Caliari. Cambiare il Padre Nostro: Servilismo Clericale dei Vescovi

28 Novembre 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Carissimi Stilumcuriali, Gian Pietro Caliari riflette sul Padre Nostro, in base a testi e documenti, e sulla modifica operata nella versione italiana. Non possiamo che condividere totalmente – come penso che facciano molti cattolici – le sue conclusioni. Buona lettura. 

§§§

Sta in iustitia et timore et  praepara animam tuam ad tentationem

di Gian Pietro Caliari

 

L’Oratio Dominica è un testo di Gian Battista Bodoni, pubblicato nel 1806 a Parma, per celebrare il viaggio di Papa Pio VII a Parigi in occasione dell’incoronazione imperiale di Napoleone Bonaparte.

Quest’opera racchiude, per la prima volta in stampa, il testo evangelico del Padre Nostro in 155 lingue.

In realtà, per la necessità di usare quasi duecento diversi tipi di caratteri, il testo della preghiera appare riprodotto ben 215 volte.

Un buon numero di queste traduzioni è servito per realizzare le pregevoli maioliche che ancor oggi adornano il chiostro della Chiesa del Pater, sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme.

Nel Vangelo di San Matteo, Gesù introduce la preghiera con un vero e proprio comando: Οὕτως οὖν προσεύχεσθε ὑμεῖς (oùtos oùn proseùkesfe umeìs), “Voi dunque pregate così!” (Matteo 6, 9).

Nel testo secondo San Luca, invece, la preghiera è insegnata dal Maestro ai discepoli a seguito di una precisa richiesta: Κύριε, δίδαξον ἡμᾶς προσεύχεσθαι (Kùrye, dìdazon emàs proseùkesfai), “Signore, insegnaci a pregare” (Luca 11, 1).

Imperativo e insegnamento sono ben sintetizzati dalla tradizionale monizione liturgica, che precede la recita del Pater Noster all’inizio dei riti di comunione: Praeceptis salutaribus moniti et divina istituzione formati, audemus dicere(Ammoniti dai salutari precetti e formati dal divino insegnamento, osiamo dire).

Il testo greco della preghiera, oltre che dai due Evangelisti, ci è giunto anche da un’altra fonte coeva ai Vangeli e sempre in greco.

Un breve documento di legislazione canonica del primo secolo, in uso fra le prime comunità cristiane della Palestina e della Siria, intitolato Διδαχή, Didaché.

Il più antico manoscritto greco di quest’ultimo testo è riportato nel Codex Hierosolymitanus, che ne riporta il titolo esteso di Διδαχὴ τῶν δώδεκα ἀποστόλων (didaché tòn dòdeka apostòlon): “Insegnamento dei dodici apostoli”.

Sappiamo che in Matteo 6, 9-13 il testo della preghiera, così come oggi lo recitiamo, è completo del titolo (Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς (Páter hemòn, ho en toìs ouranoìs), “Padre nostro che sei nei cieli” e delle sei petizioni che seguono.

In Luca 11, 2-4, invece, il titolo è solo Padre (Πάτερ, Pàter),, e il testo lucano non riporta la terza petizione presente invece in Matteo: “sia fatta la tua volontà come in cielo e così in terra”; e tralascia anche la parte conclusiva dell’ultima petizione “ma liberaci dal male”.

Il testo del Padre Nostro che ci è tramandato dalla Didaché 8, 2 è perfettamente identico a quello di Matteo 6, 9-13, ma è completato al termine dall’eucologia: Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας – Così di te è il regno, e la potenza e la gloria per i secoli”.

L’uso di questa formula eucologica al termine della preghiera è stato mantenuto ininterrotto nella tradizione ortodossa della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo; mentre nella liturgia romana damaso-gregoriana (Vetus Ordo) se ne ritrova l’eco nella grande dossologia che conclude il Canone Romano.

Nella riforma post-conciliare della Santa Messa (Novus Ordo), l’eucologia della Didaché è stata introdotta non come immediata conclusione del Padre Nostro, ma dopo l’embolismo (Liberaci, Signore, da tutti i mali), che segue la recita della preghiera.

Sia il testo del Vangelo di Matteo sia quello di Luca come infine la Didaché riportano, tuttavia, coerentemente e testualmente la prima parte della sesta petizione: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (kaì mé eisenénkeis hemàs eís peirasmón).

