se come nel caso di quel censimento – la buona notizia era un sicuro aumento delle tasse, o finanche che l’εὐαγγέλιον, eu-anghéllion, dell’Imperatore comunicasse una condanna a morte o la repressione nel sangue di una delle tante rivolte che avvenivano nella Palestina di allora, provincia imperiale di Roma.

 

Sappiamo dall’Index Rerum a se Gestarum del Monumento Ancirano che Augusto, giunto al potere, ripristinò anche lo strumento del censimento e ne condusse a termine egli stesso tre negli anni 28 e 8 a. C. e 14 d. C.

 

Ai censimenti imperiali, che riguardavano solo i cittadini romani, seguivano a distanza di tempo, i censimenti riservati ai sudditi dell’impero e che erano guidati da inviati speciali dell’Imperatore, che avevano anche l’incarico di celebrare i tre lustra censoria (sacrifici censorii) che accompagnavo a intervalli di cinque anni lo svolgimento del censimento stesso.

 

L’evangelista Luca, dunque, nell’introdurre la sua narrazione accenna prima all’editto di Cesare e, poi, all’opera dell’inviato di Augusto, il proconsole Quirino, in Siria e Palestina.

 

 

Il censimento romano aveva non solo lo scopo di contare il numero degli abitanti dell’Impero, ma anche quello di compilare le λαογραϕία laografia, le liste dei contribuenti, sulla base del censo e dei loro possedimenti.

 

Ecco perché anche Giuseppe, “con Maria sua sposa che era incinta”, deve compiere quel viaggio da Nazareth a Betlemme di 157 chilometri, non solo per denunciare la loro esistenza nei confini dell’Impero, ma anche per indicare con una traditio brevi manu – un gesto della mano a breve distanza dal bene posseduto – le res di cui Giuseppe era dominus – le sue eventuali proprietà a Betlemme – che così erano ufficialmente censite per il pagamento delle tasse.

 

Il viaggio di Giuseppe e di Maria, da Nazareth a Betlemme, non è dunque quello di due profughi scappati di casa, ma quello di due pii ebrei che conservando nel cuore la più ferma obbedienza alla Legge della Toràh – alla Legge di Dio – prestano conveniente e ragionato ossequio alla legge dell’autorità del loro tempo.

 

Nè Augusto, padrone del mondo, né Quirino, suo fedele esecutore in Siria e Palestina, tuttavia, avrebbero mai potuto pensare che le loro decisioni, mentre Roma era al culmine della sua potenza, avrebbero, in realtà, compiuto solo ciò che era stato già disposto dall’infinita Provvidenza Divina:

 

“E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5, 1): così, come aveva profetato Michea sette secoli prima dell’Evento che si compie a Betlemme.

 

Betlemme בֵּיִת לֶחֶם Beit Leḥem, in ebraico la Casa del Pane!

 

Sì, la Casa del Pane doveva essere il luogo dell’incarnazione del Figlio di Dio, di Gesù il Nazareno che proclamerà: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Giovanni 6, 35), e ancora: “Io sono il pane  vivo disceso dal cielo” (Giovanni 6, 41).

 

Augusto, il σωτήρ romano, viene per censire e, dunque, per prelevare e spogliare.

 

Gesù, al contrario, viene per dare e per darsi come pane della vita che estingue per sempre l’insaziabile fame di vita, di senso e d’infinito che abita nel cuore dell’uomo!

 

Gesù dona tutto! Gesù non toglie nulla!

Augusto, il  σωτήρ romano – come ci ricordano le Historiae Romanae dello storico latino di lingua greca Lucio Cassio Dione – nell’11 a. C. “con denaro raccolto dal popolo fece erigere a Roma tre statue: una in onore della Salute Pubblica, una in onore della Concordia e una in onore della Pace […] Ordinò, poi, che fosse chiuso il tempio di Giano, supponendo – chiosa ironicamente le storico – che il tempo delle guerre fosse per sempre tramontato” (o.c. LIV, 35).

Gesù, al contrario, è un σωτήρ di tipo diverso. Egli è il Salvatore!

 

La Salvezza di Cristo non si rivolge a un periodo del tempo ma interessa la Storia intera.

 

La Salvezza di Cristo non si rivolge a un luogo specifico ma è universale e cosmica.

 

La Salvezza di Cristo non si rivolge a uno specifico popolo ma interessa l’intera umanità e ogni singolo individuo.

 

Di più, la Salvezza di Cristo interessa l’uomo nella profondità del suo essere e lo apre al vero Dio.

