ITALIA, MUSICA SACRA: RISCHI, VIZI E DIFETTI. EDUCAZIONE O ISTINTO?

1 Dicembre 2019 Pubblicato da

 

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il Maestro Aurelio Porfiri ci ha mandato un altro articolo della serie molto interessante e ricca di spunti dedicata alla musica sacra e alla liturgia che sta scrivendo per Stilum Curiae. Buona lettura.

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“Se ti viene l’idea di farti fare un ritratto a chi ti rivolgi? A un pittore. E da questo pittore cosa ti aspetterai? Che sia almeno in grado di fare ritratti”. No, non vi siete sbagliati: è proprio l’articolo che deve parlare della formazione liturgico-musicale di chi, a vario titolo, opera nella liturgia. Ma allora, vi chiederete giustamente, perché questo esordio invero un po’ originale. È solo per entrare subito nel cuore della questione. Lo faccio proponendovi una similitudine e “pretendendo” una vostra posizione in merito. Se ti fai fare un ritratto, ti piacerà che il pittore sappia dipingere? Se devi andare a fare un regalo, compri qualcosa che vale e ti faccia fare bella figura o prendi quello che capita, qualunque cosa ne pensi il destinatario? Se ti devi fare un vestito, ne scegli uno dignitoso o pure ti accontenti di quattro panni lacerati fatti da qualcuno che, però, malgrado il risultato, “lo fa con il cuore”? Voi ora prevedete un inganno e invece no. La vostra risposta, è anche la mia e quella di tutte le persone di buon senso. Chi cerca un servizio, pretende che chi lo fornisce sia all’altezza di fare questo servizio. Sembra logico, quasi banale. Per la musica liturgica in Italia, questa risposta invece non è così scontata.

Educazione o istinto

 Spesso, nelle nostre assemblee, il valore più importante che viene rispettato, non è la preparazione minima, ma il giovanilismo (che sta alla gioventù come l’infantilismo sta all’infanzia), il mettere avanti le cose fatte con il “cuore” e con pulsioni istintuali ed emozionali (ma perché chi studia musica le cose poi le fa con il fegato?), il dire che facciamo quello che possiamo (e Dio solo sa quanto questo non è vero). Insomma si elude in ogni modo l’unica domanda seria: ma perché chi fa la musica nella tua parrocchia, nella tua comunità, nel tuo monastero, nella tua diocesi, non è veramente preparato a svolgere questo servizio? Certo, lo so anche io che non è sempre e dovunque così, che ci sono molte persone di buona volontà e di buona preparazione che si danno molto da fare, ma sempre ci si scontra con i contestatori ad oltranza, con coloro che, senza nessuna preparazione specifica (e, quel che è peggio, senza nessuna voglia di averla), vanno da parroci, superiori, aiutanti e dicono che bisogna fare le musiche per la gente, che bisogna incrementare le chitarre, che ci vogliono canti vivaci, che il coro fa il protagonista (invece loro…)…e talvolta (ma il cuore mi induce a dire spesso) trovano chi gli dà retta. Spesso queste persone sono di due categorie: o hanno superato i quaranta e vivono ancora l’eco delle contestazioni che da giovani tanto li entusiasmavano (“abbasso l’autorità!”, “lotta dura senza paura!”, “Voi suonerete i vostri organi, noi suoneremo le nostre chitarre!”) e che chiameremo per comodità “sessantottini”, o sono molto più giovani e contestano perché è più semplice che informarsi sull’argomento loro a cuore (riecco il cuore!). Queste due categorie non sono fatte da cattive persone, ma solo da persone poco informate e che affrontano con superficialità una materia che meriterebbe ben altra attenzione. E, sia detto sinceramente, hanno anche qualche ragione nel voler cantare qualcosa in cui possano riconoscersi. Purtroppo chi dovrebbe non glielo fornisce e, quindi, loro si portano “il pranzo da casa” (cioè si rifanno a musiche orecchianti i motivetti che più spesso sentono alla radio o in televisione o su YouTube). A questo punto del discorso mi sento anche in imbarazzo perché non so se è più colpevole chi stà dalla parte loro o chi stà dalla parte mia.

