O SACRUM CONVIVIUM. COMMENTO DEL MAESTRO PORFIRI.

8 Settembre 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Carissimi Stilumcuriali, il Maestro Aurelio Porfiri continua nel suo viaggio, con noi, alla scoperta dei tesori della musica sacra. Oggi ci parla di Sacrum Convivium nella realizzazione di quel grande compositore che è stato Domenico Bartolucci. Buona lettura. 

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O SACRUM CONVIVIUM (Domenico Bartolucci)

 

Penso che chi segue quello che scrivo, sa bene la mia posizione, a volte critica, sulla situazione della musica sacra attuale. Naturalmente questa situazione si è evoluta nel tempo, sarebbe puerile pensare che tutto è nato solo negli ultimi anni. Un evento che certamente portò a dei cambiamenti imprevisti fu quello del Concilio Vaticano secondo. Si è letto tantissimo sul Concilio e sulla sua ermeneutica. Certamente alcune interpretazioni di questa assise ecumenica, hanno portato ad una svalutazione di fatto del ruolo e della dignità della musica liturgica e te la sua importanza. Un musicista che ha attraversato questi decenni difficili è stato Domenico Bartolucci (1917-2013), maestro per tanti anni del coro della cappella Sistina, o Cappella musicale Pontificia. Sono stato suo discepolo per anni, portandogli una venerazione che ancora sento molto viva, pur dopo la sua morte. Quindi con lui ho avuto molte conversazioni che vertevano sul tema dell’evoluzione della musica sacra e ho potuto ascoltare dalla sua viva voce i rimproveri che egli faceva per alcuni abusi che si erano ormai impossessati della sua amata liturgia.

Egli fu eccellente compositore. Io dico sempre, anche se so che alcuni non saranno d’accordo, che Domenico Bartolucci è stato il più grande compositore nel campo della musica sacra del secolo passato, almeno in ambito cattolico. Se si conosce la sua produzione forse si può convenire con la mia opinione, tanto alto è il livello tecnico e il senso profondo della liturgia che emanano dai suoi pezzi. Fra i suoi pezzi più noto c’è il mottetto eucaristico O Sacrum Convivium, a 4 voci dispari. Salvatore de Salvo, nel suo bel libro sulla storia della Cappella Sistina nel novecento, attesta questo pezzo nel 1957 attraverso una citazione dai diari sistini. Il testo è dell’antifona al Magnificat per il Corpus Domini, nel modo V del canto gregoriano. Fare riferimento all’antifona gregoriana è importante, in quanto Bartolucci prenderà il tema gregoriano e lo saprà svolgere a quattro parti in modo mirabile. Ci torneremo presto.

Il testo è il seguente: O sacrum convivium in quo Christus sumitur; recolitur memoria passionis ejus; mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus datur. Alleluia (“O sacro convito nel quale Cristo è nostro cibo; si rinnova il ricordo della sua passione; l’anima si colma di grazia! e ci viene dato il pegno della futura gloria. Alleluia”). Testo, come possiamo leggere, ricchissimo di sapienza eucaristica e teologica. In poche righe viene espresso il senso profondo di quella che deve essere la nostra devozione all’eucaristia, pegno della nostra gloria futura. Quindi un testo che è stato messo in musica da tanti autori, intanto epoche.

La versione di Domenico Bartolucci, a mio avviso, è una delle più straordinarie. Ricordo che questo pezzo era quello che concludeva tutti i concerti della Cappella Sistina, non solo sotto la sua direzione ma a volte anche sotto quella dei suoi successori. Questo perché il mottetto crea un’atmosfera di profondissima spiritualità e profondo senso di adorazione. Poi, lui sapeva ovviamente come condurre i cantori ad ottenere certi accenti di particolare devozione. Ascoltare questo brano era veramente un’esperienza spirituale, posso assicurarvi che si creava un clima che si poteva poi solo sciupare applaudendo. Del resto, essendo la conclusione di un concerto, non si poteva neanche evitare che il pubblico applaudisse. Naturalmente il posto di questo brano è durante la celebrazione, come mottetto alla comunione, mentre tutti sono inginocchiati per ringraziare del dono eucaristico.