 

 

 

La Salvezza di Cristo non si illude, come Augusto di chiudere il tempio di Giano, per così risparmiare all’uomo guerre, ingiustizie, sofferenze e morte.

 

La Salvezza di Cristo non vuole chiudere il cuore dell’uomo. Lo vuole aprire alla Salvezza e lo vuole liberare!

 

Perché la vera ingiustizia non è la mancata redistribuzione dei beni e la disuguaglianza, la vera ingiustizia risiede nella radicale malvagità del cuore dell’uomo, privato del suo eterno orizzonte.

 

Augusto e il suo Impero appartengono al passato; Gesù Cristo, il Salvatore, è, invece, il presente e, soprattutto, il futuro.

 

“Christus heri, hodie et semper” (Ebrei 13, 8); Cristo ieri, oggi e sempre!

 

La παρουσία, parusìa, cioè l’arrivo e la presenza di Augusto o dei suoi inviati era annunciata da squilli di trombe e rulli di tamburi e, soprattutto, da nuove tassazioni.

La παρουσία, parusìa di Gesù, la sua presenza come עִמָּנוּאֵל ‘Īmmānū’ēl, come Dio è con noi (Matteo 1, 23) è annunciata, invece, dalla voce rassicurante dell’Angelo ai pastori: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore”.

L’angelo non annunzia un σωτὴρ, sotér, umano ed estraneo dalla Storia di Salvezza che Dio ha intrecciato con il Popolo d’Israele ma un Salvatore che χριστὸς κύριος, Xristòs Kùrios, cioè Unto e Signore, l’atteso Messia che è un “virgulto di Iesse”: il compimento di tutte le promesse fatte a Israele nell’Antico Testamento.

All’εὐαγγέλιον, eu-anghéllion, del Cesare romano che annunciava nuove tasse, nel migliore dei casi, ma anche devastazione e morte, l’angelo annuncia invece: Μὴ φοβεῖσθε, Non temete! ἰδοὺ γὰρ εὐαγγελίζομαι ὑμῖν χαρὰν μεγάλην ἥτις ἔσται παντὶ τῷ λαῷ: ecco infatti vi porto una buona novella per voi di gioia grande che sarà di tutto il popolo”.

Sì, l’Angelo εὐαγγελίζομαι annuncia una certa e buona novella,  al contrario dell’arbitrio e del capriccio del σωτήρ romano!

Sì, l’annuncio dell’Angelo porta una χαρὰν μεγάλην, una grande gioia, al contrario dei sentimenti che l’occupante romano suscitava nell’oppresso popolo d’Israele.

E questa gioia non è riservata agli esclusivi circoli della corte imperiale romana .

 

Sì, questa gioia dell’avvento del vero e unico σωτήρ è per παντὶ τῷ λαῷ, per tutto il popolo!

Al mysterium iniquitatis, al mistero dell’iniquità di cui tutta la Storia umana è intessuta, con le sue pretese, le sue menzogne e contraffazioni, Luca narra l’avvento dell’unico e vero σωτὴρ, sotèr, dell’unico e vero Salvatore; e annuncia il vero εὐαγγέλιον, eu-anghéllion, l’unica e vera buona notizia, che è di vita e non di morte, che è di liberazione e non di schiavitù.

Perché questo σωτὴρ, sotèr Gesù di Nazareth e il suo εὐαγγέλιον, eu-anghéllion, entrambi vengono non dall’uomo ma da Dio stesso!

Il vero Salvatore e il vero Vangelo della Vita sono il mysterium  pietatis Dei che si contrappone al mysterium iniquitatis hominis.

 

Ai tanto proclamati e celebrati, spesso autoproclamati, salvatori dell’uomo e del pianeta di ogni tempo e di ogni luogo, il primo e risoluto messaggio di questo testo del Vangelo di Luca è che solo Cristo salva e libera e che solo il suo Vangelo, solo la sua buona novella dona al mondo una gioia grande e vera.

 

Come scrive l’Apostolo Paolo ai Romani: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo (Romani 10, 9).

”Ora, mentre si trovavano in quel luogo” – abbiamo letto ancora nel Vangelo di Luca –  “si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”.

 

L’Evangelista Luca annota con cura questi due gesti che Maria compie.

 

Il primo ci appare del tutto normale: “lo avvolse in fasce”; e questo non diversamente da quanto avrebbe fatto qualunque altra giovane e assennata madre per proteggere il suo bambino dai rigori di una notte invernale.