I caratteri che contraddistinguono questi gruppi di contestazione alla tradizione musicale liturgica più o meno aggiornata del rito romano, possono essere avvicinati, secondo la brillante classificazione di Umberto Eco a quelli delle avanguardie, contrapposte agli sperimentalisti (Umberto Eco, “Sugli specchi e altri saggi”, Bompiani, Milano 1998 (ed. originale 1985) pag. 96-98). Sperimentare, significa innovare nella tradizione, significa rinnovare mettendosi sulle spalle di giganti (i nostri grandi predecessori) per vedere più lontano di loro. Le avanguardie invece, come loro ragione quasi costitutiva, hanno quella della contestazione del passato in quanto passato, del nuovo per il nuovo. Osserviamo i caratteri che l’illustre semiologo indica come costitutivi di tutti i gruppi d’avanguardia, accompagnandoli con i nostri commenti “attualizzanti” all’argomento del nostro scritto. Questi caratteri sono: 1) attivismo (e in effetti i sostenitori delle posizioni di cui sopra sono sempre molto attivi e impegnati nelle varie attività parrocchiali); 2) antagonismo (questo è palese a chiunque ha a che fare con un coro ed un gruppo “giovani”; 3) nichilismo (per loro duemila anni di tradizione musicale non sono neanche da considerare, l’oggi cancella tutto); 4) culto della giovinezza (no comment…); 5) ludicità (la liturgia come momento aggregante e festaiolo); 6) agonismo (opposizione ferma fino alle estreme conseguenze a posizioni culturali diverse); 7) rivoluzionarismo e terrorismo (terrorismo non nel senso eversivo del termine, ma come componente di una voglia di rivoluzione culturale che poi rivoluzione non è, anzi, i veri rivoluzionari e terroristi sembriamo noi che proponiamo alternative all’omologazione musicale imperante…); 8) autopropaganda (cercare di convincere tutti che la loro posizione è quella giusta, magari seguito dall’immancabile “siamo nel duemila, ancora stiamo con quella musica…”); 9) prevalenza della poetica sull’opera (il proprio modello è valido non perché ha prodotto qualcosa di significativo, ma è valido perché discende da un pensiero che lo rende autoritario). Queste categorie suggerite da Umberto Eco, devono essere completate da un’altra categoria che aggiungo io, e che contraddistingue i nostri soggetti: disinformazione. Le molte persone che agiscono così, sono quasi sempre in buona fede, solamente sono liturgicamente e musicalmente disinformati e si attaccano a quello che meglio conoscono (una musica “leggera”). Se fossero più informati sarebbero degli ottimi soldati della buona battaglia.