I valenti traduttori della CEI, nel palese tentativo di rendere pastoralmente potabile e religiosamente corretta la preghiera di Gesù, si sono soffermati sul verbo reggente di questa proposizione che è composto dalla negazione μὴ (non) e dal congiuntivo aoristo εἰσενέγκῃς (eisenénkeis), così da formare un imperativo negativo.

Ora, comunque, la si voglia girare εἰσενέγκῃς è la seconda persona singolare del congiuntivo aoristo di εισ-φέρω (eís-fero) che significa letteralmente indurre”, portare verso” o portare dentro”, in senso spaziale ma anche metaforico (Cfr. F. Zorell, Lexicon graecum Novi Testamenti, Parisiis, 1932, p. 384; e M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, Roma 1960, p. 14).

La traduzione latina della vulgata di San Gerolamo (ne nos inducas) e quella italiana (non indurci) si attengono strettamente e fedelmente al testo originale greco; mentre il nuovo “non abbandonarci” non solo introduce un verbo che non esiste nel testo originale ma rischia di distorcere il significato intrinseco dell’espressione e di deviare essenzialmente il senso teologico del testo stesso.

Il testo greco, come abbiamo visto, usa il congiuntivo negativo nella forma verbale dell’aoristo, e inoltre ripete poi due volte il suffisso εισ (eís) sia per introdurre il verbo φέρω (féro) sia per introdurre il moto a luogo εἰς πειρασμόν (s peirasmón).

Il testo latino della vulgata e quello tradizionale italiano rispettano rigorosamente tale struttura originaria, infatti recitano: “ne nos in-ducere in tentationem” e “non in-durci in tentazione”.

Un’ultima considerazione merita ancora il verbo εἰσενέγκῃς che all’aoristo appunto indica unazione, temporalmente non determinata, concepita nella sua globalità, e non vincolata a un prima o a un dopo.

Il “non abbandonarci” sembra, al contrario, affermare che Dio ora – se volesse – potrebbe tranquillamente abbandonare il credente alla tentazione.

Così, per chi ritiene inaccettabile pensare che Dio possa “indurci” alla tentazione, dovrebbe parimenti ritenere che è cosa del tutto teologicamente fuorviante che Dio “ci abbandoni” nella tentazione!

Ora, la vera problematicità non sta nel verbo ma nel sostantivo del complemento di moto a luogo εἰς πειρασμόν (eís peirasmón), che San Girolamo traduce come tentatio e l’italiano come tentazione.

Il sostantivo πειρασμός (peirasmòs) ricorre 21 volte nel Nuovo Testamento, con una gamma di significati che vanno da una connotazione assolutamente negativa (tentazione, peccato, calamità, afflizione) a una del tutto neutra (prova, esame, tentativo).

Ad esempio, in Matteo 26, 41 quando Gesù nel Getzemani invita gli Apostoli a vegliare e pregare “per non entrare nella prova”:  “vegliate e pregate        affinché non entriate nella prova” (εἰς πειρασμόν). E qui, evidentemente, Gesù si riferiva a quella prova suprema che, lui stesso stava affrontando nell’ora della sua Passione.

Nella Prima Lettera di Pietro 1,6: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove (ἐν ποικίλοις πειρασμοῖς). E qui il riferimento è alla prima grande persecuzione, che ha investito l’intero impero romano sotto Domiziano (81-96 d.C.). Un riferimento questo che, tuttavia, è inserito in una benedizione (euloghia) rivolta a Dio Padre per il progetto di salvezza attuato per mezzo della risurrezione di Cristo.

Anche il verbo, corrispondente al sostantivo peirasmòs, πειράζω (peiràzo) ricorre 39 volte nel Nuovo Testamento e anch’esso ha lo stesso spettro di significati.

Lo troviamo in Matteo 4,1: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (πειρασθῆναι ὑπὸ τοῦ διαβόλου). O, nel versetto, 4,3 dove il diavolo è definito come il “tentatore” (ὁ πειράζων).

Dunque, in questo caso, si tratta di una vera e propria tentazione che proviene dallo stesso che “è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44).

