LA CAPPELLA SISTINA. IL MAESTRO PORFIRI: IL PROGRESSO SIA, MA GRADUALE.

18 Agosto 2019 Pubblicato da

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, il Maestro Aurelio Porfiri continua con il suo lavoro di riflessione storica, e di commento per il futuro, sulla Cappella Sistina d recente affidata a interim in attesa che si decida chi sarà il nuovo responsabile. Buona lettura.

 

PROGRESSO GRADUALE

Il progresso nella scuola romana è sempre stato graduale, non ha mai proceduto a strappi. Quando dal gregoriano si è passato alla polifonia – un cambiamento importante di paradigma – il nuovo stile si innestava direttamente nel cuore del primo. La polifonia era un’amplificazione del canto gregoriano, non ne era un rinnegamento. Il modello rimaneva, come doveva essere, il canto gregoriano. Veniva adottato un processo naturale di crescita, un processo graduale di cambiamento nella continuità. In questo caso potremmo vedere una “ermeneutica della continuità” nel senso che ci ha trasmesso il Papa emerito Benedetto XVI e che si ritrova negli studi sul Concilio Vaticano II dell’Arcivescovo Agostino Marchetto.  Non che non ci siano stati abusi nel passaggio fra la monodia e la polifonia (non possiamo comunque dimenticare che per alcuni studiosi di area francese al di fuori del dominio solesmense il gregoriano non fu mai soltanto monodico, ma questo è un discorso che è bene non sviluppare qui). Ricordiamo che il papa Giovanni XXII ammonì con la Docta Sanctorum Patrum (1322) gli “esponenti di una nuova scuola” di andarci piano con le loro sperimentazioni a sfavore del canto gregoriano.

Ma in effetti, lo strappo che ci fu negli anni successivi al Concilio, anche nel campo della musica sacra, fu anche in questo senso profondamente anti tradizionale e certamente andò in una direzione contraria rispetto al modo in cui le grandi scuole artistiche, liturgiche e teologiche avevano fino a quel momento proceduto. In realtà il Concilio aveva detto tutt’altro, aveva veramente sposato un principio tradizionale nel dire:  “Per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre devono essere prese in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalle più recenti riforme liturgiche e dagli indulti qua e là concessi. Infine non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti” (23). Se si fosse letto con più attenzione questo passaggio si sarebbe evitato tutto il bailamme di cambiamenti o arretramenti a cui abbiamo dovuto assistere negli ultimi cinquant’anni. Si afferma chiaramente che le nuove forme devono scaturire da quelle tradizionali. Come questo è possibile quando non si ha più esperienza delle forme tradizionali? Quando esse sono di fatto estromesse dalla liturgia? Dovreste vedere la faccia del fedele medio quando in una parrocchia qualcuno “osa” proporre un canto in latino o polifonico, sembra per loro una cosa dell’altro mondo.