Inquadramento storico

Questa volta, l’inquadramento storico non sarà lungo e dettagliato come nelle parti precedenti, e questo per varie ragioni. La più importante è che mi sembra inutile dover dimostrare una cosa così scontata come quella che chi presta un servizio artistico, anche nell’ambito di una celebrazione liturgica, deve essere preparato. Sembra ovvio che tutti i pontefici e i concili non hanno detto mai nulla che contraddice queste parole (tanto meno la SC). Certo, un qualche mutamento di prospettiva c’è stato, e lo noteremo tra poco. Ma sul fatto che bisogna formarsi, questo non è neanche in discussione (almeno a parole). Prendendo il Motu proprio “Tra le sollecitudini” del 22 novembre 1903 di San Pio X, il documento della riforma della musica sacra e su cui ci siamo brevemente soffermati in precedenza; vi troviamo molte esortazioni alla formazione liturgico-musicale: “Nei seminari dei chierici e negli istituti ecclesiastici, giusta le prescrizioni tridentine, si coltivi da tutti con intelligenza ed amore il prelodato canto gregoriano tradizionale, ed i superiori siano in questa parte larghi d’incoraggiamento ed encomio coi loro giovani sudditi. Allo stesso modo, dove torni possibile, si promuova tra i Chierici la fondazione di una Schola Cantorum per l’esecuzione della sacra polifonia e della buona musica liturgica.” (25). “Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di morale, di gius canonico che si danno agli studenti di teologia non si tralasci di toccare quei punti che più particolarmente riguardano i principii e le leggi della musica sacra(…)” (26).  “Si procuri di sostenere e promuovere in ogni miglior modo le Scuole superiori di musica sacra dove già sussistono e di concorrere a fondarle dove non si possiedono ancora. Troppo è importante che la Chiesa stessa provveda all’istruzione dei suoi maestri, organisti e cantori, secondo i veri principi dell’arte sacra.” (28). Come vediamo, il grande documento dice chiaramente che la formazione è compito imprescindibile della stessa struttura ecclesiastica. Una osservazione può però essere fatta: da quanto si legge nel documento, si evince che la musica sacra è “roba di preti”. Forse ai laici si pensa, forse li si sottintende, ma da questo benemerito documento non si tira fuori che li si considera (malgrado gli esempi storici numerosi) come potenziali attori primari nel campo della musica liturgica. Essi sono, indistintamente, “il popolo”. I cantori, per la maggior parte laici (e nel documento sono chiamati “secolari”) vengono contemplati e viene prescritto come devono vestire (con l’abito ecclesiastico, cioè cotta e tonaca) e viene specificato che essi sono un surrogato del coro ecclesiastico. Insomma, l’atteggiamento è ben chiaro e preciso: non è ancora il tempo dei laici (almeno sui documenti, perché nella pratica moltissimi organisti, maestri, cantori e compositori valentissimi saranno proprio laici). Saltando a sessanta anni dopo, alla nostra costituzione conciliare, riguardo all’argomento del presente articolo troviamo scritto: “Si curi molto la formazione  e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche. Per raggiungere questa formazione si abbia cura di preparare i maestri destinati all’insegnamento della musica sacra.

Si raccomanda inoltre, dove è possibile, l’erezione di istituti superiori di musica sacra.

Ai musicisti, ai cantori e in primo luogo ai fanciulli si dia anche una vera formazione liturgica.” (SC 115). Forse a qualcuno questo testo non sembra segnare un mutamento di rotta deciso rispetto al motu proprio ma io credo che non è così. L’accenno finale alla formazione liturgica di musicisti, cantori e fanciulli mi sembra già importante e significativo; e ancora di più lo è se leggiamo questa affermazione nel contesto dell’intero documento. Domandiamoci piuttosto: quanto è stato fatto? Probabilmente troppo poco, troppo poco per poter dire che il cammino fatto dal motu proprio alla costituzione conciliare del Vaticano secondo sia stato un progresso piuttosto che un arretramento deciso verso la svalutazione del ruolo e dell’importanza della musica nella liturgia.