Lo stesso verbo, tuttavia, è usato anche nel senso di testare e mettere alla prova in senso negativo, come in Matteo 16,1: “I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova (πειράζοντες).  E così anche in Matteo 19,3 “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova (πειράζοντες αὐτὸν)”.

In Ebrei 11,17, invece, lo stesso verbo è usato col significato di mettere alla prova in senso positivo: Per fede, Abramo, messo alla prova (πειραζόμενος), offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio”.

O nell’Apocalisse, dove la prova è intesa come via per smascherare la falsità:  “Hai messo alla prova (ἐπείρασας) quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi” (2, 2).

La tentazione – è questo vale anche per l’Antico Testamento – nel linguaggio biblico esprime la pedagogia propria di Dio Padre nei confronti degli uomini: “Dio li ha provati (ὁ θεὸς ἐπείρασεν αὐτοὺς) e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là” (Sapienza 3, 5-7).

Nel libro del Siracide, infine, la prova (tentazione) suprema che il credente deve affrontare è proprio quando si presenta al cospetto di Dio per rendergli culto: “Fili, accedens ad servitutem Dei sta in iustitia et timore et praepara animam tuam ad tentationem; “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (2, 1).

La traduzione corrente di questo versetto del celebre libro sapienziale, la cui prima traduzione in greco dall’originale ebraico risale al 132 a.C., tralascia un dettaglio essenziale del testo greco che si chiude con questa esortazione: “ἑτοίμασον τὴν ψυχήν σου εἰς πειρασμόν”.

Ecco, figlio se ti presenti per rendere culto a Dio “prepara la tua vita (τὴν ψυχήν – ten psukén) verso la prova (s peirasmón)”.

La prova, la tentazione, l’esame che hanno come corrispettivo la correzione, il ravvedimento, il voto negativo – in caso di fallimento – e il compiacimento, il premio e il voto positivo – in caso di successo – sono gli elementi costitutivi del rapporto Padre-figli e Dio-credenti.

“Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se siete senza correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete bastardi, non figli! Del resto, noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita? (Ebrei 12, 7-9).

Ecco il Dio cristiano ci tratta  come figli e come figli che possono comprendere; non come bastardi e dementi!

La scelta compiuta da Vescovi italiani di alterare anche il testo liturgico della Oratio Dominica, dunque, non corrisponde ad alcuna logica né esegetica né teologica.

È frutto, invece, di un relativismo materialista e mondano applicato alla stessa liturgia cattolica che, invece, “è essenzialmente actio Dei, che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale, Sacramentum caritatis, 37).

Considerato, poi,  chi è stato il principale promotore di questa infausta scelta, i Vescovi italiani hanno agito mossi da un vero e proprio bieco clericalismo, che consiste nel non dispiacere a chi non si può che compiacere per non alterarne i sempre incerti e instabili umori.

A chi sommessamente continuerà a pregare “ne nos induca in tentationem”, possano essere di conforto le parole di Sant’Agostino che dell’Oratio Dominicacosì scriveva: “Essa ha un significato larghissimo. Perciò, in qualunque tribolazione si trovi il cristiano, con essa esprima i suoi gemiti, con essa accompagni le sue lacrime, da essa inizi la sua preghiera, in essa la prolunghi e con essa la termini […] Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera mal fatta, ma certo troppo umana e terrestre” (Lettera a Proba, Lett. 130, 22).

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35 commenti

  • luca francesco persico aka pesce d'acqua dolce ha detto:

    E dire che basterebbe leggere il libro di Giobbe per capire fino in fondo quel “non ci indurre in tentazione” e quanto sia del tutto corretto anche teologicamente… Sì, Dio induce in tentazione, eccome, ma anche aiuta ad affrontarla e superarla; quello che proprio mai farà sarà di abbandonarci quando saremo in tentazione, quindi a che serve invocarlo perchè non lo faccia? Forse che noi se ne dubiti?

    • stilumcuriale emerito ha detto:

      Ma la “prova” di Giobbe proposta da Satana ed accettata da Dio non è una tentazione al peccato, ma prima è la privazione dei suoi averi (stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!) e poi, la seconda, nel male fisico (stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!).
      Mi pare, invece, che la tentazione cui allude il Padre Nostro sia proprio la tentazione al peccato, alla trasgressione della Legge, che conduce alla dannazione.