Non è certamente romana né la furia di cambiamento che si è scatenata sulle nostre liturgie, così come l’immobilismo di alcuni che non concepiscono nessuno processo di adattamento dai grandi repertori tradizionali, adattamento che fu fatto in ogni epoca anche se sempre tenendo presente il primato della grande Tradizione. Il 15 agosto 1832 Papa Gregorio XVI emanava l’enciclica Mirari Vos, in cui veniva proprio messo in luce l’aspetto di cui parlavamo, la furia di cambiamento smodata. Come si vede siamo 130 anni prima del Concilio che, forse, è stato un punto di arrivo di certi problemi, più che un punto di partenza. Leggiamo un passaggio dell’enciclica anche per gustare il bel linguaggio ecclesiale di alcuni decenni fa: “Diciamo cose, Venerabili Fratelli, le quali avete voi pure di continuo sotto gli occhi vostri e che deploriamo perciò con pianto comune: superba tripudia l’improbità, insolente la scienza, licenziosa la sfrontatezza. Vien disprezzata la santità delle cose sacre, e l’augusta maestà del divin culto che pur tanto possiede di forza e di necessità sull’uman cuore, indegnamente da uomini ribaldi si riprova, si contamina e oggetto rendesi di ludibrio. Quindi si travolge e perverte la sana dottrina ed errori d’ogni genere si disseminano audacemente. Non leggi sacre, non diritti, non istituzioni, non discipline quali siansi più sante, sono al coperto dell’ardire di costoro, che solo eruttano malvagità dalla sozza loro bocca. Bersaglio di incessanti durissime vessazioni è fatta questa Romana Nostra Sede del Beatissimo Pietro, nella quale Gesù Cristo stabili la immobile base della sua Chiesa; ed i vincoli dell’unità di giorno in giorno sempre più s’indeboliscono e si disciolgono. Si oppugna la divina autorità della Chiesa, e calpestandone i diritti, assoggettare si vuole a ragioni terrene e con eccesso d’ingiustizia tentasi di renderla odiosa ai popoli, mentre si riduce ad ignominioso servaggio. Intanto si infrange l’ubbidienza dovuta ai Vescovi, e la loro autorità vien conculcata. Echeggiano orribilmente le Accademie e le Scuole di mostruosa novità di opinioni, con cui non più occultamente e con secrete mine la Cattolica fede si attacca, ma scopertamente e sotto gli occhi di tutti orrida e nefanda guerra le si muove. Imperocché corrotti gli animi dei giovani allievi per gli Insegnamenti viziosi, e per i pravi esempi dei precettori, si è dilatato ampiamente il guasto lacrimevole della religione ed il funestissimo pervertimento dei costumi. Scosso per tal maniera il freno della Santa Religione, che è la sola sopra cui si reggono saldi i Regni, e ferma si mantiene la forza e l’autorità di ogni dominazione, vedesi aumentare la sovversione dell’ordine pubblico, la decadenza dei Principati e il disfacimento di ogni legittima potestà. Ma un ammasso si enorme di disavventure devesi in speciale modo ripetere dalla cospirazione di quelle società, nelle quali sembra essersi accolto, come in sozza sentina, quanto v’ha di sacrilego, di abominevole e di empio nelle eresie e nelle sètte più ree”. Nelle parole del Pontefice tanto rappresentato nei sonetti del grande Giuseppe Gioachino Belli, echeggiano in modo pomposo alcuni di quei problemi che verranno poi fuori nei decenni a venire, malgrado l’invito anche nel Vaticano II a sposare il progresso organico e graduale. Questo fu sempre fatto a Roma, fino a qualche decennio fa. Mi si dece far capire come è questo processo graduale quando si è parlato dai repertori in latino ai canti con le chitarre. Certo non si fanno le liturgie con le chitarre quando canta la Cappella Sistina (almeno non ancora) ma anche il repertorio della stessa ha subito un decremento certo impressionante per aderire a “nuove esigenze liturgiche”, quando non si è però comsiderato che solo mantenendo quella tradizione come un tesoro della Chiesa poteva garantire una reale crescita anche qualitativa dei desiderati repertori in volgare. Benedetto XVI nella sua lettera che accompagnva il Motu Proprio Summorum Pontificum affermava:  “E’ vero che non mancano esagerazioni e qualche volta aspetti sociali indebitamente vincolati all’attitudine di fedeli legati all’antica tradizione liturgica latina. La vostra carità e prudenza pastorale sarà stimolo e guida per un perfezionamento. Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico  potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione “Ecclesia Dei” in contatto con i diversi enti dedicati all’”usus antiquior” studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale. (…) Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso“. Mi sembra una vautazione che possa essere riconosciuta come prudente, si cresca pure nella comprensione della liturgia ma senza rinnegare, o addirittura rigettare, i tesori del passato. Don Nicola Bux, così commenta sulla comcezione liturgica di Joseph Ratzinger: “Cos’era successo secondo Ratzinger? Nel post-concilio, la Costituzione liturgica non è stata più compresa a partire dal primato fondamentale dell’adorazione, ma come una raccolta di ricette su quel che si può fare con la liturgia. E’ venuta poi la secolarizzazione della liturgia, causata dall’introduzione di novità e varianti nel nuovo rito, non previste dal concilio Vaticano II, né dalla Costituzione Missale Romanum di Paolo VI. Nel 2003, quarantesimo anniversario della Costituzione liturgica, il cardinale l’aveva letta in retrospettiva e in prospettiva: «nell’applicazione del mandato conciliare è potuto facilmente accadere che l’equilibrio del testo conciliare sia stato disturbato per uno spostamento unilaterale in una certa direzione”[…]Chi è del parere che non tutto in questa riforma sia riuscito,e che alcune cose siano modificabili o addirittura abbiano bisogno di una revisione, non è, per questo, un nemico del “Concilio”». Anche perché – tornerà a ricordarlo da pontefice – sono state le «deformazioni della liturgia al limite del sopportabile», i reati e gli abusi, a fare il più“. Lo stesso Joseph Ratzinger, commentando un libro di Alcuin Reid sullo sviluppo organico della liturgia così affermava: “Ci sono gli strenui difensori della riforma, per i quali è una colpa intollerabile che, a certe condizioni, sia stata riammessa la celebrazione della santa Eucaristia secondo l’ultima edizione del Messale prima del Concilio, quella del 1962. Allo stesso tempo, però, la liturgia è considerata come “semper reformanda”, cosicché alla fine è la singola “comunità” che fa la sua “propria” liturgia, nella quale esprime sé stessa. Un Liturgisches Kompendium [Compendio liturgico, ndr] protestante (curato da Christian Grethlein e Günter Ruddat, Göttingen 2003) ha recentemente presentato il culto come «progetto di riforma» (pp. 13-41) riflettendo il modo di pensare anche di molti liturgisti cattolici. D’altra parte vi sono anche i critici accaniti della riforma liturgica, i quali non solo criticano la sua pratica applicazione, ma anche le sue basi conciliari. Essi vedono la salvezza solo nel totale rifiuto della riforma. Tra questi due gruppi, i riformisti radicali e i loro avversari intransigenti, viene a perdersi spesso la voce di coloro che considerano la liturgia come qualcosa di vivo, qualcosa che cresce e si rinnova nel suo essere ricevuta e nel suo attuarsi. Costoro, peraltro, in base alla stessa logica, insistono anche sul fatto che la crescita è possibile solo se viene preservata l’identità della liturgia, e sottolineano che uno sviluppo adeguato è possibile soltanto prestando attenzione alle leggi che dall’interno sostengono questo “organismo”. Come un giardiniere accompagna una pianta durante la sua crescita con la dovuta attenzione alle sue energie vitali e alle sue leggi, così anche la Chiesa dovrebbe accompagnare rispettosamente il cammino della liturgia attraverso i tempi, distinguendo ciò che aiuta e risana da ciò che violenta e distrugge. Se le cose stanno in tal modo, allora dobbiamo cercare di definire quale sia la struttura interna di un rito, nonché le sue leggi vitali, così da trovare anche le giuste strade per preservare la sua energia vitale nel mutare dei tempi, per incrementarla e rinnovarla”. Anche qui, sembra un richiamo saggio alle leggi del sano e legittimo progresso, che potrebbero essere applicate anche per la musica, ma che sono in realtà state ampiamente disattese.