 

Ma, poi, l’Evangelista aggiunge un’altro dettaglio: “Lo depose in una mangiatoia”. Il testo greco recita così: “καὶ ἀνέκλινεν αὐτὸν ⸀ἐν φάτνῃ”, che una più accurata traduzione dovrebbe rendere meglio così: “e reclinò quello in mangiatoia”.

 

Questa precisa traduzione del testo lucano mi venne subito in mente nel settembre del 1998, quando, giunsi di nuovo e dopo molti anni nuovamente a Betlemme e ammirai i nuovi e fiammeggianti tabelloni posti in arabo all’ingresso della Città, dalla recentemente costituita Autorità Nazionale Palestinese.

 

בֵּיִת לֶחֶם , Beit Leḥem, la casa del pane, era ora diventata in arabo Bayt Laḥm, la “casa della carne”.

 

Betlemme, la casa della carne, dove sempre risuona quel rapido e semplice versetto che nel Vangelo di San Giovanni racchiude tutto il grande mistero dell’Incarnazione: Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν: “E il Verbo carne si fece e pose la sua tenda fra di noi” (Giovanni 1, 14).

 

Maria “inclina in mangiatoia” il Dio fatto carne, il corpo di un infante, di un bambino senza parola, ma che dirà al mondo e noi la più potente e liberante delle parole: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Giovanni 6, 54-55).

 

Sì, perché non c’è parola più potente e liberante di quella che libera dalla morte, e dalla stessa paura della morte!

 

Che ci libera da quella indicibile paura che quando si trasforma in terrore, fa sì che per paura di morire si smetta di vivere!

 

Quel bimbo “inclinato in mangiatoia” e Colui che da alla nostra vita la certezza di un’orizzonte infinito: la vita eterna!

 

“E il Verbo carne si fece e pose la sua tenda fra di noi” (Giovanni 1, 14), quel Verbo che ci dirà: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Giovanni 6, 56).

 

Dio, il vero Dio, Creatore di tutto, ha percorso come uomo le nostre strade, entrando nel tempo dell’uomo, per comunicarci la sua stessa vita (cfr 1 Gv 1,1-4).

 

E lo ha fatto non con lo splendore e la prepotenza dell’Augusto romano, che assoggetta con il suo potere il mondo, ma con l’umiltà di un bimbo, che libera il mondo!

 

“La nostra natura, malata, richiedeva d’essere guarita; decaduta, domandava d’essere risollevata; morta, invocava di essere risuscitata. Avevamo perduto il possesso del bene; era necessario che ci fosse restituito. Immersi nelle tenebre, occorreva che ci fosse portata la luce; perduti, attendevamo un salvatore; prigionieri, un soccorritore; schiavi, un liberatore” (San Gregorio di Nissa, Oratio catechetica, XV, 3).

 

Care Mamme e cari Papà,

 

io e voi – non possiamo nascondercelo – siamo i figli del baby-boom e della società consumistica.

 

Giustamente e razionalmente, abbiamo considerato giusto e razionale dare a noi stessi, a chi ci circonda e a chi verrà dopo di noi, condizioni e mezzi di vita, superiori e più accessibili di quelli e di quanti ne disponevano i nostri avi, i nostri nonni, gli stessi nostri genitori.

 

Ma, chiediamoci, quanto e quanto a lungo godendo dei benefici della società dei consumi abbiamo permesso a questa di consumarci?

 

Una società dei consumi – che poco a poco ma inesorabilmente – ha consumato, prima, e poi distrutto quei valori essenziali per i quali l’uomo è amico dell’uomo (homo homini amicus) ; per i quali l’uomo sta insieme agli altri uomini come socio di un’avventura aperta al futuro (homo homini socius); e per i quali l’uomo condivide con l’altro uomo la passione del passato e del presente (homo homini comes) e su questa con tenacia, con ardore, con fermezza di convinzioni, ed entusiasmo, senza remore né paure costruisce un orizzonte di futuro collettivo.

 

Sì, consumando, tanto in realtà è stato consumato di noi e tanto, troppo è stato distrutto di ciò che l’uomo è!

 

E se fosse proprio questo, finalmente, il momento di dare vita a nuova generazione di costruttori e non di distruttori?

 

E se fosse proprio questo, finalmente, il momento in cui una nuova generazione – riappropriandosi di quanto ci è stato consumato, sottratto e persino distrutto – cominciasse a essere luce in un mondo ottenebrato?

 

E se fosse proprio questo, finalmente, il momento in cui una nuova generazione che riscoprendo tre semplici e antiche parole – amicus, socius et comes – cominciasse a essere sale, in un mondo reso insipido e senza senso?

