PORFIRI: IL CANTO GREGORIANO, E IL GRADUALE SIMPLEX.

22 Luglio 2020 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il M° Aurelio Porfiri ci ha mandato una riflessione – della sua serie su musica sacra e liturgia – dedicata questa volta al Graduale Simplex di canto gregoriano. Buona lettura.

 

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L’edizione dei libri di canto gregoriano: il Graduale Simplex

Continuando nella lettura del sesto capitolo della Sacrosanctum Concilium, laddove si parla più specificamente del canto gregoriano, si trova al punto 117 questo passaggio: “Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un’edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole”. Come abbiamo visto in precedenza, specialmente a Solesmes, ma non solo, era cominciato un cammino di studio profondo ed articolato del repertorio gregoriano, un cammino che non solo si riproponeva un lavoro di ricostruzione melodica basandosi sui manoscritti migliori disponibili, ma anche una proposta interpretativa, proposta che non sarà, come è nell’ordine di queste cose, univoca, pur se tra gli studiosi ci sarà un consenso ampio e basato su dati importanti sull’avanzamento degli studi semiologici grazie all’operato del benedettino Eugène Cardine, di cui abbiamo già parlato. L’approfondimento di questi studi, unito con la comprensione maggiore dell’evoluzione modale del repertorio grazie al lavoro dell’altro grande studioso benedettino dei tempi recenti, Jean Claire, ha posto le premesse per “edizioni più critiche” dei libri di canto gregoriano. E in effetti in tempi recenti abbiamo avuto nel 1974 la nuova edizione del Graduale Romanum, che contiene i canti per la Messa, e di queste nuove edizioni parla un noto gregorianista come Johannes Berchmans Göschl di scuola solesmense, che in un testo dal nome di Cento anni di Graduale Romanum (reperibile in gregoriano-virigalilei.it) così commenta: “La crisi nella quale il canto gregoriano venne a trovarsi in seguito alla riforma liturgica non condusse però al suo naufragio, bensì rese possibile la fortuna di un nuovo inizio, sotto il segno della semiologia. In effetti la semiologia ha vissuto il suo slancio più grande proprio negli anni immediatamente dopo il Concilio e negli anni 70. Prove di tale nuovo inizio consistono in un grande numero di pubblicazioni scientifiche su questioni semiologiche, avanti a tutte la Semiologia Gregoriana (1968) di dom Eugène Cardine, il cui originale italiano è stato tradotto negli anni successivi in numerose lingue; come pure la pubblicazione di importanti libri di canto: il Graduel neumé (1966), il Graduale Simplex (1967/1975), il Graduale Romanum (1974), che tiene conto della riforma dell’anno liturgico e del rinnovato ordine delle Letture, il Graduale Triplex (1979) e l’Offertoriale Triplex (1978/1985)“. E in effetti, come afferma il noto studioso, questi saranno momenti importanti nel cammino di ricostruzione di un canto gregoriano più “autentico” (se prendiamo con cautela questo termine, secondo quanto esposto in precedenza) ma che si è scontrato con un venir meno della pratica gregoriana nelle chiese. Quindi, più si approfondivano gli studi e si comprendeva certi aspetti della monodia liturgica, ma meno essa si praticava, con il rischio che si riducesse questo venerabile repertorio a campo per dispute fra sparuti e disp(e)arati esperti.

Un caso interessante è quello del Graduale Simplex del 1967, già citato in precedenza e che contiene melodie sempre dal canto gregoriano ma più semplici (in usum minorum ecclesiarum) e con la possibilità di scelta di brani comuni per tempi liturgici più che per le singole domeniche. Come detto, questo libro era inteso dome aiuto per le chiese con meno mezzi musicali, ma per una interessante eterogenesi dei fini, come mi fu anche detto da un Maestro delle Celebrazioni Pontificie, in realtà il posto in cui fu maggiormente usato fu proprio nelle celebrazioni più solenni, quelle con alla presenza del Santo Padre nella Basilica di San Pietro. Ci fu un tempo in cui in cui la Cappella Sistina eseguiva composizioni dell’allora Maestro Domenico Bartolucci i cui testi erano spesso e volentieri tratti proprio dal Graduale Simplex. Questo, con l’intento di coinvolgere di più nel canto l’assemblea, nel caso delle celebrazioni pontificie anche aiutata da un coro guida.

Recentemente il professor Giacomo Baroffio ha posto ancora il problema di questo repertorio che se da una parte certamente poteva svolgere una funzione di ausilio, dall’altra rappresenta un oggettivo impoverimento dell’idea che sta dietro al canto gregoriano, cioè quella che ogni celebrazione, ogni momento liturgico, ha il suo canto e testo proprio, connotato anche stilisticamente a seconda del momento della celebrazione liturgica in cui viene eseguito. Certo, questo è un problema importante che va poi anche considerato sotto un’altra prospettiva? Quanto ha il Graduale Simplex veramente contribuito a fare in modo che il canto gregoriano giocasse un ruolo ancora importante nella liturgia? Questo, penso, è sotto gli occhi di tutti, malgrado le migliori intenzioni degli estensori.

Aurelio Porfiri

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11 commenti

  • Enrico ha detto:

    Forse a causa mia, l’interessante articolo del maestro Aurelio Porfiri è passato in secondo piano (e di ciò chiedo scusa), sebbene l’osservazione di Guareschi che ho proposto sia, a mio parere, sia abbastanza consona.