Alcuni problemi aperti

Una constatazione se vogliamo sciocca: se da una persona vuoi pretendere qualcosa, bisogna anche che gli dai qualcosa o perlomeno che la sostieni. Prepararsi liturgicamente  e musicalmente non è una cosa che si può fare a tempo perso, richiede tempo e investimento economico e, sarebbe giusto, che chi si sobbarca questi impegno sia poi sostenuto dalla comunità per potersi dedicare a pieno tempo al suo servizio liturgico senza avere altri affanni. Insomma, il musicista liturgico deve essere trattato come una figura professionale. Questo è uno dei grandi mali della nostra situazione italiana: il musicista non deve essere pagato in generale secondo alcuni, figuriamoci chi suona in chiesa. Ma perché? Quando si fa questa domanda ti tirano fuori tutti i discorsi che si va in chiesa per fede, non per soldi e via dicendo. Ma tutti capiamo che questo discorso è molto mal posto. Certo nessuno deve pagarmi per pregare in chiesa, ma se io presto un servizio alla comunità è giusto che la stessa mi metta nelle condizioni di poterlo fare liberamente. Tutti coloro che hanno studiato musica sanno quanto sia anche costoso dal punto di vista economico e come comporti un notevole dispendio di energie e tempo. Da noi la mentalità, specie, devo dire, in molto clero, non accenna  a cambiare. Diverso è in altri paesi. La mia esperienza è quella degli Stati Uniti d’America. Io sono stato il director of music della chiesa americana in Roma e ho potuto constatare di persona come il rapporto che si instaura tra il musicista e la comunità è di tutt’altro tipo. Ero retribuito in una posizione di part-time e mi venivano regolarmente versati i contributi. Negli Stati Uniti molti vivono facendo questo mestiere (cosa da noi impensabile, me compreso). Sono pagati e pienamente coinvolti nella vita della loro parrocchia o cattedrale. Hanno spesso più di un coro e la musica che cantano è sovente di autori contemporanei. Alcuni di questi autori ho avuto l’opportunità di incontrarli personalmente come Michael Joncas che ho intervistato per la rivista “La vita in Cristo e nella Chiesa”, circa anni fa. Questi autori sono famosissimi negli Stati Uniti, collaborano spesso tra loro e fanno anche concerti insieme. Da noi questo è quasi impensabile. Ogni autore è un’isola a sé, sempre pronto a giudicare con  la parola “musicaccia” quello che non è fatto da lui. O nella migliore delle ipotesi si mostra rispetto per altri autori ma sempre mantenendosene ben lontani. Credete, le eccezioni sono poche. Se gli operatori musicali nostrani pensano ad autori contemporanei entrati effettivamente nell’uso delle comunità che celebrano l’eucarestia, penso che devono constatarne la rarità. Tranne quegli autori che si esprimono con un linguaggio molto simile, se non uguale a quello della musica cosiddetta “leggera”, e le composizioni emanate dai movimenti ecclesiali, gli autori più accademicamente preparati non brillano per la loro diffusione. Onestà intellettuale vorrebbe che ci si domandasse: perché? Cosa non va in chi fruisce di queste musiche? Certo, è vero che ricalcando certi modelli musicali che si rifanno a quella che, prendendo a prestito la definizione data da un celebre semiologo, viene definita la “competenza musicale comune” si ottiene un accesso più immediato alla massa delle persone. Ma noi che crediamo che la musica liturgica deve avere anche una funzione di arricchimento di chi la fruisce, ci chiediamo se questo stesso arricchimento viene lo stesso garantito facendo leva su facili emozionalismi. E’ la stessa differenza che passa tra chi mangia per vivere e chi vive per mangiare. Si scambia il mezzo per il fine. Il cibo non è il fine della vita, ma un mezzo indispensabile che ti permette di viverla L’emozione non è il fine della liturgia ma un vettore fondamentale che ti permette di accedere ad altro. Certo, l’emozione è un mezzo importante per arrivare ad altro, e in questo la musica è mezzo privilegiato. Ma suscitare un facile emozionalismo superficiale, senza un approfondimento compositivo, spirituale ed estetico è ugualmente utile a chi frequenta a vario titolo le celebrazioni? Le emozioni, in se stesse, sono un terreno pericoloso e molto scivoloso, bisogna maneggiarle con cura. Contando che poi spesso la gente semplice, come la stragrande maggioranza di quella che frequenta le nostre chiese, talvolta è sollecitabile ad un livello emozionale molto superficiale, ci rendiamo conto che rischiamo di farci sfuggire qualcosa di molto importante. Ascoltiamo questa riflessione di Samuel Butler “Il Times dice che le canzoni del reverendo Mr. Knight, benché prive di valore artistico, erano piene di vero sentimento. Come se una canzone piena di vero sentimento potesse essere priva di valore artistico.” Badate bene, non è qui in discussione l’emotività nella liturgia. Ho potuto leggere su questo tema dei contributi veramente interessanti di due liturgisti come Silvano Maggiani e Giorgio Bonaccorso su “Rivista di Pastorale Liturgica”; le riflessioni suscitate dalle loro puntualizzazioni sono preziose. Guai a noi se facessimo a meno dell’emozione nella liturgia. Questo anche ci è dato vedere in molti riti asettici, freddi, in cui il rito svuotato della sua funzione diviene un contenitore di parole senza carne e gesti lontani, che non ci appartengono. Sì alle emozioni, no al loro abuso.