      • luca francesco persico aka pesce d'acqua dolce ha detto:

        Sono tante le tentazioni cui possiamo essere sottoposti, ma tutte si possono riassumere in una sola (che poi è in realtà nella sostanza sempre quella cui siamo in definitiva esposti, a prescindere dal caso specifico e dalle specifiche modalità): la tentazione di abbandonare Dio e scegliere Satana. Ogni tentazione cui Dio ci espone ha proprio lo scopo di verificare mediante una prova se siamo per Lui e con Lui o se siamo contro di Lui, se ci opponiamo a Lui, se lo abbandoniamo scegliendo altro o altri. E ogni tentazione, come il Libro di Giobbe insegna, si inquadra nell’eterno confronto tra Dio e Satana, nella incessante lotta che li vede contrapposti; ogni tentazione è una nuova sfida che Dio, permettendola, accetta, sicuro di vincerla. Quindi sì, Dio quando vuole permette eccome per i Suoi disegni imperscrutabili che noi si sia esposti alla tentazione, cioè indotti in tentazione, ma non ci lascia, pone dei limiti e ci aiuta a superarla. E il Libro di Giobbe, con la sua conclusione, ci insegna anche che se è pur vero che nelle tentazioni stiamo male e soffriamo, è altrettanto vero che il superarle ci rafforzerà e ci consegnerà a una vita migliore.

  • adriano ha detto:

    C’è anche la versione di Dante:

    Nostra virtù che di legger s’adona,
    non spermentar con l’antico avversaro,
    ma libera da lui che sì la sprona.

    [La nostra virtù, che facilmente (di legger) è vinta (s’adona), non mettere alla prova (spermentar) con il maligno (l’antico avversaro) ma liberala da lui che così fortemente la spinge (la sprona) al male].

    Segue immediatamente questa precisazione:

    Quest’ultima preghiera, segnor caro,
    già non si fa per noi, ché non bisogna,
    ma per color che dietro a noi restaro.

    [Quest’ultima parte del Padre Nostro, caro signore, non la facciamo per noi, che non ne abbiamo più bisogno, ma per coloro che abbiamo lasciato indietro, ossia per coloro che ancora vivono sulla terra].

    C’è da notare che la preghiera è recitata in Purgatorio XI dai superbi, che sulla terra credono, a volte di saperne più di Gesù Cristo.

  • Maria Michela Petti ha detto:

    Illustrando il Pater noster, nella Lettera 130 in risposta ad una precisa richiesta della Venerabile Serva di Dio Proba, Sant’Agostino sul punto afferma che quando diciamo “Non c’indurre in tentazione” «ci eccitiamo a chiedere che, abbandonati dal suo aiuto, non veniamo ingannati e non acconsentiamo ad alcuna tentazione né vi cediamo accasciati dal dolore» (11, 21), come a dire: « Allontana da me le passioni del ventre e fa che il desiderio dell’impurità non s’impossessi di me» (12, 22), riassumendo in quattro parole la preghiera del Salmo 54.
    Il Vescovo d’Ippona, in questa lettera (che Benedetto XVI richiama nella “Spe salvi”, 11) come in altri scritti, sviluppa il senso della preghiera in generale, la sua finalità e la sua modalità, che consiste essenzialmente nel tradurre in espressione verbale un intimo desiderio, peraltro noto al Signore, che non necessita quindi di verbosità, quanto di stimoli per mantenere viva la fede, attraverso un pregare con “affetto fervoroso”.
    «Se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella S. Scrittura, per quanto io penso – annota – non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore».
    Ancora, sempre relativamente al “Padre nostro”: «Non farai vera preghiera, se non reciti questa preghiera; se ne reciti un’altra, egli non ti esaudisce, perché non è quella che ti ha prescritto il Legislatore, da lui mandato. È perciò necessario che, anche quando diciamo parole nostre nella preghiera, le conformiamo a quella preghiera, e quando ne ripetiamo le stesse parole, intendiamo bene quel che diciamo». (En in Ps. 103, s I, 19).
    Aperta alla conoscenza del pensiero plurale e rispettosa del pensiero altrui, per quanto riguarda la cura della mia anima – in piena libertà e convintamente – consulto sempre l’eredità dottrinale dei Santi, tanto più quella dei riconosciuti dottori della Chiesa, oltre ovviamente i Testi Sacri e quelli del Magistero.
    Un accenno al “servilismo” dei vescovi legato all’attualità. Anticipazioni di stampa sul Dpcm, previsto per il prossimo 3 dicembre, lasciano intuire una “libertà condizionata” nella programmazione della celebrazione della messa della Vigilia di Natale. L’orario sarà deciso dalle parrocchie; e ci mancherebbe! anche se non è mancata qualche larvata “indicazione” e, comunque, già era stato flessibile in anni pre- Covid. Con la differenza – la “condizione” – che siano rispettate le disposizioni contenute nel Dpcm sul coprifuoco, cioè in considerazione dell’obbligo di rientro a casa. Il governo, inoltre, pare intenzionato a “suggerire” l’incremento delle celebrazioni nei giorni festivi, proprio per evitare assembramenti fuori e dentro le chiese.
    I fedeli, quindi, dovranno ringraziare… i governanti (e il Cts)… per la gentile concessione!!!