Dal punto di vista tecnico, questo brano mi è sempre sembrato sommamente interessante. Innanzitutto per il modo in cui può essere eseguito. Come detto è un brano a quattro parti: soprano, contralto, tenore e basso, se lo cantiamo con un coro moderno, quindi con le donne che cantano la parte del contralto. Ma il maestro Bartolucci preferiva eseguirlo all’antica, quindi con i bambini che eseguivano la parte del cantus, la parte acuta. Poi i tenori acuti cantavano l’altus, i secondi tenori la parte del tenore vera e propria e i bassi la loro parte. Il coro all’antica, così come si cantava durante il Rinascimento, era più logico, si andava dai colori scuri ai colori chiari in modo graduale. Era veramente una sonorità diversa, il coro presenta una timbrica che è del tutto peculiare. Poi questo pezzo è anche molto interessante per il modo in cui è scritto, che sembra in superficie abbastanza semplice. Si tratta di un testo breve, due pagine di musica. Ma in realtà a me è sempre interessato come questa non sia una semplice armonizzazione della melodia gregoriana, ma un uso dell’armonia che quasi pudicamente si concede al contrappunto, senza cercare particolari complicazioni tecniche ma echeggiando il purissimo canto della parte acuta. È veramente un brano di grande effetto, che in pochissimi minuti riesce a racchiudere emozioni spirituali profondissime ed intense. Da un certo punto di vista, è uno dei brani più rappresentativi di Domenico Bartolucci, certamente uno dei più conosciuti. Ricordo che di questo brano del maestro Bartolucci c’è anche una versione per canto e organo, una versione che però si trovava soltanto manoscritta nel suo archivio personale al tempo in cui era direttore della cappella Sistina. Forse usava questo brano quando aveva a disposizione soltanto i Pueri Cantores.

Questo brano, dimostra in pieno una delle caratteristiche fondamentali della musica di Domenico Bartolucci, l’uso della tematica per i suoi pezzi presa dal canto gregoriano. Ma non allo stesso modo in cui facevano i compositori rinascimentali, ma cercando anche di rispettare il ritmo del canto gregoriano, il suo stesso andamento. Mentre nel Rinascimento spesso le note della melodia gregoriana venivano eseguite a valori più larghi. Qui certamente è il tempo che si tiene durante l’esecuzione è un tempo lento, visto che il brano deve favorire la meditazione e la devozione eucaristica. Ma si possono ascoltare altri brani in cui si vedrà che i temi gregoriani cercano di rispettare il ritmo stesso della melodia gregoriana, senza rallentarlo.

Compositori come Domenico Bartolucci dovrebbero essere modelli studiati in tutte le scuole di musica sacra, proprio perché egli fu capace di rinnovare il linguaggio della stessa ispirandosi alla grande tradizione della Chiesa cattolica. Dobbiamo recuperare la consapevolezza di quanto di grande c’è stato lasciato, il progresso può essere soltanto basato su una solida tradizione.

 

 

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Quello che segue adesso è un video di spiegazione, in inglese, del Maestro Aurelio Porfiri su questo brano. 

 

 

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2 commenti

  • Dino Brighenti ha detto:

    abbiamo dovuto digerire durante la S.Messa le chitarre per cinquanta anni, le abominevoli canzonette fino al vomito ancora oggi tipo osanna osanna osanna etc..Sono cresciuto dai Benedettini e con il Gregoriano e non con le scoregge del vaticano II.

  • Enrico Nippo ha detto:

    Da https://www.odysseo.it/la-musica-una-scala-per-il-cielo

    “Se continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica” (Cassiodoro)

    È la musica quella realtà che, attraverso le sue note, ti accarezza quando sei ferito, ti inquieta quando sei sereno, ti fa divertire quando vuoi ballare, ti fa sognare quando vuoi cantare.

    Tutti amiamo la musica; forse è una delle arti più amate al mondo, perché la musica è speciale, visto che traduce in note quelli che sono i nostri sentimenti più nascosti e in parole ciò che non riusciamo a dire o non sappiamo dire.

    L’immagine che oggi ho voluto proporre riprende un passo biblico: il sogno di Giacobbe, presente nel libro della Genesi al capitolo 28 versetti 10-19a.
    Non è mia competenza e non è neanche questo il luogo dove analizzare questa bella pericope, ma mi piace molto l’interpretazione data dallo scrittore statunitense Elie Wiesel, che ricollega il testo veterotestamentario al nostro tema.

    Giacobbe, nella suo sogno, vide una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo e sulla quale salivano e scendevano angeli. Wiesel commenta: “Gli angeli quella scala si sono dimenticati di ritirarla ed è la scala musicale, capace di unire la terra al cielo”.

    Quante volte abbiamo fatto anche noi l’esperienza di volare e di essere trasportati, rapiti da una musica che ci affascinava.

    Eppure, si potrebbe obiettare: tutti i tipi di musica portano ad un rapimento? O c’è – soprattutto oggi – una brutta musica, dalla sonorità devastante e dionisiaca, in cui irrompe e prevalica il rumore?
    Flaubert parla di codesta musica in questi termini: “Noi spesso battiamo su una caldaia incrinata una musica da far ballare gli orsi e invece vorremmo commuovere le stelle”.

    Quasi a dire che alcune musiche (contemporanee) vorrebbero essere poetiche e portare la tranquillità nell’uomo, ma invece fanno sì che questo si inquieti ancor di più.

    Questa musica-rumore, secondo il mio modesto parere, traduce i rumori delle ingiustizie del mondo e i rumori di una guerra non solo reale, ma anche interiore.

    Allora cerchiamo di accogliere – noi tutti che siamo amanti della musica – l’invito di Cassiodoro, di non commettere più ingiustizie di ogni genere, così da usufruire ancora del meraviglioso dono della musica, capace di essere anche “via ad Deum”.