Dunque perché alcuni non funzionano, pur se ottimamente preparati tecnicamente e formati liturgicamente? Io credo sia un corto circuito comunicativo. Se noi siamo appassionati di archeologia e frequentiamo le lezioni di un dottissimo professore che ci parla delle prime case sul Palatino con dovizia estrema di particolari ma con linguaggio ridondante, lungo nel periodare, baroccheggiante, noi, pur se interessati sconteremmo la pena di dover seguire un’esposizione  percepita genericamente come “pesante”. Ma se lo stesso professore dicesse proprio le stesse medesime cose, con un linguaggio chiaro, coinvolgente e che, soprattutto, tiene presente chi lo ascolta, che poi è lo scopo fondamentale per cui quel tizio sta lì a parlare, non ci sembrerebbe tutto ciò più invitante? Certamente, ne sono sicuro. Così per molti compositori. Talvolta sembrano non dare attenzione a chi poi, praticamente, dovrà fruire del loro lavoro. Io credo che un bravo compositore nell’oggi, per capire la gente che dovrà fruire del suo lavoro, deve guardare la televisione, andare al cinema, navigare su internet, deve leggere i giornali, insomma deve essere un’esegeta del momento presente, l’unico che ci è dato vivere e che sconteremo per tutta la vita. Certo non deve fare solo quello, ma quello non gli deve essere ignoto. Io invece conosco molti musicisti per la liturgia chiusi all’esterno e alle sollecitazioni culturali dell’oggi, assolutamente contrari ad ogni contaminazione con il mondo che ci circonda. Per cambiare il mondo, lo devi conoscere, per poterlo interpretare non ti deve essere completamente ignoto. Certamente non dobbiamo buttarci nelle braccia del mondo, dobbiamo ben conoscere quello che vogliamo proporre, la tradizione, le tecniche necessarie per fare della buona musica liturgica: ma dobbiamo sempre tener presente coloro che poi fruiranno delle creazioni che vengono preparate per la liturgia.

Ritorniamo alla questione della formazione: a cosa si viene formati? Alcune esperienze danno una formazione basandosi solo sul passato, visto come bello, buono e puro in confronto al presente. Altre esperienze il passato lo ignorano rispetto al presente visto come vivo, spontaneo ed emozionante. Insomma, tra queste pulsioni spazio-temporali, non c’è posto per una terza via? Come dicevo anche sopra, credo sia giusto che si fornisca alla comunità un repertorio che le piace cantare e non per questo deve essere musica scadente. Chi scrive deve aver presente chi poi praticamente dovrà usufruire delle sue composizioni e sono spesso proprio quei ragazzi che ci passano accanto e che hanno nelle orecchie un mondo musicale che non può essere completamente ignorato (il che non vuol dire che deve essere completamente accettato ma va almeno conosciuto, prima di condannarlo). Noi non scriviamo per fare piacere ai nostri amati insegnanti di composizione, ma siamo un ponte che porta qualcosa a qualcuno e per interessare il ricevente si deve usare un codice adeguato allo stesso, ma non adeguato al punto che tradisca il messaggio di partenza. Per la formazione bisogna domandarsi: a cosa ci si forma? Dove dobbiamo partire? E, soprattutto, dove e a chi dobbiamo arrivare? Cosa dobbiamo portare con noi e cosa possiamo tralasciare? Ripeto che l’impulso decisivo alla formazione ci sarà quando si prevederà un inquadramento professionale per chi canta, suona, dirige nella liturgia. Allora si potrà pretendere molto. Credete, questa non è avidità, è solo giustizia. Altrimenti ci si dovrà accontentare dei musicisti a tempo perso. Ma il salto qualitativo al nostro modo di celebrare la liturgia, così, non avverrà mai.