Se perdiamo l’idea della distanza che ci separa da Dio e che viviamo anche nella liturgia, il progresso che cerchiamo nella stessa non potrà mai essere efficace. Lo diceva bene don Divo Barsotti: “Miei cari fratelli, l’unica cosa che ci salva, se vogliamo essere salvi sul piano di Dio, è un’umiltà, la più profonda e la più vera. Sentirci sempre ad infinita distanza, nonostante che Dio ci solleciti, nonostante che la Sua grazia continuamente ci sospinga. Sentire questa infinita distanza é l’unica garanzia di esser nella verità. Non è forse vero che i santi, quanto più sono santi, tanto più si sentono peccatori? Ma non lo so se voi vi sentite più lontani da Dio oggi di quando non avevate sentito nemmeno parlare della Comunità, di quando voi eravate del tutto lontani da Dio e non volevate saper nulla di Lui. Vi sentite più peccatori ora o allora? Se vi sentite più peccatori ora, si può dire che le cose non vanno proprio male, perché è evidente che non ci si accosta a Dio che nella misura che abbiamo la percezione di questa sproporzione infinita che vi è fra noi e la divinità, fra noi e la santità assoluta di Dio. San Francesco si sente peggiore di Lucifero. Se dicessi a voi che siete peggio del diavolo, voi mi mandereste davvero al diavolo. San Francesco disse che era peggiore di Lucifero, proprio negli ultimi anni della sua vita, quando si trovava sul Monte della Verna e riceveva le stimmate. Perché si sentiva peggiore di Lucifero? Ma perché aveva la conoscenza reale di Dio più di quanto ne abbiamo noi, e perché aveva una vera conoscenza di se stesso. Noi ci illudiamo troppo facilmente“. Con l’idea di rendere la liturgia più familiare, l’abbiamo solo resa più povera. Penso che fu sempre questa l’intenzione di mantenere la tradizione della scuola romana in istituzioni come la Cappella Sistina, serviva a fare in modo che il progresso non procedesse al di fuori della Tradizione. Ma questo non per fermarci, per un immobilismo sterile. Ancora Divo Barsotti: “Il cammino dell’uomo è precisamente questo sollevarsi dell’essere umano verso una perfezione che lo sorpassa. Camminare vuol dire non essere fermi: ma che cosa vuol dire non essere fermi? È proprio dell’essere umano, della nostra natura, il non avere in sé una perfezione già compiuta; è proprio dell’essere umano, invece, cercarla, realizzarla ogni giorno di più. L’uomo è uomo soltanto se non è fermo; è uomo soltanto se progredisce, soltanto se tende al di là di ogni perfezione raggiunta, in un cammino in cui egli non potrà trovare riposo, perché il termine che Dio ha assegnato all’uomo è precisamente questo ideale: di essere secondo la sua immagine e la sua somiglianza“. Ricordiamo che la Chiesa cattolica è stata nel passato la madre dei più grandi progressi artistici, scientifici, sociali; ma sempre perché ancorata alla Tradizione.