  • Lucy ha detto:

    Per fare chiarezza sul pensiero di Papa Benedetto circa il passo in questione del Padre Nostro bisogna per correttezza andare alla fonte che è lui stesso nel I volume “Gesů di Nazatet alle pagine 192/197 dove il passo è esaminato in lungo e in largo .Il commento è lungo ; riporto solo la parte finale dove si cita San Paolo ( I Cor.10/13 )
    “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze , ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla “.

  • MARIO ha detto:

    Allego il link del bellissimo “Commento al Padre Nostro” di San Tommaso d’Aquino.
    (Vedi: “6/Sesta domanda: non ci indurre in tentazione”).
    (Vedi anche la spiegazione del “Nostro” riferito al Padre).
    http://www.gliscritti.it/blog/entry/1890

  • . ha detto:

    La parola ” abbandonare” nella nuova traduzione la trovo bruttissima: dà l’idea di un Dio che se gli gira, ci puo’ abbandonare nel momento in cui abbiamo piu’ bisogno, e poi contrasta troppo con le prime parole della preghiera: Padre nostro.
    Insomma il Dio cristiano sarebbe un Padre, un papà che potrebbe anche abbandonarci? Inconcepibile!

  • Gaetano2 ha detto:

    Ho trovato la versione greca, bellissima:

  • Stefano ha detto:

    Per quel che mi riguarda, io continuerò a pregare il Padre Nostro esattamente con le parole che ho pronunciato finora.. Con buona pace dei vegliardi sovrappeso arteriosclerotici biancovestiti e relativi inespressivi burattini apatici esecutori di ordini…

  • er ha detto:

    Segnalo questo video dove Padre Giuseppe Barzaghi, OP,
    esprime le sue riserve sulla nuova traduzione:

    https://gloria.tv/post/6qmk2AVVD99f2EYFu1myHgWA4

  • Iginio ha detto:

    Trascrivo quello che ho scritto al Vicariato di Roma:

    Spett. Vicariato,

    in merito al volantino con le vostre istruzioni da dare al popolo circa le nuove risposte dell’assemblea a Messa (che leggo qui a p. 11:

    http://www.sangioacchino.org/sites/default/files/files/bollettini/2020/36_20.pdf ), osservo:

    a) citazione da

    Congregazione del Culto Divino
    Istruzione V «Liturgiam authenticam»

    31. In particolare: deve essere evitata la scelta di ricorrere sistematicamente a soluzioni avventate, come la sostituzione sconsiderata di vocaboli, il cambio dal singolare al plurale, la divisione in maschile e femminile di un’unica voce che esprime un’entità collettiva, oppure l’introduzione di vocaboli impersonali o astratti. Tutti questi interventi possono impedire la trasmissione del senso pieno e integrale di una parola o di un’espressione del testo originale. Tali soluzioni presentano il pericolo di introdurre difficoltà teologiche e antropologiche nella traduzione.

    b) Quanto a “non trasformare Dio Padre in un tentatore”, è facile osservare non solo che Dio mette alla prova i suoi fedeli – da Abramo a Gesù Cristo a tutti i santi sino a oggi – e ha tutto il diritto di farlo, ma anche che col nuovo testo si fa credere che Dio possa “abbandonare” qualcuno in tentazione. Il che pare decisamente peggio. O forse credete che Dio sia obbligato a esaudire tutto ciò che Gli chiediamo?