    Il fatto è che il signor Iginio è sempre irritato (forse fuori misura) dai miei interventi, e sembra che stia lì’ col fucile puntato per sparare a zero su ogni parola che scrivo. Non parliamo poi di Mishima, che per lui è una specie di mostro su cui scagliarsi (magari senza conoscerlo sufficientemente e non conoscendolo affatto) con una veemenza, sempre a mio parere, un po’ troppo scandalizzata ed esagerata.

    E allora, visto che grazie a me e al signor Iginio il Giappone è ancora sul tappeto, da amante del Sol Levante qual sono, offro questa paginetta nippo-evangelica da me composta per tutti gli Stilumcuriali.

    KIKU in giapponese vuol dire ASCOLTARE. Il relativo ideogramma è formato a sua volta da tre ideogrammi:

    心 shin: cuore
    耳 mimi: orecchio
    目 me: occhio

    Quindi, l’ascoltare non è soltanto un recepire con l’udito oppure leggendo; non è soltanto un capire mentale, bensì richiede un mettere in pratica. Ed è la pratica che permette la comprensione, il conoscere, il “vedere”. E la pratica coinvolge l’intera persona. Quindi anche il suo corpo.

    Kiku è la virtù primaria del Samurai, che significa servitore (dal verbo samuraru/saburaru, servire). Il Samurai è soprattutto uomo d’azione, non di disquisizioni filosofiche o teologiche. Secondo un aneddoto, per il Samurai “lo studioso è uno sciocco che odora di libri”.

    Quando Gesù dice “Chi ha orecchi intenda” è proprio al cuore, all’orecchio e all’occhio che si riferisce. Cioè all’intera persona. Per “intendere” occorre “avere orecchi”, quindi anche occhi e cuore. Si intende con tutto se stessi. Quindi, lo si ripete, anche con il proprio corpo.

    Poi dice anche: “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio […] chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica è simile a uno stolto […]”.

    La messa in pratica e perciò la comprensione, implica l’incarnazione del Precetto divino. Quindi, ancora una volta, un coinvolgimento del CORPO.

    “Questo è il MIO CORPO” dice Gesù mettendo in pratica il Suo sacrificio; Egli offre tutto Sé stesso, e ad offrire tutto sé stesso è chiamato il Cristiano in ogni momento della giornata secondo che richiedono la circostanza del momento presente, qui ed ora, secondo carità e giustizia.

    Chiaro, allora, che il non mettere in pratica significa non ascoltare, non comprendere, e perciò essere stolti. “Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?”, dice Gesù. Ossia: avete lo shin 心 indurito, avete me 目 e non vedete, avete mimi 耳 e non udite.

    Notiamo ancora come all’ascoltare corrisponda SHITAGAU, l’OBBEDIRE: OB-AUDIRE, prestare ascolto (audire) al Precetto divino che si fa innanzi (ob). Si tratta di una pratica difficile, appunto l’ascoltare/obbedire, che richiede uno svuotamento di sé, uno sparire, alla lettera, di qualsiasi obiezione o tentennamento che, evidentemente, sono proprie dello stolto. Invece il saggio ascolta/obbedisce proprio adesso, qui e ora. Egli è tutt’uno col Precetto divino. Ogni obiezione o tentennamento pregiudica l’incarnazione del medesimo. Auspicabile, invece, un costante, immediato ascolto/obbedienza con lo … spirito del Samurai!

    Tutto quanto sopra riporta all’importanza, anzi all’indispensabilità del giornaliero esame di coscienza, ovvero del “monitorare” il gradino di saggezza che si è salito o il gradino di stoltezza che si è sceso. Ciò rendendosi necessario data la grande difficoltà di essere presenti a se stessi, e quindi a Dio, attimo per attimo, senza interruzione, appunto adesso, qui ed ora, onde corrispondere immediatamente al Precetto divino ed essere tutt’uno con esso, quindi essere uno con Dio.

    Com’è noto, lungo la scala della perfezione non esiste lo stallo: o si sale o si scende.

    Dunque, come un Samurai, cioè come un Servitore, il Cristiano cerca di perfezionarsi salendo la … Scala di KIKU!

  • Lorenz ha detto:

    Una segnalazione ingenua, nel merito del tema: avevo provato ad eseguire il Vexilla regis/En acetum nella liturgia della scorsa Settimana santa, e cercavo di esercitarlo basandomi sulla notazione restituita dei repertori degli anni ’70,,,e non ci riuscivo…finché dalla disperazione ho ripreso visione del graduale di prima di quelle revisioni critiche,,,e c’era un bemolle che avevano successivamente appianato (?!) e che invece a me tornava infine anzi indispensabile anche per la pronuncia e la metrica…e mi sono riconciliato con l’inno. Non c’è alcuna pregiudiziale in questo rilevo, ma, segnalo candidamente quella che è stata una mia oggettiva difficoltà…lasciando il tutto appena come domanda nella domanda…

  • alessio ha detto:

    bravissimo Enrico ,
    intuisco che lei è una persona molto
    mite , e i suoi contributi mai banali.

  • alessio ha detto:

    le melodie oggi sono semplici ,
    troppo semplici , a me piace
    pensare che il suono dell’organo
    oltre a dare forza ai cuori ,
    spaventi i diavoli , così che
    abbiamo la forza di essere
    un po’ migliori.

  • Enrico ha detto:

    “Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto “sonoro” potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino“.
    Giovannino Guareschi