Aurelio Porfiri

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5 commenti

  • Milli ha detto:

    Dalle mie parti, qualcuno lo chiama il triangolo Milano-Parma-Cremona, il coro è un istituzione molto sentita in tutte le parrocchie e anche i parsi più piccoli cercano di avere un organista preparato (a volte viene pagato, ma non si sa bene).
    Il repertorio disponibile è vasto, si può andare dai canti del Rinnovamento dello Spirito , ai canti di Frisina, ai canti della tradizione popolare , andando indietro a Bach, Franck, Palestrina e il Gregoriano, che viene considerato, perdonatemi l’espressione, come l’abito buono da tirare fuori nelle occasioni importanti.
    Il popolo apprezza la buona musica, se è abituato ad ascoltarla, il problema è attirare nuove leve.
    Ieri mi è capitato di vedere in tv XFactor che penso sia uno specchio dei gusti commerciali dei giovani. A parte i soliti rap, anche negli altri generi la musica sembra scomparire, sostituita da raffiche di parole e ritmi elettronici o tribali, tranne poche eccezioni.
    Povera generazione millenial.

  • I love anguera ha detto:

    Per MARIO e CARLONE; ZANCHETTA e GALANTINO; PAGLIA, CARBALLO e PADREPASQUALE;
    e per tutti quelli che negano l’evidenza in quanto ignari, ottusi, allocchi, succubi, collusi o leccapiedi.
    Una dedica speciale per il SOMMO MISERANDO (per nulla affatto ELIGENDO)
    https://cronicasdepapafrancisco.files.wordpress.com/2019/09/08-bergoglio-ombra-2.jpg
    e per gli altri MISERANDI che operano come PASDARAN presso la CIVC-SVA:
    http://www.congregazionevitaconsacrata.va/content/vitaconsacrata/it/congregazione/organigramma.html
    la vostra “rivoluzione della tenerezza” altro non è che una “dittatura dell’arroganza”. VERGOGNATEVI!
    DAI MESSAGGI MARIANI di ANGUERA:
    https://www.apelosurgentes.com.br/it-it/mensagens/
    https://gloria.tv/video/s6UVTaQQhfGY3Du7ixyPKvpPc

    «Cari figli, due templi e un’unione; La Città dei Sette Colli e la Terra della Santa Croce (Brasile). La sofferenza verrà per gli uomini e le donne di fede. Quello che vi dico non potete comprenderlo ancora, ma vi chiedo di intensificare le vostre preghiere in favore della Chiesa del Mio Gesù» (Messaggio, 30 nov. 2019).
    Memorizziamo bene questa parole (al momento misteriose), perché prima o poi le capiremo. E potranno confermarci ulteriormente nella credibilità di Anguera. Il tempo è galantuomo.

  • Rafael Brotero ha detto:

    Per fare buona musica ci vuole una ottima conoscenza dell’arte della musica. Quelli che hanno questa ottima conoscenza sono professionisti. I professionisti cercano soldi e oggi il big money non è tra le mani della Chiesa, ma tra quelle dei suoi nemici. Aggiungasi a questo l’agonia della fede, della teologia e della liturgia e abbiamo la cloaca della musica liturgica bergogliana.

  • Presepe vivente ha detto:

    È il presepe vivente più bello d’Italia (e quindi del mondo).
    Tutti gli anni, a BRECCIAROLA di CHIETI, la sera del 26 dicembre,
    presso il “Villaggio della Speranza”, dell’Opera FAGEM.
    Visitatelo, perché ne vale proprio la pena!
    È uno spettacolo meraviglioso (con ingresso gratuito)!
    http://www.presepeviventebrecciarola.it/