    E’ gradita una risposta esauriente (e non irridente o divagante).

  • Iginio ha detto:

    Pregevole articolo, a cui bisognerebbe aggiungere che il “male” da cui chiediamo a Dio di liberarci è piuttosto il Maligno, come intendono i nostri fratelli greci.

    • Ambra ha detto:

      Anche Mons. Galbiati, che non è di certo fuori dalla Chiesa di Roma, utilizza Maligno, nei testi da lui curati.

  • stilumcuriale emerito ha detto:

    Spero sia ben chiaro che non voglio criticare il pregevole lavoro di Caliari, ma la stoltezza di coloro che l’hanno indirettamente provocato.
    Grazie allo strumento di Intratext ho verificato che le parole diverse usate nella Bibbio (AT+NT) sono 32743. La più usata è “Signore” con 8198 occorrenze su 812987 occorrenze totali.
    Il far credere che la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, la nostra salvezza dipenda dalla differenza fra “indurre” e “abbandonare” e che Dio sia tanto piccino da dare importanza a quale delle due usiamo nel recitare un Padre Nostro, mi sembra a dir poco demenziale.
    Buon sabato e buona domenica a tutti.

    • Iginio ha detto:

      Ecco qui il solito leone da tastiera che sentenzia su chi sia intelligente e chi no. Ovviamente lui è intelligente, gli altri no.
      Ma hai capito quello che l’autore dell’articolo ha spiegato? Ne capisci il senso? O sei bravo solo a sputare sentenze?
      Vai, vai a litigare di persona, mettici la faccia, scrivi ai giornali, parla con gli insegnanti dei tuoi figli e nipoti, discuti col parroco, col vescovo… E poi torna qui.
      Evitando di insultare chi queste cose le fa veramente.

      • stilumcuriale emerito ha detto:

        Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. Mt 5, 22.
        Ma lei è sicuro di essere mio fratello?

    • Vito ha detto:

      Così come è demenziale (per usare un eufemismo) chi pensa che un padre non possa indurre in tentazione (mettere alla prova) il figlio. Chi è padre sa che è normale farlo (anche nel semplice gesto di mettere il figlio di fronte a una strada da attraversare).
      Così come è un demente chi pensa che un padre possa abbandonare il figlio nella prova (il padre non lascia il figlio da solo mentre prova ad attraversare la strada ed è pronto a intervenire) .
      Penso sia offensivo pregare Dio Padre di non abbandonarci nella tentazione.
      Chi prega così, o è stupido, o pensa che Dio sia un padre cattivo, distratto o irresponsabile.

    • Iginio ha detto:

      Capisci che cosa significhi “Parola di Dio? Capisci che Dio è Verbo, cioè Parola? Capisci che quindi ciò che Dio dice non è indifferente? Capisci che non ogni parola è uguale all’altra? Capisci che la Parola di Dio è performativa? e Creatrice? Capisci la differenza tra la Sacra Scrittura e le chiacchiere del bar o i giornaletti e i blog?
      Dai, mi raccomando, adesso rispondi con qualche insulto.

      • stilumcuriale emerito ha detto:

        Egr. Sig. Iginio,
        mi permetta di farle presente che Ella non è nè il fondatore, nè il titolare, nè il responsabile, nè il moderatore di questo rispettabile blog. Lei è semplicemente un utente come lo è il sottoscritto Stilumcuriale Emerito. A cacciarmi da qua solo il Dott. Marco Tosatti può provvedere, se vuole e lo ritiene opportuno. Ma Lei può soltanto dirmi, in modo educato, se ci riesce, che cosa c’è di sbagliato nei miei commenti o su quali mie affermazioni non è d’accordo e perchè. Nient’altro. E non le pare un po’ ridicolo che un leone da tastiera come lei dia con aria di disprezzo del leone da tastiera ad un altro?
        Con deferenti ossequi. Suo Stilumcuriale Emerito.