 

Carissimi amici,

 

guardando e adorando, quel Bimbo “reclinato in mangiatoia” dalla Santa Vergine Madre, là a Betlemme la casa del pane, la casa della carne, troveremo tutto il coraggio di cui abbiamo bisogno per guardare avanti, per alzare lo sguardo, per spiccare un volo di Aquile, per abbracciare con uno sguardo il futuro.

 

Sì! perché a Betlemme: “Dio si è fatto uomo perché noi uomini diventassimo dèi, cioè partecipi della sua stessa vita divina” (Sant’Atanasio di Alessandria, De Incarnatione, LIV, 3).

§§§




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7 commenti

  • Enrico Nippo ha detto:

    Ecce quam bonum et quam jucundum,

    habitare fratres in unum!

    Sicut unguentum in capite, quod descendit in barbam, barbam Aaron, quod descendit in oram vestimenti ejus;

    sicut ros Hermon, qui descendit in montem Sion. Quoniam illic mandavit Dominus benedictionem, et vitam usque in sæculum.

    Cristiana Cattolica carissima, La invito a considerare lo splendore dei questo Salmo dal simbolismo davvero edificante, e piacevolissimamente utile per un proficua auto-osservazione.

    Mi permetta un’esortazione: lasci perdere la massoneria e gusti in tutto e per tutto questo Salmo, come … cristiana cattolica.

    Sereno Santo Natale.

    • Anonimo verace ha detto:

      Concordo con quanto scrive Enrico Nippo.
      Ogni salmo è una lode a Dio.
      Perché pretendere che solo i fedeli di Roma possano rivolgersi a Dio con queste parole?

    • Cristiana Cattolica ha detto:

      Enrico carissimo, certo, questo Salmo è bellissimo, ma a mio avviso si realizzerà solo quando tutti i cristiani battezzati saranno nella piena comunione con Gesù
      Eucarestia….attraverso la “comunione” col Suo unico Vicario Benedetto XVI.

      Ma perché ciò si realizzi, dobbiamo deciderci di riconoscere Gesù in “COLUI” che ancora oggi rappresenta la Sua persona….e la sua persona crocifissa.

      Grazie Enrico per gli auguri di Buon Natale che
      contraccambio volentieri.

  • Gabriela Danieli, fedele abbandonata e privata della s. messa in unione col vero papa Benedetto e dei sacramenti ha detto:

    Signor Giampietro, che ne dice:

    🌟Forse non è ancora troppo tardi per chiedere a tutte le pecore errabti senza pastore, perché private della S Messa (valida) celebrata col legittimo nostro Santo Padre Benedetto XVI i nostri più affettuosi auguri di Santo Natale!

    A papa Benedetto P.P. XVI Monastero Mater Ecclesiae
    00120 Città del Vaticano

    • MARIO ha detto:

      Sig.ra Gabriela, che ne dice:
      se si è privata della S. Messa in unione col vero Papa Francesco e dei Sacramenti, non le resta che andare a confessarsi, almeno per Natale.
      Almeno… a me hanno insegnato così.

      • Gabriela Danieli, fedele abbandonata e privata della s. messa valida e dei sacramenti ha detto:

        Caro Mario, si converta, perché se lei non é in COMUNIONE CON L’UNICO PAPA DETENTORE DEL MUNUS PETRINO, “NON” È COMUNIONE NEPPURE CON “CRISTO” né con la Sua Santa Chiesa❗️
        E questo glielo dice il vero Papa Benedetto-XVI.
        http://papabenedettoxvitesti.blogspot.com/2009/07/card-ratzinger-1977-la-comunione-con-il.html?m=1

        Viceversa, se lei è in comunione con il card. massone e la sua antichiesa, di fatto lei è in comunione con l’anticristo e partecipa alle Sue opere malvagie.

        Le consiglio anch’io di CONFESSARSI e di tornare a CRISTO.
        Prego per lei.

        Per quanto mi riguarda mai e poi mai parteciperò ancora alle messe INVALIDE e SACRILEGHE in comunione con il vicario di lucifero.

        Gesù bambino mi ama e sa quanto anch’io l’ho amato e lo amo.
        E sono certa che a NATALE mi aspetta da qualche parte per fare la Santa Comunione con me.

        • MARIO ha detto:

          Per carità, lei preghi pure per chi vuole, ma risparmi almeno il sottoscritto…
          Che non si sa mai succeda anche a me la disgrazia di convertirmi in eretico e scismatico. Almeno quello…
          Se poi lei incontrerà “da qualche parte” Gesù bambino, cosa vuole che le dica… me lo saluti.