Il detto latino natura non facit saltus – la natura non fa salti – ripreso da Linneo e Leibniz, può esemplificare bene questo tipo di percorso e processo. che avviene allo stesso modo dei cambiamenti in un organismo umano, che sono molte volte di natura adattiva. Questa natura adattiva è anche importante da tenere in considerazione. Le scuole cambiano per adattare il loro patrimonio tradizionale alle esigenze moderne, ma non sacrificano il loro patrimonio tradizionale alle esigenze moderne. Mantenere il fuoco della tradizione vivo, e non adorarne le ceneri, è atteggiamento che fu sempre tenuto presente nella scuola romana così come in tutte le grandi scuole, anche se al giorno d’oggi tutto questo, purtroppo, si è perso e ci sono poche speranze che qualcosa si possa recuperare. Non è più possibile quel contatto vivo con la grande tradizione della scuola romana, e le poche realtà che resistevano allo sfacelo che si andava vivendo, piano piano sono destinate a scomparire.

L’immobilismo romano, è più un vizio che una realtà. In effetti i papi sempre cautamente appoggiavano innovazioni quando esse scaturivano organicamente dalla tradizione. La stessa bolla Docta Sanctorum Patrum di Giovanni XXII nel XIV secolo, di cui abbiamo già parlato, non condannava la polifonia per se, ma condannava gli abusi che si verificavano nell’introduzione di questo nuovo genere. Cercava insomma, di instradare la polifonia su sentieri più consoni alla dignità della celebrazione.

Aurelio Porfiri


(Foto di Leo di Capua)



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2 commenti

  • Anima smarrita ha detto:

    Ogni mio commento suonerebbe come atto di superbia dopo la riproposizione di così eloquenti pagine del Magistero, alla cui fonte bisognerebbe attingere per attuare quel rinnovamento – sempre ammesso entro convenevoli limiti, fino al citato di Benedetto XVI – con spirito di umiltà e servizio al bene superiore. E: sull’esempio di San Francesco, qui rievocato – nel rinvio a don Barsotti – nel riconoscersi: «peggiore di Lucifero, proprio negli ultimi anni della sua vita, quando si trovava sul Monte della Verna e riceveva le stimmate. Perché si sentiva peggiore di Lucifero? Ma perché aveva la conoscenza reale di Dio più di quanto ne abbiamo noi, e perché aveva una vera conoscenza di sé stesso. Noi ci illudiamo troppo facilmente».
    In una intervista ad A. M. Valli, ripercorrendo la storia, a partire dalla sua progettazione, e l’attività dell’Istituto Giovanni Paolo II, oggi soggetto all’approvazione dei nuovi Statuti e dell’Ordinamento degli studi, il prof. Stanislaw Grygiel che ne è stato docente ha affermato senza giri di parole: «Non si rinnova la casa distruggendola, inclusi i suoi fondamenti». Lapalissiano! e presupposto aureo per un armonico ammodernamento in ogni settore.