    • Petrus ha detto:

      Un solo jota non dovrà essere cambiato della Legge figuriamoci cambiare totalmente il senso della parte finale del Padre Nostro. Chi vorrà cambiare il Vangelo che vi abbiamo annunziato sia uno di noi sia un angelo…. sia anatema! Dice così San Paolo. Ma scusate lo stesso Gesù fu portato dallo Spirito nel deserto dove fu tentato dal diavolo. Il nuovo Padre Nostro lo ritengo un’offesa a Dio perché Dio non abbandona nessuno soprattutto nel momento della prova e della tentazione. Io recitero’ il Padre Nostro di sempre a testa e a voce alta!!!

  • Don Pietro Paolo ha detto:

    Grazie e complimenti, prof. Caliari,
    Io, Senza addebitare la colpa della infelice Traduzione del “Padre nostro” a questo o a quell’altro personaggio più o meno illustre, la cui intenzione era sicuramente di adeguarla a quanto dice Gc 1,13, continuerò nel privato a pregarlo recitandolo come ho fatto sempre. Durante la S. Messa mi adeguerò e lo reciterò secondo le nuove disposizioni, ma manterrò nell’intenzione e nel mio cuore la traduzione letterale, nella speranza che presto nuove disposizioni della CEI riportino la preghiera anche nella liturgia allo stato di come è stata recitata DA SEMPRE.

  • Defensor Ianuae ha detto:

    E quindi? Assaporato quanto Pietro Caliari così dottamente ci illustra, qual è il consiglio per pregare il Padre Nostro? Dobbiamo dirlo alla vecchia maniera (non ci indurre) o alla nuova (non abbandonarci)?

  • Antonio ha detto:

    Al fedele medio con questa bella pensata arriverà soprattutto che A) la Chiesa ha insegnato per decenni una versione sbagliata della preghiera più importante (e adesso questa sarà veramente la versione giusta?), B) tale preghiera è luogo di esperimenti e di accademie linguistiche alla ricerca della pietra filosofale. Complimenti!

    • Briciola ha detto:

      Ovvero viene aumentata la percezione che la fede non sia una roccia a cui appoggiarsi nelle traversie della vita quotidiana ma bensì un un’insieme di affermazioni che possono variare al variare dei tempi.
      E tanti saluti a san Vincenzo di Lerins.
      P.S. per trovare il libro di san Vincenzo, nel catalogo della san Paolo editrice , bisogna togliere il san e scrivere solo Vincenzo di Lerins. Che anche questo sia un segno dei tempi ?

  • con se stessa ha detto:

    Bellissimo articolo.
    Ma decisamente non è il primo sull’argomento. Ed omette una osservazione a mio avviso fondamentale.
    Una volta uscita, nel 2008, la nuova traduzione CEI della Bibbia (che contiene il “non abbandonarci”) l’adeguamento dei testi liturgici, via, era solo questione di tempo.
    Ed anche di coerenza della CEI con se stessa. il problema è nella traduzione 2008!
    E va detto che uscì sotto Papa Benedetto XVI. Purtroppo è uno dei non pochi errori che il grande, carissimo Bavarese ha commesso (o lasciato commettere). Amicus Plato…

  • Pietro Roberto ha detto:

    Premetto che sono d’accordo con quanto detto sulla non opportunità di cambiare il testo del Padre Nostro. Non sono però d’accordo sulla continua attribuzione di questa scelta alla volontà di Papa Francesco, come si insinua sommessamente nell’articolo. Correggetemi se sbaglio, ma se ben ricordo, questa modifica, nelle varie modalità di traduzione è presente in buona parte delle liturgie di altre Conferenze Episcopali e fu lo stesso Benedetto XVI a richiederla quando era il Papa regnante.
    Mi interesserebbe, piuttosto, come sacerdote, un articolo che analizzasse il nuovo messale dal punto di vista del progetto grafico e della sua inutilizzabilità, dato che è evidente che molti preti anziani, cioè la maggioranza, non saranno in grado di utilizzarlo perché illeggibile. Avendo eliminato i caratteri in grassetto, e gli incipit colorati e con carattere più grande dei vari testi riservati a colui che presiede, il pessimo e confusionario inserimento degli spartiti nel testo, il colore giallo della carta, il tipo di carattere troppo sottile, i diversi testi e le rubriche troppo accatastati l’uno sull’altro, i titoli che si confondono col testo, ecc. rendono questo messale una vera schifezza. A renderlo disprezzabile concorrono naturalmente anche le illustrazioni che da sole dicono tutta la decadenza religiosa e intellettuale del tempo che viviamo. Ma, soprattutto, l’arroganza di preti e monsignori che se ne fregano totalmente delle esigenze di chi dovrà utilizzare il Messale, mentre sottostà zitto e obbediente ai diktat dello studio grafico a cui è affidato il progetto, cioè gente che mai dovrà utilizzare il Messale e , forse, mai ha messo piede in una chiesa. È evidente che il progetto grafico del Messale è figlio del “minimalismo” che da qualche anno regna nella grafica e che va bene, per esempio, sul web, ma è un obbrobrio in questo Messale. Ridateci il grassetto e liberateci dai monsignorotti della CEI che non capiscono un ***** di grafica (gli asterischi sono miei).
    È urgente che la conferenza episcopale Italiana si ridimensioni, chiuda qualcuno dei propri uffici, la smetta di lucrare con i diritti sui testi liturgici e scritturistici, e affidi, come era prima del Vaticano II, alle varie case editrici cattoliche la responsabilità di stampare i testi liturgici. Alla Cei dovrebbe restare solo, e ripeto “solo”, la vigilanza sulla fedeltà e conformità dei testi all’edizione tipica. Ho la certezza che se così fosse le varie case editrici messe in concorrenza tornerebbero a produrre delle vere opere d’arte, com’erano molti i libri liturgici del vetus ordo.

  • Enrico Nippo ha detto:

    Faccio i complimenti a Caliari per la sua dotta dissertazione dalla quale ho potuto imparare parecchie cose.

    Ma la medesima dissertazione mi ha condotto a quanto segue.

    In un intervento recente il novello Torquemada Alessandro DS afferma che Gesù parlava un dialetto aramaico. Dopo aver preso in considerazione Che lingue parlava Gesù? – L’Osservatore Romano, una domanda (diabolica?) si è affacciata alla mia mente:

    siamo sicuri che dall’intreccio delle traduzioni (ebraico-greco-latino-italiano etc.) non ci siamo persi qualcosa di quel che ha detto Gesù? Se è vero che tradurre è anche tradire, non è che le traduzioni stesse ci presentano – inevitabilmente – un Gesù tradotto/tradito?

    • Gian Piero ha detto:

      Enrico Nippo , mi preoccupi, non e’ che la pensi come Padre Sosa, superiore dei gesuiti, , che non sapremo mai cosa disse esattamente Gesu’ perche’ non c’era il registratore?
      Dio ti sta mettendo alla prova …..

      • Enrico Nippo ha detto:

        Se ci fosse stato il registratore la questione del tradurre-tradire non cambierebbe, e ciò anche se addirittura Cristo apparisse oggi e cominciasse a parlare in aramaico o aramaico-giudaico, poiché si porrebbe ugualmente la necessità di tradurre.

        Non ritengo sia grave il chiedersi quali sono le accezioni e le sfumature di un linguaggio antico di 3000 anni che sono andate perdute in una traduzione. Anzi, trovo il tema grandemente affascinante: poter saper ascoltare Gesù nella sua lingua!

  • Micky ha detto:

    Caliari “dimentica” di dire quando i vescovi italiani hanno fatto questa traduzione: nel 2008, in piena era ratzingeriana, quando nessuno immaginava che Bergoglio sarebbe diventato Papa 😉 È vero che adesso portano questa traduzione nella liturgia per “compiacere qualcuno”, ma quel Padre Nostro si trovava nella versione ufficiale della Bibbia Cei già da 12 anni e risuonava durante la Messa quando si leggeva quel brano del Vangelo; ed era abbastanza naturale che, nella revisione del Messale, la versione della Bibbia sarebbe stata traferita nella liturgia. Caliari, la storia bisogna raccontarla completa, non tagliandola per attaccare il Papa che non piace e tacendo sulle responsabilità di quello che sta simpatico😃

    • Ottotrapen ha detto:

      Giusto, l’ultima versione della Bibbia CEI del 2008 porta già la versione che ora ci viene imposta (ma nessuno ha l:obbligo di recitarla). Ma anche prima del 2008 girava l’idea che la traduzione sia della vulgata che in lingua italiana fosse errata. Io possiedo un commento non datato, ma sicuramente ante 2008, dell’allora mons. Ravasi che critica tale traduzione.